GUERRA (XVIII, p. 53)
Diritto internazionale. - Il 27 luglio 1929 fu conclusa a Ginevra una nuova convenzione per il miglioramento della sorte dei malati e feriti nella guerra terrestre, convenzione che, pur sostituendo le due precedenti del 1864 e del 1906, ne seguì i concetti informatori, sviluppandoli. La convenzione fu resa esecutiva in Italia con decreto 30 ottobre 1930, n. 1615. Con decreto 5 settembre 1935, n. 1651, fu costituita in Italia una commissione per la revisione delle norme sulla condotta della guerra nei rapporti dei belligeranti e dei neutrali; con legge 2 maggio 1938, n. 735, il governo fu autorizzato a coordinare, modificare e integrare le norme legislative in vigore che disciplinavano: la condotta della guerra e i problemi ad essa connessi, con speciale riguardo ai rapporti con gli altri belligeranti e coi neutrali; lo stato di neutralità e i problemi ad esso connessi, con speciale riguardo ai rapporti coi belligeranti. I testi della legge di guerra e della legge di neutralità furono approvati con decreto 8 luglio 1938, n. 1415, di cui costituirono, rispettivamente, l'all. A e l'all. B (al testo della legge di guerra furono poi apportate variazioni ed aggiunte, specialmente con le leggi 16 dicembre 1940, n. 1902 e 29 novembre 1941, nn. 1571. Si ebbe così un vero codice di guerra, nel quale sono raccolte norme, sia derivate da consuetudini internazionali, sia risultanti da trattati collettivi, sia infine norme poste dallo stato italiano nei limiti della libertà che il diritto internazionale gli lasciava al riguardo.
Stato di guerra. - Il provvedimento col quale è ordinata l'applicazione della legge di guerra - presupposto lo stato di guerra con un altro stato (cfr. decr. 10 giugno 1940, n. 566) - può dichiarare in stato di guerra tutto il territorio dello stato o una o più parti di esso: il territorio nemico occupato è considerato in stato di guerra. La cessazione generale o parziale dello stato di guerra è dichiarata dalla stessa autorità e con le stesse forme stabilite per far cessare l'applicazione della legge di guerra (articoli 11, 12, 14). Il comandante supremo determina quale parte del territorio in stato di guerra è zona d'operazione. In questa egli assume anche i poteri civili; ha facoltà di emanare bandi (articoli 15, 16, 17).
Belligeranti. - Sono legittimi belligeranti coloro che appartengono alle forze armate di uno stato, ivi comprese le milizie e i corpi volontarî; è anche considerata come legittimo belligerante, purché porti apertamente le armi e rispetti le leggi e gli usi di guerra, la popolazione di un territorio non occupato, la quale all'avvicinarsi del nemico prenda spontaneamente le armi senza avere avuto il tempo di organizzarsi (articoli 25, 27).
Spie. - È considerato spia di guerra chi clandestinamente o sotto falsi pretesti raccoglie o tenta di raccogliere, col proposito di comunicarle al nemico, informazioni che si riferiscano alle operazioni militari. Non è considerato tale il militare non travestito che raccoglie informazioni e chiunque nell'adempimento del suo ufficio trasmette apertamente notizie alle proprie forze armate (art. 32).
Uso dei mezzi bellici - È lecito solo fra coloro che hanno la qualità di legittimi belligeranti. L'uso della violenza bellica è lecito sempre che sia contenuto nei limiti in cui è giustificato dalle necessità militari e non contrario all'onore militare (articoli 34 e 35). È lecito il bombardamento diretto contro obiettivi nemici, la cui distruzione torni a vantaggio delle operazioni militari. È anche lecito bombardare città, Villaggi, abitazioni ed edifici quando esiste una ragionevole presunzione che vi siano apprestamenti militari d'importanza tale da giustificare il bombardamento: tale facoltà non può essere esercitata se non tenendo conto del danno al quale viene esposta la popolazione civile. È in ogni caso proibito il bombardamento che abbia il solo scopo di colpire la popolazione civile o danneggiare beni non aventi interesse militare (articoli 40, 41, 42).
Torna a proposito accennare a questo punto alla questione della dichiarazione di città aperta dibattutasi, specialmente con riguardo a Roma, durante la seconda Guerra mondiale.
Il fatto che un belligerante proclami aperta, cioè indifesa e priva di obbiettivi militari una città, non comporta per ciò solo l'assunzione da parte di questa di tale qualifica, la quale deriva essenzialmente dalle condizioni obbiettive in cui la città viene a trovarsi in tempo di guerra. In base alle ricordate norme sui bombardamenti aerei si deve concludere che la dichiarazione, per essere valida, deve corrispondere al carattere di inefficienza militare in senso lato della città stessa. La dichiarazione di Roma città aperta fatta dal governo Badoglio il 31 luglio 1943, tramite la S. Sede, non venne accettata dagli Angloamericani, perché facevano difetto le condizioni di completa assenza di obbiettivi militari, soprattutto in ordine al traffico militare su strada e ferrovia, presenza dei Tedeschi, ecc.
Torniamo ora all'esposizione della legge di guerra. In caso di investimento o assedio di una fortezza o di una località, apprestata a difesa, il comandante delle forze attaccanti può impedire l'uscita dei non combattenti, ma, salve imperiose esigenze, deve consentire l'uscita ai sudditi neutrali, mentre, sempreché non siano in corso azioni di combattimento, non può vietare l'uscita agli agenti diplomatici o consolari neutrali che ne facciano domanda (art. 48).
L'impiego di mezzi batteriologici, di gas asfissianti, tossici o simili, come pure di liquidi, materie o procedimenti analoghi è vietato (art. 51).
Territorî nemici occupati. - Si considerano territorî nemici occupati i territorî nei quali l'autorità militare dello stato è di fatto stabilita e in condizioni di esercitarsi: l'autorità militare occupante adotta tutti i provvedimenti necessarî per ristabilire e assicurare l'ordine e la vita pubblica, mantenendo in vigore, salvo impedimento, le leggi del paese occupato; in particolare, deve provvedere perché siano rispettati l'onore e i diritti di famiglia, la vita degli individui e la proprietà privata, nonché le convinzioni religiose e l'esercizio dei culti. Il numerario, i capitali, i crediti esigibili, i depositi d'armi, i mezzi di trasporto, i magazzini e, in generale, tutti i beni mobili appartenenti a pubbliche amministrazioni nemiche e atti a servire a scopi di guerra, passano in proprietà dello stato. Agli enti locali e agli abitanti si possono imporre requisizioni di cose e di servizî solo per i bisogni delle forze di occupazione; devono essere commisurate alle risorse locali e non importare per le popolazioni l'obbligo di partecipare a operazioni di guerra contro il loro paese (articoli 54, 55, 60, 62).
Convenzioni, armistizio, capitolazione. - Il comandante supremo ha facoltà di concludere, anche a mezzo di delegati, convenzioni militari col nemico; però, l'armistizio e ogni altra convenzione che modifichi sostanzialmente la situazione dei belligeranti o che stabilisca preliminari per la conclusione della pace, possono essere stipulati solo con l'assenso del capo dello stato (art. 74). Capitolazione è la convenzione che determina la resa di forze operanti o di una posizione fortificata (art. 84).
Feriti e prigionieri. - Il trattamento dei feriti e malati è regolato dalle convenzioni internazionali: di queste può essere ordinata l'osservanza con decreto del capo dello stato a condizione di reciprocità anche nei rapporti con lo stato nemico che non ne sia parte (articoli 90, 91).
Prigionieri di guerra sono i legittimi belligeranti caduti in potere delle forze armate dello stato. Possono essere dichiarati prigionieri di guerra anche il capo dello stato nemico e gli alti funzionarî civili dello stato stesso; gli ostaggi sono considerati prigionieri di guerra; gli ufficiali di potenze neutrali accreditati presso il comando delle forze armate nemiche, i giornalisti, i fotografi, gli operatori cinematografici, e in generale, tutti coloro che seguono le forze armate nemiche, se cadono in potere delle forze armate dello stato, non possono essere trattenuti e sottoposti a vigilanza. I prigionieri di guerra sono trattati in conformità delle convenzioni, di cui può essere ordinata l'osservanza a condizione di reciprocità anche in confronto dello stato nemico che non ne sia parte (articoli 99, 100, 101, 102).
Contrabbando di guerra. - Al concetto di una lista unica si riportò la legge italiana di guerra, la quale stabilì che costituiscono contrabbando di guerra: le navi da guerra, gli aeromobili completi o smontati, i carri armati o blindati e i treni armati, le armi e le munizioni da guerra di qualsiasi specie, gli esplosivi con i materiali e i prodotti per la guerra chimica e batteriologica, gli effetti di vestiario e di equipaggiamento e i finimenti per uso militare, le parti staccate delle cose suddette (art. 159 modif. dalla legge 16 dicembre 1940, n. 1902). Per altro, con decreto possono essere dichiarate contrabbando di guerra anche altre cose, la cui lista deve essere comunicata ai governi degli stati neutrali, ma in nessun caso possono esserlo gli oggetti e i materiali che servono esclusivamente a scopo sanitario, né i materali necessarî per i servizî di bordo della nave sulla quale si trovano (art. 160 l. g.). Con decreto 16 luglio 1940, n. 1056, fu ristabilita la distinzione fra contrabbando assoluto e condizionale, e mentre nel primo furono comprese anche tutte le cose indicate nelle liste più ampie adottate dai governi britannico e francese, si dichiararono contrabbando condizionale: i viveri, le derrate alimentari, i foraggi, gli effetti di vestiario, nonché l'occorrente per la loro produzione (se fosse risultata, cioè, la loro destinazione alle forze armate o alle amministrazioni statali del nemico).
Diritto penale comune e militare. - Alle necessità di una più energica difesa per la sicurezza e l'efficienza dello stato in tempo di guerra, e, in specie, delle sue forze armate, ha provveduto in particolare il codice penale militare di guerra 1941, mediante la previsione di speciali forme delittuose militari durante lo stato di guerra, ovvero con l'aggravamento (anche in via generale: art. 47 detto cod.) delle pene comminate per i reati militari già preveduti per il tempo di pace, nonché con l'estensione dell'applicazione della legge pen. mil. (diritto sostantivo) e della giurisdizione militare in relazione a persone normalmente non soggette né all'una, né all'altra.
Di fronte a esigenze improvvise e improrogabili durante lo stato di guerra, si è fatto sempre ricorso all'emanazione di leggi eccezionali o temporanee, e anche di bandi delle autorità militari (in materia militare di legge e proced. penale e di ordinamento: art. 17 cod. pen. mil. guerra; per altre materie, art. 17 della legge italiana di guerra, testo approvato con r. decr. 8 luglio 1938, n. 1415).
La nozione del "tempo di guerra" (condizione obiettiva di punibilità, riflettente, di regola, il dir. pen. comune) non coincide necessariamente con quello dello "stato di guerra", il quale - sia generale o parziale - ha carattere e portata temporale, ma anche spaziale, e, riferendosi al diritto interno dello stato, è affatto svincolato e indipendente, giuridicamente, dalla "dichiarazione di guerra" richiesta dal diritto internazionale nei conflitti armati fra stati, e importa, in sostanza, l'applicazione, nei limiti di persone e di cose determinate, della legge pen. mil. di guerra. La dichiarazione e la cessazione (in via generale, con decreto del capo dello stato) dello "stato di guerra" o, comunque, dell'applicazione della legge pen. mil. di guerra - già tradizionalmente regolata dai codici pen. mil. preesistenti - sono ora disciplinate dalla citata legge ital. di guerra (art. 11) e, in particolare, dal r. decr. 8 luglio 1938, n. 1415, che ne approva il testo (art. 2 e segg.). Lo "stato di guerra" nel senso suaccennato cessa in base ad apposito decreto emanato dalla stessa autorità che l'ha dichiarato o da una autorità superiore (per la recente guerra, decr. legisl. luog. 8 febbraio 1946, n. 49). Alla norma dell'art. 310 cod. pen. comune, che nella denominazione di "tempo di guerra" comprende anche il periodo di imminente pericolo di guerra, quando questa sia seguita, fanno praticamente riscontro l'art. 11 cod. pen. mil. guerra, per il quale, durante la mobilitazione generale o parziale delle forze armate dello stato, la legge pen. mil. di guerra è applicabile agli appartenenti alle forze mobilitate, e gli articoli 3 e 4 del cit. r. decr. n. 1415 del 1938, riflettenti rispettivamente, l'applicazione della legge predetta, se ciò sia ritenuto necessario nell'interesse dello stato, ancorché questo non sia in guerra con un altro stato, ovvero quando un pericolo esterno, grave e imminente, incomba su di una parte di esso.
In base all'art. 23 cod. pen. mil. guerra, per i reati preveduti dalla legge pen. mil. guerra, commessi durante lo stato di guerra, si applicano sempre - salvo contrarie norme speciali - le sanzioni stabilite dalla legge medesima, sebbene il procedimento penale sia iniziato dopo la cessazione dello stato di guerra e ancorché la legge pen. mil. di pace o la legge pen. comune non preveda il fatto come reato o sia più favorevole per il reo (ultrattività, in generale, della legge penale temporanea: art. 2, capov. 3, cod. pen. comune).
Per l'art. 10 cod. pen. mil. di guerra, la legge pen. mil. di guerra si applica, in pace, anche quando un reparto delle forze armate dello stato sia impegnato in operazioni militari per motivi di ordine pubblico. Dallo "stato di guerra", dichiarato, nel senso, nel modo e per i fini militari sopra indicati, a tenore della cit. legge italiana di guerra, si distingue lo speciale stato di guerra di polizia (sovrapponendosi eventualmente a quello militare: v. decreto 26 luglio 1943, del Ministro per l'interno), che sia dichiarato a norma dell'art. 217 t. u. leggi di P. S. (casi di guerra civile), quando si ritenga necessario affidare alle autorità militari la tutela dell'ordine pubblico; e che importa, fra l'altro, l'attribuzione della cognizione di più categorie di reati comuni alla giurisdizione militare.
Bibl.: V. Manzini, Tratt. di dir. pen., I, Torino 1941, p. 233, 299, e IV, pp. 39, 42, 57, 94, 500, ecc.; G. Sucato, Ist. di dir. pen. mil., I, Roma 1941 p. 82; A. Manassero, I cod. pen. mil., Milano 1942 segg., I, p. 379 segg., III, p. 394; E. Battaglini e G. Sucato, Leggi pen. di guerra ordinate e annotate, Milano 1941 e segg.; Ist. Poligr. d. Stato, Raccolta dei bandi, ordinanze e decreti del comandante supremo e dei comandanti superiori, Roma 1941-43; F. P. Gabrieli, La legislaz. pen. mil., Torino 1918.
I crimini di guerra.
Precedenti storici. - Negli ultimi anni, durante e dopo la seconda Guerra mondiale, la categoria dei crimini di guerra è divenuta oggetto di particolare interesse nei varî paesi.
Il potere di punire i militari nemici autori di atti contrarî alle norme, riconosciute ed accolte, del diritto internazionale di guerra, è stato spesso ammesso ed anche praticamente affermato nel passato.
Soprattutto nel secolo scorso negli Stati Uniti d'America, oltre alla elaborazione delle famose Instructions for the Government of the Armies of the United States in the Field, che, emanate dal presidente Lincoln, servirono di base alla Déclaration di Bruxelles del 1874 e al Manuel des lois de la guerre dell'Istituto di diritto internazionale di Oxford del 1880, si ebbero anche le più note prime condanne a morte per violazione di tali regole sulla guerra. Henry Wirz, comandante del campo confederale di prigionieri ad Andersonville (Georgia), e Champ Ferguson, della regione di Tennessee-Kentucky, furono giudicati da autorità militari rispettivamente a Washington e a Nashville sotto accusa di maltrattamenti e uccisioni di prigionieri, e giustiziati nel 1865.
Scarsa fu tuttavia sempre l'elaborazione dottrinale, sia in relazione alla circostanza che solitamente una specie di tacita amnistia scendeva all'indomani dei conflitti internazionali sull'abuso che delle norme sulla condotta della guerra avevano compiuto i belligeranti, sia in relazione alle scarse risultanze dei processi, che per lo più venivano instaurati sulla base del diritto interno del paese al quale il colpevole apparteneva e che, anche per lo scetticismo largamente imperante in questa materia, finivano con il ridurne spesso la giustizia a un puro simulacro, quando non ad una farsa.
È nota ad esempio la sorte completamente negativa incontrata da tutti i provvedimenti predisposti dalle nazioni alleate vincitrici della guerra 1914-18 nei confronti dei criminali di guerra tedeschi. Un'apposita Commissione alleata aveva stabilito al riguardo che gli accusati dovessero essere giudicati da ciascun belligerante davanti alle proprie corti militari o civili preesistenti, eccezion fatta per alcune categorie di reati (quelli commessi contro militari o civili di più nazioni alleate, quelli compiuti con riferimento alla condotta della guerra contro più armate alleate, ecc.), per i quali riteneva preferibile l'investitura di un apposito tribunale militare internazionale. I trattati del primo dopoguerra stabilirono tutti il principio della punizione e dell'obbligo di consegna dei criminali di guerra, senza riferimento a clausole di amnistia: v. Trattato di Versailles, articoli 227 a 230 e prot. III; Trattato di St. Germain, 173-176 e prot. I; Trattato del Trianon, 157-160 e prot. I; Trattato di Sèvres, 226-230 (il Trattato di Versailles prevedeva anche il processo dell'ex-Kaiser Guglielmo II, mai potuto celebrare per mancata estradizione da parte dell'Olanda, ove l'ex-sovrano erasi rifugiato). Essi prevedevano la designazione nominativa dei criminali al governo tedesco, tenuto ad estradarli per lasciarli giudicare davanti ai tribunali militari della potenza alleata offesa. Le richieste furono effettivamente presentate alla Germania, con una lista di 900 imputati (334 segnalati dal Belgio, 334 dalla Francia, 97 dalla Gran Bretagna, 57 dalla Polonia, 29 dall'Italia, 41 dalla Romania, ecc.), ma il governo tedesco rifiutò di aderire alla richiesta, impegnandosi tuttavia ad una soluzione transazionale, consistente nell'impegno di far processare gli accusati dalla Corte suprema di Lipsia, dichiarando inefficaci le amnistie e sospendendo le leggi che potessero frapporre ostacoli giuridici al processo. La proposta fu accettata dagli Alleati e la legge per la punizione dei crimini di guerra predisposta dall'Assemblea nazionale tedesca non dette luogo a rilievi. Ma in linea di fatto la massima parte degli accusati non fu mai processata perché contumace o per ragioni analoghe, e per i pochi processati furono quasi sempre pronunciate, o condanne mitissime e del tutto inadeguate ai fatti accertati, o assoluzioni per riconosciuta innocenza o perché i fatti non costituivano reato secondo la legge tedesca. In pratica, nonostante le proteste internazionali, si addivenne più o meno rassegnatamente al riconoscimento della decadenza delle parti dei trattati di pace dedicate alla punizione dei crimini di guerra.
È stata la gravità degli abusi e delle nefandezze perpetrate da parte dei Tedeschi e dei Giapponesi nel corso della seconda Guerra mondiale e la connessione dei crimini di guerra veri e proprî con orrendi crimini contro l'umanità, pure perpetrati in occasione o nel corso della guerra (p. es. sterminio di Ebrei, sterminio di ammalati, ecc.) che ha richiamato l'attenzione degli uomini di governo, dei comandi militari e degli uomini di legge sulla necessità politica e morale di pronunciare condanna contro un complesso di atrocità senza precedenti, e di porre in rilievo, attraverso il richiamo alle leggi internazionali, al diritto penale comune e ai principî d'umanità, il fondamento giuridico di una siffatta condanna.
La storia delle trattative e delle intese tra le varie nazioni alleate per giungere ad un accordo circa una comune linea di condotta nell'azione investigatrice e punitiva è esposta alla voce delitto: Delitti contro la pace e l'umanità (in questa App., p. 766). Impegni e dichiarazioni solenni si susseguirono, insieme ad una intensa preparazione in materia, durante tutto il corso della guerra, e di pari passo cominciò l'elaborazione dell'argomento da parte dei giuristi. È avvenuto così che, accanto al capitolo degli atti illeciti di guerra dello stato, sino allora prevalentemente considerati dal diritto internazionale bellico, un altro importante e ricco capitolo sia venuto ad inserirsi in tutte le trattazioni sul diritto di guerra, di contenuto più specificamente penalistico e relativo alla repressione individuale di violazioni individuali, anche se concorrenti in gran parte e corrispondenti ad atti illeciti statuali.
Definizioni ed esemplificazioni. - Nelle istruzioni dell'esercito degli Stati Uniti, viene considerato come crimine di guerra "il fatto commesso in danno di persone o di beni privati, da parte dei nemici o di coloro che agiscono di concorso con i nemici, e che costituisce violazione delle leggi e degli usi della guerra: ivi comprese non soltanto le violazioni delle disposizioni dei trattati e convenzioni che determinano le modalità della condotta della guerra, ma anche le altre infrazioni commesse nell'occasione delle operazioni militari e che urtano contro il sentimento comune della giustizia, siano o non siano, questi fatti, stati commessi per ordine di un superiore gerarchico di coloro che se ne sono resi autori"; secondo il diritto belga, "crimine di guerra in senso stretto è ogni infraziom della legge penale commessa nell'occasione o sotto il pretesto dello stato di guerra da cittadini nemici o da altri individui al servizio del nemico e che non sia giustificata dalle leggi ed agli usi della guerra".
Tra gli esempî più comuni di crimini di guerra si è soliti annoverare quelli contenuti nell'atto di accusa contro i principali criminali di guerra tedeschi davanti al Tribunale militare internazionale di Norimberga e precisamente: l'assassinio, il maltrattamento o la deportazione, per lavori forzati o per altri scopi, della popolazione civile del territorio nemico occupato, l'assassinio ed il maltrattamento di prigionieri di guerra o di persone in alto mare, l'uccisione di ostaggi, il saccheggio di beni pubblici o privati nei territorî occupati, la distruzione senza scopo di città, paesi o villaggi, le devastazioni in genere non giustificate da necessità belliche. Il suddetto atto di accusa (Indictment) di Norimberga (per lo svolgimento di questo processo v. norimberga, in questa App.) classifica senz'altro i crimini di guerra come "violazioni degli usi e delle leggi della guerra" e li tiene nettamente separati dai gruppi di reati contemplati negli altri capi di imputazione e segnatamente dai crimini contro la pace (progettazione, preparazione, inizio o scatenamento di guerra d'oppressione o di guerre in violazione di trattati, convenzioni od assicurazioni internazionali) e dai crimini contro l'umanità (eccidî, sterminî, stragi, riduzioni in schiavitù, deportazioni e altri atti inumani commessi contro popolazioni civili, persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, ecc.). Una elencazione ufficiale, pure di origine anglosassone ed elaborata dalla apposita Commissione alleata del 1914-1918, contemplava trentuno categoria di crimini di guerra, tra le quali troviamo tutte le tipiche violazioni delle leggi e degli usi di guerra, desumibili da un esame delle convenzioni dell'Aja (1899 e 1907) sulle regole della guerra, della convenzione di Ginevra (1925) sul divieto della guerra chimica, batteriologica ed incendiaria, e della convenzione di Ginevra (1929) sul trattamento dei prigionieri di guerra: assassinio, massacro e terrorismo sistematico; condanna a morte di ostaggi; tortura di civili; deliberato sterminio di civili; deportazioni; costrizione di donne e ragazze del territorio occupato alla prostituzione; internamento di civili in condizioni inumane; lavori forzati di civili in connessione con le operazioni militari del nemico; usurpazione di sovranità durante l'occupazione militare; reclutamento forzato di soldati tra gli abitanti del territorio occupato; tentata snazionalizzazione di abitanti del territorio occupato; saccheggio; confisca di proprietà; esazione di contribuzioni e requisizioni illegittime o esorbitanti; svalutazione forzata della moneta; imposizione di penalità collettive; devastazioni e distruzioni non giustificate; bombardamento di locaiità indifese; ingiustificata distruzione di monumenti religiosi e storici e di istituti di carità ed educazione; distruzione di naviglio mercantile e da passeggeri senza preavviso e senza provvidenze per la salvezza dei passeggeri e dell'equipaggio; distruzione di naviglio da pesca; bombardamento deliberato di ospedali; violazione di altre regole concernenti il rispetto della Croce Rossa; uso di gas distruttivi o asfissianti; uso di altri mezzi di guerra inumani; deliberazione di non dare quartiere; maltrattamenti di feriti o di prigionieri di guerra; impiego di prigionieri di guerra per lavori non autorizzati; abuso di distintivi; avvelenamento di sorgenti.
Da queste elencazioni e da altre, pure largamente diffuse, qui omesse, risulta evidente la identificazione, per non dire confusione, che tuttora regna, tra la materia dell'illecito internazionale bellico (violazioni del diritto internazionale bellico da parte degli stati) e quella dell'illecito penale bellico (crimini di guerra individuali). In pratica oggi accade che di ogni violazione del diritto internazionale di guerra fissato nelle leggi e negli usi accolti dagli stati possa essere imputato - secondo i principî di cui appresso - l'individuo che, come organo del proprio stato o in violazione dello stesso diritto del proprio stato, ha commesso la violazione; di modo che solo la pena, anch'essa per lo più abbandonata a criterî approssimativi di analogia, finisce per fornire un elemento di distinzione tra le violazioni più gravi e mostruose (massacro di popolazioni civili o di prigionieri di guerra) e quelle più lievi e quasi inevitabili (distruzione o asportazione d'opere d'arte); mentre sarebbe desiderabile che anche nel diritto internazionale, come nel diritto interno, non tutto il campo dell'illecito coincidesse col campo dell'illecito penale. Anche da questo punto di vista è desiderabile che si addivenga quanto prima, da parte di organizzazioni internazionali (e in conformità del resto a quanto sin dall'ottobre 1946 ha auspicato il segretario generale delle Nazioni Unite, Trygve Lie, all'Assemblea generale), a una completa regolamentazione della materia dei crimini di guerra, nella quale i principî giuridici affermatisi attraverso i grandi processi dell'ultimo dopoguerra diventino norme precise destinate a servire di guida e di misura a tutti gli individui di tutte le nazioni.
I crimini di guerra nel diritto interno. - I delitti indicati più sopra coincidono per la massima parte con quelle particolari ipotesi criminose che si trovano contemplate nel tit. IV del libro III del cod. pen. mil. italiano di guerra del 1941, il quale appunto dedica un intero titolo ai "reati contro le leggi e gli usi della guerra" (articoli 165 a 230).
Deve anzi dirsi che l'Italia era l'unico paese che avesse durante la seconda Guerra mondiale un codice militare tanto moderno e che tanto perfettamente adeguasse il proprio diritto penale interno alle convenzioni internazionali da tutti gli stati sottoscritte intorno alla condotta della guerra. Molte altre legislazioni, per quanto contemplassero la materia, erano imprecise, saltuarie, e talora quasi caotiche, eccezione fatta per quelle anglosassoni, fornite di ottime "istruzioni militari" con annesse disposizioni penali; mentre altri paesi, come ad es. la Polonia, il Belgio e il Lussemburgo hanno provveduto a darsi apposite leggi in materia solamente durante la guerra o all'indomani di essa, e quindi con carattere, almeno parzialmente o formalmente, retroattivo (decr. legge della repubblica di Polonia emanato a Londra il 30 marzo 1943, legge del granducato del Lussemburgo sulla repressione dei crimini di guerra del 2 agosto 1947, legge belga 8 luglio 1946 sulle infrazioni contro la sicurezza dello stato e i crimini di guerra, ecc.). Altri paesi, invece, come la Francia, considerano i crimini di guerra come dei reati comuni, a cui favore non militano le cause di giustificazione che militano invece a favore di quei fatti che siano conformi alle regole sulla condotta della guerra o che appaiano necessitati dalle esigenze belliche.
Un costante opportuno richiamo alle norme del codice penale comune trovasi del resto anche nelle norme del citato codice penale militare italiano di guerra sugli "atti illeciti contro persone private nemiche o a danno dei beni nemici" (violenza di militari italiani contro privati nemici o di abitanti dei territorî occupati contro militari italiani; saccheggio, incendio, ecc.), i quali peraltro non costituiscono se non una delle categorie dei reati contro le leggi e gli usi della guerra previsti dal suddetto codice (atti illegittimi o arbitrarî di ostilità, abuso di mezzi di guerra per nuocere al nemico, violazione di doveri verso infermi, feriti, naufraghi o morti e verso il personale sanitario).
Le suddette norme fanno spesso riferimento alle convenzioni internazionali (per es. in tema di rappresaglie ordinate nei casi non consentiti), sicché le incertezze e l'evoluzione del diritto internazionale si riflettono necessariamente nell'applicazione del diritto penale interno. Applicabili tanto ai militari italiani quanto ai militari nemici, esse fanno pure appello al principio di reciprocità, per cui i reati di guerra commessi da italiani, oltre ad essere punibili solo in seguito a disposizione del comandante supremo, lo sono solo in quanto lo stato nemico garantisce parità di tutela penale allo stato italiano e ai suoi cittadini (art. 165 cod. pen. milit. di guerra).
Ma generalmente non nascono difficoltà nell'applicazione del diritto penale interno ai proprî cittadini rei di avere agito in contrasto con il diritto internazionale e con il diritto nazionale serbatosi a questo conforme: e anche il grave problema dell'ordine del superiore trova più facile soluzione alla stregua del diritto penale interno. In particolare nel diritto italiano vale il principio, equo e adeguato al sentimento giuridico più diffuso, secondo cui "se un fatto costituente reato è commesso per ordine del superiore o di altra autorità, del reato risponde sempre chi ha dato l'ordine" e "risponde anche il militare che ha eseguito l'ordine quando l'esecuzione di questo costituisce manifestamente reato" (art. 40 cod. cit.).
I crimini di guerra nel diritto internazionale. - Le maggiori difficoltà in materia di crimini di guerra s'incontrano invece nei casi nei quali l'autore del reato, anziché venire punito alla stregua del proprio diritto interno e dai proprî tribunali nazionali, viene perseguito e punito alla stregua di altre norme giuridiche e da tribunali stranieri o internazionali. Questo è il caso che si verifica soprattutto allorquando il militare sia caduto nelle mani del nemico e quando il fatto imputatogli appaia espressione non già di un abuso individuale ma d'una violazione del diritto internazionale bellico perpetrata dallo stesso stato d'appartenenza del colpevole, sicché nessuna garanzia possa dare il diritto penale sostantivo vigente all'epoca del fatto nel paese al quale l'imputato appartiene.
La massima parte dei processi svoltisi nell'ultimo dopoguerra - soprattutto a carico di militari tedeschi, ma purtroppo anche a carico (e assai spesso senza alcuna garanzia né sostanziale né formale) di militari italiani (processi a militari italiani in Grecia, processo al generale Bellomo da parte di un tribunale inglese) - si sono appunto celebrati in codesto quadro internazionale, dando luogo a formidabili problemi giuridici, sia dal punto di vista della legge sostanziale applicabile, sia dal punto di vista della competenza e dello stesso fondamento della giurisdizione, sia dal punto di vista della sanzione.
In pratica è avvenuto che solo per i delitti dei "maggiori criminali di guerra dell'Asse europeo" (per usare l'espressione della Convenzione 8 agosto 1945 stipulata a Londra fra gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e l'Unione Sovietica) e cioè di coloro i cui delitti non sono suscettibili, per l'ampiezza di raggio dei loro effetti dannosi, di una particolare localizzazione geografica, nonché per i delitti a questi connessi e successivamente giudicati, si è fatto ricorso al Tribunale militare internazionale delle 4 potenze istituito con la Convenzione suddetta e alle norme di diritto sostanziale e processuale contenute nello statuto annesso alla Convenzione stessa. Altrimenti si è fatto ricorso al diritto interno dello stato ex-occupato e dove il delitto fu commesso (come nei processi celebratisi in Cecoslovacchia e in Polonia contro gli ex- "protettori" e gli ex-comandanti tedeschi), o più genericamente al diritto dello stato offeso dal reato (processi ai criminali di guerra tedeschi celebrati davanti a tribunali militari inglesi in Italia), o al diritto dello stato o degli stati occupanti (processi contro criminali di guerra tedeschi davanti a tribunali alleati in Germania). Tutto questo, anche se, dal punto di vista rigorosamente giuridico non ha prodotto ingiustizie quanto al precetto penale del quale veniva imputata la violazione (la norma è in ultima analisi quella che in tutti gli ordinamenti civili incrimina l'omicidio, il saccheggio, le sevizie, la strage ed è il diritto internazionale che fornisce gli elementi decisivi per la valutazione nell'esistenza o meno di una immunità o di una causa di giustificazione), dà tuttavia luogo a gravissimi inconvenienti circa la scelta e la misura della sanzione, la procedura, le possibilità di difesa, ecc., sicché troppe volte l'imputato di crimini di guerra trovasi con l'attuale sistema abbandonato al caso e al corso stesso del tempo, con effetti di tragica durezza in alcuni casi e di ingiusta mitezza ed evasione in numerosi altri. Il "diritto del vincitore" o "del più forte", rigorosamente ed universalmente escluso come fondamento della punizione dei crimini di guerra (alcuni processi si sono celebrati, come quello di Charkov, a guerra ancora non conclusa né decisa), finisce poi col prevalere troppe volte di fatto attraverso l'accentuazione, anziché del carattere internazionale del delitto, del suo riferimento interno e quasi privato alla titolarità del singolo interesse offeso: per cui ognuno sembra perseguire quel che più lo interessa come stato e, spesso, soltanto fino a quando lo interessa. Inoltre la punizione dei crimini commessi dagli appartenenti alle potenze vincitrici (tale punibilità non viene mai contestata in linea di principio), il controllo e l'intervento del vinto, l'affidamento dell'intera materia ad organi imparziali e possibilmente neutrali, sono esigenze sempre più vivamente sentite e che devono finire per trovare soddisfazione in una precisa e completa regolamentazione internazionale, se si vuole che la punizione dei crimini di guerra serva veramente e soltanto alla riaffermazione di quei principî elementari di umanità e di giustizia che non debbono essere calpestati neppure nel corso della guerra.
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