Guinizzelli (Guinizelli), Guido
Non del tutto pacifica l'identificazione di questo rimatore del Duecento letterario italiano. A quella tradizionale, che lo voleva della famiglia dei Principi e podestà di Castelfranco, uno dei cinque figli di quel Guinizzello di Bartolomeo che morì verso la fine del 1270 (la tradizione risale a Benvenuto: " iste quidem fuit miles bononiensis de clarissima familia Principum... Guinicelli enim fuerunt unum membrum de Principibus pulsis de Bononia sedizione civili, quia imperiales erant "), si è sostituita, via via confermandosi e consolidandosi, l'altra, secondo la quale il G. sarebbe stato figlio di un Guinizzello da Magnano.
Secondo quest'identificazione, oggi comunemente accettata, egli fu un tipico esponente della cultura bolognese del suo tempo sia sotto il profilo giuridico, poiché operò attivamente in qualità di giudice (il suo nome si legge in atti giuridici a partire dal 1266), sia sotto quello retorico, come testimoniano i modi della sua arte. Partecipò alle lotte politiche del comune di Bologna quale ghibellino seguace della potente fazione dei Lambertazzi; e perciò, quando prevalse nel 1274 la Parte guelfa dei Geremei, egli fu costretto a riparare in esilio a Monselice. Da un importante documento del 1276 risulta che aveva preso in moglie Beatrice della Fratta, alla quale, rimasta vedova, veniva affidata la tutela di un figlio minorenne, Guiduccio, nato da quel matrimonio. Verso la fine del 1276, dunque, il G. era già morto. Nulla di preciso invece si può arguire circa la data della sua nascita, che lo Zaccagnini (L'esilio, pp. 300-311) vorrebbe spingere fino al 1230. Occorrerà piuttosto pensare che il G. sia morto assai giovane, dal momento che " una data da cui risultasse coetaneo, se non più anziano di Guittone, non sembra congruente alla circostanza ch'egli lo chiama ‛ padre ' " (Contini, Poeti II 447); mentre la data della morte sembra accordarsi con l'analoga circostanza che egli, a sua volta, sia chiamato ‛ padre ' da Dante.
Del G. sono giunti fino a noi venti componimenti poetici (cinque canzoni e quindici sonetti) e due brevi frammenti che si leggono in Reggimento e costumi di donna di Francesco da Barberino (I 4 e 10); inoltre sono state a lui dubitativamente attribuite altre tre canzoni. Da questi testi non è possibile risalire con sicurezza ai modi dello svolgimento dell'arte guinizzelliana e quindi delineare un suo progressivo affrancamento dalla tradizione siculo-toscana, non offrendo essi alcun appiglio per una qualsiasi datazione. Tuttavia, tutto considerato, è ben verosimile che i versi di tipo guittoniano e siciliano, tanto nel contenuto quanto nell'ispirazione e nello stile, siano generalmente anteriori a quelli comunemente considerati stilnovistici o pre-stilnovistici; e se non lo fossero tutti cronologicamente, lo sarebbero certo idealmente. Vi predominano i temi del tormento d'amore della nobiltà e dell'altezza dell'amor fino, dell'orgoglio di madonna rispetto all'umile servizio del poeta, della paziente speranza ecc.; né mancano componimenti moraleggianti o comunque formulati nei modi più affabili e domestici dello stile ‛ comico '. In un sonetto, [O] caro padre meo, egli si rivolgeva del resto a Guittone, chiamandolo appunto " caro padre meo ", per pregarlo di avvinghiare e cimare, cioè di correggere serrando e ripulendo, una canzone che contemporaneamente gli inviava, così come un buon discepolo nei confronti del proprio maestro: " Ch'a voi ciò solo com'a mastr'accorgo ". E di Guittone il G. riprendeva non solo la tematica e certa mitologia insomma tradizionali (la nave che esce di porto con vento dolce e piano per andare incontro a una tempesta; la salamandra, la pantera, la calamita; la donna che fra l'altre par lucente sole, piena di sovrane bellezze e di tutto valore, ecc.), ma - che più conta - l'espressione tesa ed ermetizzante, il linguaggio tecnicizzato, le rime equivoche e difficili, e infine certa aggrondatura moraleggiante, ben distinguibile attraverso il contrappunto delle immagini, quasi in filigrana. Il G. sarebbe rimasto fondamentalmente un guittoniano, uno dei tanti, e sia pure con una sua propria e innegabile vigoria, se non avesse composto la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore e i pochi sonetti (non più di cinque o sei fra quelli pervenutici) che ne fanno invece il protostilnovista o per lo meno il precursore dello Stil nuovo, già additato e riconosciuto dalla coeva cultura letteraria e generalmente riconfermato dalla critica più qualificata dei nostri tempi: Vedut'ho la lucente stella diana; Io vogl' del ver la mia donna laudare; Lo vostro bel saluto e 'l gentil sguardo. Il rinnovamento è genialmente intuito e preannunziato in queste aperture su di un generale contesto in cui tuttavia il peso della tradizione è ancora sensibile. Ma è sintomatico il fatto che esse stimolassero, anche da parte dei più autorevoli rappresentanti della civiltà letteraria del tempo, come lo erano Guittone d'Arezzo e Bonagiunta Orbicciani da Lucca, vivaci e polemiche reazioni; il che, oltre a confermare la congettura del progressivo affrancamento del G. dai modi della tradizione più vieta, anche se ancora viva e operante, induce ad attribuire al giudice bolognese una posizione e una funzione di punta avanzata verso la definitiva formulazione della nuova poetica. Giudicava Guittone un " laido errore " che qualcuno, " quando vuol la sua donna laudare, / le dice ched è bella come fiore, / e ch'è di gem[m]a over di stella pare, / e che 'n viso di grana ave colore " (S'eo tale fosse 5-8); e l'allusione al G. sembra qui indiscutibile, né pare possano ostarvi serie ragioni cronologiche. Di Bonagiunta poi sarà da allegare il sonetto (Voi, ch 'avete mutata la mainera), nel quale egli punta l'indice accusatore contro i nuovi poeti - ma il componimento è indirizzato proprio al G. -, i quali " per avansare ogn'altro trovatore " hanno " mutata la mainera / de li plagenti ditti de l'amore / de la forma dell'esser là dov'era " (vv. 1-4). Insomma, una chiara denuncia di deviazionismo, che il G. respingeva e rinchiudeva nei suoi angusti limiti, osservando che nessuno è depositario esclusivo della verità; che tutti gli uccelli volano, ma non allo stesso modo né con lo stesso ardimento; e infine che Dio ha ordinato gerarchicamente l'universo " e fe' despari senni e intendimenti " (Omo ch'è saggio 13). All'accusa di vana presunzione dunque il G. risponde con l'affermazione cosciente di una nuova realtà letteraria. E invero, in quei suoi pochi componimenti, pur senza volerne esagerare la portata e la novità, si possono cogliere, già ben definiti e articolati, i due temi fondamentali dello Stil nuovo: quello della ‛ laude ' misticheggiante nell'obbiettivazione concretamente fantastica di una metafisica dell'amore, e quello della forza interiore del sentimento d'amore che colpisce a morte e procura angoscia e ‛ pesanza '; l'uno e l'altro riconducibili a una condizione robustamente interiore, etica e religiosa insieme, del sentire e poetare amoroso, in una nuova e singolare esigenza di ordinata chiarezza dottrinale e di coerenza concettuale (Al cor gentil). Il G. scuoteva così il sistema dal di dentro, senza romperne definitivamente gli schemi, ma facendone scricchiolare le strutture; D. e Guido Cavalcanti formuleranno poi la nuova metafisica dell'amore, pur serbandone anch'essi, in buona parte, la tradizionale fenomenologia.
Perciò il G. è poeta caro a Dante. Nell'ambito dello sperimentalismo giovanile dantesco il ‛ momento ' guinizzelliano è indubbiamente il più importante e decisivo, quasi una sorta di prefigurazione dell'ultima grande stagione paradisiaca, perché esso scende alle radici dell'interiorità, a toccare e a enucleare interessi di verità etica e religiosa, che divengono poi, nella ricerca e nella meditazione, le solide nervature portanti dell'ideologia del poeta fiorentino. Pressoché concordemente si ritiene che questo ‛ momento ' guinizzelliano segua, nel giovane D., a un ‛ momento ' cavalcantiano (visibile nella prima parte della Vita Nuova e in alcune rime estravaganti), si riveli luminosamente nella canzone Donne che avete intelletto d'amore, e culmini infine nelle rime della lode e nel conclusivo indiamento di Beatrice. Questa convinzione può esser considerata rispondente alla realtà solo a due condizioni: che non la si schematizzi fino a escludere ogni cenno cavalcantiano dal centro vitale della Vita Nuova (e basterebbe ricordare, per contrario, Donna pietosa e di novella etate, o taluni passi di Li occhi dolenti per pietà del core, ove si leggono, per esempio, questi versi: Dannomi angoscia li sospiri forte, / quando 'l penero ne la mente grave / mi reca quella che m'ha 'l cor diviso, vv. 43-45); e che non si attribuisca al guinizzellismo dantesco solo un valore di emulazione o tutt'al più di correzione e d'integrazione. In D. la disposizione spirituale è del tutto nuova, seppur riconoscibile e riconosciuta nel nome del saggio (Vn XX 3 2); totalmente diversa è l'ideologia. Nel G. non si configura la spiritualizzazione religiosa dell'amore, che è alla base dello stilnovismo dantesco; la sua famosa metafora (" Tenne d'angel sembianza / che fosse del tuo regno "), spinta fino ai limiti di una temeraria assurdità teologica, acquista in D. valore e sostanza di ontologica realtà (spirital bellezza grande, / che per lo cielo spande / luce d'amor, che li angeli saluta, Vn XXXIII 8 22-24), prima e remota condizione della poesia del Paradiso. E d'altra parte ciò che nel G. rimane nell'ambito di un rinnovamento stilistico e di una novità concettuale, insomma di una retorica pur vivificata e rinnovata da forti aspirazioni etiche, in D. si tramuta in " evento ", in " violenza reale ", in " una spinta prepotente a estrarre dal sentimento il massimo d'intensità, col sollevarlo completamente dalla sfera della soggettività, dalla sfera vera e propria del sentimento, e col cercare di ancorarlo nelle più alte regioni di validità oggettiva e di estrema assolutezza " (E. Auerbach, Studi su D., p. 40).
Si capisce così come un testo qual è quello guinizzelliano di Al cor gentil abbia colpito D. giovane, procurandogli un'esperienza etico-letteraria che non gli si cancellerà più dal cuore, per tutta la vita. La citazione di Vn XX 3 1-2 (Amore e 'l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone, e il " saggio ", cioè il poeta, è appunto il G.) non lascia dubbi al proposito, insieme con l'insistenza con la quale D., ormai nella pienezza della sua maturità, ricorderà la famosa canzone e altri componimenti del G., al quale assegnerà un posto preciso e una precisa funzione nel cerchio della letteratura militante. La canzone Al cor gentil è citata due volte nel De vulg. Eloq. per ragioni tecniche: la prima (I IX 3) in occasione della necessità, in cui si trovava il discettatore, di allegare un testo ove si leggesse la parola ' amore ', a conferma che l'idioma trifario era stato idioma unitario immediatamente dopo la confusione babelica; e pare sintomatico che D. abbia voluto utilizzare quei versi del G. balzatigli vivi alla memoria, invece di un qualsiasi (ma più antico e perciò più adeguato alla linea del ragionamento dantesco) testo siciliano, pur considerando che la scelta sia stata motivata anche dalla ripetizione della, parola " amor ", tronca nel passo guinizzelliano come in provenzale e in francese (vv. 3-4). La seconda, perché quella canzone comincia con un endecasillabo, cioè con quello stesso superbissimum carmen, col quale i grandi doctores hanno dato inizio alle loro più eccellenti canzoni (II V 4); il che implica un giudizio di valore su Al cor gentil e sul suo autore, affiancati rispettivamente, l'una e l'altro, alle cantiones illustres e agli altissimi poeti della nuova letteratura romanza. Per D., fin dai tempi della sua giovinezza, la canzone guinizzelliana era diventata un'auctoritas, un testo-guida, particolarmente per i principi ideologici, in essa pertrattati, dell'identità tra amore e cuor gentile, del valore catartico e beatificante dell'amore, della nobiltà di cuore e di mente, e per la decisa e chiara aspirazione a fare della donna una " intelligenzia del cielo ", nella quale " splende... Deo criator ", onde l'uomo attui sulla terra la, propria potenziale perfezione. D. vi ritornerà nel Convivio, allorché (IV XX 7), affermando la necessità per l'anima umana di non essere imperfettamente posta, a poter godere la benedetta e divina infusione della Grazia, l'inserisce espressamente nel giro del discorso, ancora una volta, per il paragone della pietra preziosa, che se è male disposta, o vero imperfetta, non può ricever la vertù celestiale. E infine, con remota e patetica memoria, la prediletta identità guinizzelliana affiorerà in modi stilistici guinizzelliani, alla presenza di Paolo e Francesca, nel famoso verso: Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende (If V 100); senza voler riportare a lontana ascendenza guinizzelliana quanto, nel poema, può esser riferito piuttosto all'esperienza stilnovistica di D. (Lucevan li occhi suoi più che la stella, II 55), o addirittura la sublimazione di Beatrice e la cosmica concezione d'amore nella terza cantica, come pure da qualcuno è stato sostenuto (Flamini).
Ma anche altre canzoni del G. vengono citate nel De vulg. Eloquentia. Il poeta bolognese avrebbe usato, secondo D., l'eccellentissimo grado di costruzione, quello sapidus et venustus etiam et excelsus, nella canzone Tegno de folle 'mpresa (II VI 6), e (se l'integrazione del testo, in questo punto lacunoso, è esatta) avrebbe introdotto un certo elegiae umbraculum nella canzone (parzialmente e dubitosamente pervenutaci) De fermo sofferire, aprendo con un settenario una contestura stilistica tipicamente ‛ tragica '; mentre, insieme con alcuni poeti bolognesi (Guido Ghislieri, Fabruzzo, Onesto e " altri "), qui doctores fuerunt illustres et vulgarium discretione repleti, egli si sarebbe allontanato dal volgare municipale, per attingere quello quod aulicum et illustre vocamus (I XV 6), come attesterebbe, fra l'altro, la canzone Madonna, il fino amor ched eo vo porto. Sono giudizi d'indubbio sapore tecnico, simili, quanto alla loro natura e alla nostra valutazione, a quelli formulati in VE I IX 3 e in II V 4, a proposito della canzone Al cor gentil; ma tutti insieme ineriscono a un'organica concezione della lingua, dello stile, della poesia, e segnano il passaggio da un'adesione di carattere militante, che rimane tipica della Vita Nuova (si come 'l saggio in suo dittare pone, XX 3 2), a una valutazione obbiettiva, distaccata e insomma storicizzante. Entro i confini di una valutazione siffatta, al G. è attribuito, nel De vulg. Eloq., un posto di alto prestigio, ma ben distinto da quello riservato ai veri poeti della nuova scuola; in definitiva, egli non entra a far parte dell'eletta schiera degli stilnovisti toscani (Cavalcanti, Lapo, Cino e D. stesso; I XIII 3), i quali per primi son riusciti ad attingere un volgare illustre, cioè un nuovo linguaggio poetico valido sul piano di una letteratura nazionale (vulgare latium). D. intorno a lui enuclea invece, come si è visto, un gruppo bolognese, sottolineando peraltro la grande distanza intercorrente tra i minori e il maggiore, giudicato, per due volte in pochi righi, come maximus (I XV 6); e questo gruppo di poeti bolognesi, che rielaborarono il proprio volgare rifiutando il municipalismo linguistico, egli polemicamente contrappone al gruppo dei toscani capeggiati da Guittone, avvezzi a plebescere (con Guittone stesso, Bonagiunta, Gallo, Mino, Brunetto; I XIII 1), i quali stoltamente si arrogano il merito del volgare illustre; e G. stesso, esaltato per la sua bravura stilistica, diventa un po' il contraltare di Guittone, bersagliato insistentemente, e il suo nome assurge a emblema e a simbolo del rinnovamento. Tutto ciò conferma in sostanza, seppur indirettamente, la citazione di Pg XI 97 Così ha tolto l'uno a l'altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l'uno e l'altro caccerà del nido: Guido Cavalcanti avrebbe tolto al G. la palma della poesia; il che significa da una parte esaltazione e insieme giubilazione del G. con la conclamata superiorità e coesione del gruppo toscano rispetto al bolognese, ma anche, dall'altra, affermazione di una sorta di legame tra questo e quello. La conferma, e la riprova, si ha nel solenne episodio di Pg XXVI, quando D. riconosce in Guido il padre / mio - com'egli esclama - e de li altri miei miglior che mai / rime d'amor usar dolci e leggiadre (vv. 97-99), mentre il G., proprio lui, annota il calo e l'oscuramento della fama di Guittone nel progressivo trionfo della verità. E intanto affiora segreto un emblematico contrappunto stilistico, che si richiama agli antichi rapporti di discepolanza (G. a Guittone: " O caro padre meo, de vostra laude / non bisogna che alcun orno se 'mbarchi ", e Pg XXVI 97-98 quand'io odo nomar sé stesso il padre / mio e de li altri; e 73-75 Beato te, che de le nostre marche / ...per morir meglio, esperïenza imbarche!), o agli argomenti delle antiche polemiche (G. a Bonagiunta: " Orno ch'è saggio... / riten su' pensero / infin a tanto che 'l ver l'asigura e Pg XXVI 126 fin che l'ha vinto il ver con più persone), come hanno ben visto il Wilkins e il Contini. Anzi proprio questo contrappunto stilistico, intenerito com'è di ricordi e nostalgie, apre lo spiraglio sulla natura lirica e autobiografica di tutto l'episodio, quali che siano state le ragioni della decisione di D. di porre G. tra i lussuriosi. Nell'ultimo incontro col maestro e precursore bolognese riemerge, ancora urgente e commossa, la memoria delle dolci e leggiadre rime d'amore di quel tempo lontano, dei dolci detti coi quali si era iniziato l'uso moderno, di quelle felici e remote battaglie. Il G. si trasforma in mito e simbolo di una giovinezza fiduciosa e operosa, che volle e seppe rinnovare e costruire, ora contemplata e giudicata alla luce dell'eternità: falli per me un dir d'un paternostro (v. 130).
Bibl. - Tutti i componimenti poetici attribuiti al G. si leggono in L. Di Benedetto, Rimatori del Dolce Stil Novo, Bari 1939, 1-23 (solo quelli sicuri in Contini, Poeti II 447-485, con lezione di gran lunga migliore), e in Poeti del Dolce stil nuovo, a c. di M. Marti, Firenze 1969, 33-114, con introduzione e ampio commento.
Sulla vita del G. ricorderemo soltanto le conclusive ricerche di G. Zaccagnini, L'esilio e la morte di G.G., in " Giorn. stor. " LXX (1917) 300-311; ID., Nuove notizie intorno a G.G., in " Atti e Mem. R. Deputazione Storia Patria Provi di Romagna " s. 4, XXII (1932) 87-94; e, ancora dello stesso autore, soprattutto I rimatori bolognesi del sec. XIII, Milano 1933, 6-23.
Numerosi gli studi sulla più famosa canzone d'amore del G.G. Federzoni, La canzone di G.G. " Al cor gentil ripara sempre amore ", in Nuovi studi e diporti danteschi, città di Castello 1913, 213-236; F. Pellegrini, La canzone d'amore di G.G., in " Nuovi Studi Mediev. " I (1923) 119-137; L. Mascetta Caracci, La canzone " Al cor gentil " di G.G., in " Archiginnasio " XXVII (1932) 216-232 e 344-359; F. Torraca, La canzone " Al cor gentil ripara sempre amore ", in " Atti R. Accad. Archeol. Lettere Belle Arti Napoli " n.s., XIII (1933-1934) 41-66; M. Casella, " Al cor gentil repara sempre amore ", in " Studi romanzi " XXX (1943) 5-53. E su alcuni punti di essa: R. Ortiz, In cima del doppiero, in " Zeit. Romanische Philol. " XXXII (1908) 598-600; E.H. Wilkins, A note on G. " Al cor gentil ", in " Modern Philology " XI (1913-14) 325-330; S.E. Scalia, Diamond and loadstone. A note on G., in " Romanic Review " XXVII (1936) 278-281. A una polemichetta svoltasi su " Leonardo " (XII [1941] e XIII [1942]) tra C. Muscetta, B. Nardi e C. Salinari sulla quinta stanza della canzone si riferisce A. Roncaglia, " Intendere " nella canzone di G.G., in " Lingua Nostra " VI (1944-1945) 21-25. Sulla tradizione guinizzelliana: D'A.S. Avalle, La tradizione manoscr. di G.G., in " Studi Filol. It. " XI (1953) 137-162.
In genere sulla poesia e sulla personalità del G. (a parte il profilo monografico disegnato da G. Fallani in Letteratura italiana. I minori, I, Milano 1961, 159-170, con bibl. e le pagine di A.E. Quaglio, in La letteratura italiana, a c. di C. Muscetta, I, Bari 1970, 339-364 e passim), sono da ricordare: G. Salvadori, L'iniziatore dello Stil novo: G.G., in Liriche e saggi, a c. di C. Calcaterra, Milano 1933, III 341-357; G. Zaccagnini, G.G. e le origini bolognesi del Dolce stil novo, in Studi danteschi (a c. della R. Deputazione di St. Patria Prov. di Romagna), Bologna 1922, 13-61; N. Sapegno, Dal primo al secondo Guido, in " La Cultura " IX (1930) 409-414 (e in Il Trecento, Milano 1966³, 21-25); R. Garzia, Il G. e la sua poesia cortese, in " Archivum Romanicum " XVII (1933) 137-188; F. Montanari, La poesia del G. come esperimento di cultura, in " Giorn. stor. " CIV (1934) 241-253; D. Scheludko, G. und der Neuplatonismus. Von den Trobadors zu G., in " Deutsche Viertejahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte " XII (1934) 364-399; la breve introduzione nel citato Contini, Poeti II 447-449; R. Spongano, La gloria del primo Guido, in D. e Botegna ai tempi di D., Bologna 1967, 3-12; I. Bertelli, Poeti del Dolce stil novo. G.G. e Lapo Gianni, Pisa 1963, 7-116. Più specificamente per i rapporti fra D. e il G. occorrerà tener presente quella parte della generale bibliografia dantesca che riguarda la Vita Nuova e lo stile della ‛ loda ', e le ‛ lecturae ' del XXVI canto del Purgatorio (F. Torraca, Firenze 1900; A. Roncaglia, Roma 1955; L. Pietrobono, ibid. 1956; A. Monteverdi, Firenze 1965). In questa sede riteniamo opportuno ricordare: W.P. Ker, D., G.G. und Arnaut Daniel, in " Modern Language Review " V (1909) 145-152; F. Flamini, D. e G.G., in D. e Bologna, Bologna 1922, 23-44; B. Carpineti, El encuentro de D. con G. a la luz de la estilistica, in " Humanitas " (di Tucuman) III (1957) 137-158; E.H. Wilkins, G. praised and corrected, in The Invention of the Sonnet, Roma 1959, 111-114; E. Auerbach, Studi su D., Milano 1963, 23 ss.; M. Marti, Gli umori del critico militante, in Con D. fra i poeti del suo tempo, Lecce 1966, 69-94; A. Roncaglia, Precedenti e significato dello Stil novo dantesco, in D. e Bologna ai tempi di D., cit., pp. 13-34; si vedano inoltre le introduzioni alle edizioni del De vulg. Eloq. curate da A. Marigo (Firenze 1957³) e da P.V. Mengaldo (Padova 1968).