ITALO-ABISSINA, GUERRA
. La guerra italo-abissina, iniziatasi nel 1894 e conchiusasi il 26 ottobre 1896 con la pace di Addis-Abeba (v. I, pp. 485-486) può distinguersi in due periodi; le operazioni del 1894-95 contro Mangascià ras del Tigrè, e la campagna del 1895-96 contro l'Impero Etiopico.
Cause immediate della guerra furono il disaccordo fra il governo italiano e l'imperatore Menelik II circa l'interpretazione dell'articolo 17 del trattato di Uccialli; la defezione di ras Mangascià, e la conseguente occupazione del Tigrè da parte delle truppe italiane. Ma prima di esporre le vicende della lotta occorre accennare alle spedizioni Saletta e Di San Marzano e all'occupazione italiana di Massaua, che, togliendo all'Abissinia il migliore sbocco dell'altipiano etiopico sul Mar Rosso, costituì, insieme con l'incerta politica italiana nei riguardi dell'Etiopia e dei varî ras, la causa remota più importante della guerra.
Spedizione Saletta (1885). - In seguito all'occupazione dell'Egitto (1882), l'Inghilterra, preoccupata dall'estendersi dell'insurrezione del Sudan provocata dalla predicazione del Mahdī, chiese il concorso dell'Italia per un'azione comune nel Mar Rosso. L'Italia, che aveva pure interessi nel Mar Rosso, avendo nello stesso 1882 dichiarato suo possedimento la baia di Assab, accettò l'invito (1884). Il 14 gennaio 1885 partì da Napoli un corpo di spedizione (in tutto 800 uomini al comando del colonnello T. Saletta), diretto apparentemente ad Assab per vendicare l'eccidio della spedizione di Gustavo Bianchi. L'ammiraglio P. Caimi, che comandava le navi italiane, giunse davanti a Massaua il 5 febbraio 1885 e vi sbarcò prendendone possesso in nome dell'Italia; il corpo di spedizione italiano estese l'occupazione alle località di Moncullo (Menkullu) e Otumlo, donde proveniva l'acqua necessaria alla città. Due successivi corpi di spedizione giunsero intanto a Massaua nel mese di febbraio, sì che, ai primi di marzo, vi erano a Massaua forze sufficienti per estendere l'occupazione ai dintorni e lungo la costa. Fin dai primi giorni era stata inviata una compagnia ad Assab e occupata la baia di Beilùl; il 10 aprile venne sbarcato un distaccamento ad Aràfali, in fondo alla baia di Zula. Furono in seguito occupate Archìco, le isole Auachìl, Medèr, nella baia di Aufila, e la baia di Edd. Il 7 ottobre la tribù dei Habab accettò il protettorato dell'Italia e in seguito anche gli Assaortini e i Beni Ámer ne seguirono l'esempio. Il generale C. Genè, giunto a Massaua alla fine di settembre, vi proclamò la sovranità definitiva dell'Italia.
Spedizione Di San Marzano (1887-88). - L'occupazione di Massaua e della costa da parte degl'Italiani aveva provocato il malcontento del negus di Abissinia, che sperava sempre di ottenere dall'Egitto e dall'Inghilterra uno sbocco al mare. Egli fece allora occupare Cheren e il paese dei Bògos, che erano stati sgombrati dagli Anglo-egiziani in seguito all'insurrezione del Sudan. D'altra parte fin dai primi tempi dell'occupazione di Massaua si dovette rilevare da parte italiana l'impossibilità di rimanere a lungo confinati alla costa, a causa del clima, e la necessità di porre il piede sull'altipiano il cui orlo corre 60-70 km. più a O., parallelamente alla costa del Mar Rosso. Nella speranza di ottenere ciò pacificamente, era stata inviata al negus la missione di Ferrari e di C. Nerazzini, ma il negus evitò di venire ad accordi concreti.
Il generale Genè inviò allora una centuria di basci buzùch a Uaà, 40 km. a S. di Massaua, allo sbocco della valle del Haddàs, una delle vie di accesso all'altipiano. Il negus protestò contro questa occupazione e il ras Alula, governatore del Hamasen, si portò con le sue truppe a Chinda (60 km. a O. di Massaua) donde intimò al generale Genè di sgombrare Uaà e Zula (10 gennaio 1887). Ma il Genè per tutta risposta prese i provvedimenti atti a fronteggiare l'attacco.
Il 25 gennaio il ras Alula attaccò il posto di Saàti comandato dal maggiore G. Boretti, ma dopo 4 ore di combattimento dovette ritirarsi. L'indomani il ten. colonnello T. De Cristoforis, al comando di una colonna di 500 uomini, mosse da Moncullo a Saàti per scortare gli approvvigionamenti diretti al forte; ma presso l'altura di Dogali la colonna venne attaccata e distrutta dagli Abissini (v. dogali). Il generale Genè fece allora sgombrare i posti avanzati di Saàti, Uaà e Aràfali e la linea di difesa fu limitata a Otumlo, Moncullo e Archìco. Da parte sua il ras Alula non osò attaccare Massaua e il 30 gennaio si ritirò a Ghinda donde rientrò il 31 ad Asmara.
In seguito all'insuccesso di Dogali, la Camera italiana, il 3 febbraio, votò un credito di 5 milioni, che in seguito furono portati a 20; i ministri C. F. Di Robilant e C. Ricotti, furono sostituiti da F. Crispi e dal generale C. Bertolè Viale; il generale Genè fu richiamato e venne nuovamente inviato in Africa il generale Saletta. Nel febbraio e nel marzo partirono per Massaua rinforzi (circa 2100 uomini), oltre a materiali di ogni genere; Massaua fu collegata telegraficamente con Assab e Pèrim e definitivamente sistemata. Il generale Saletta giunse alla fine di aprile con l'ordine di non intraprendere operazioni se non costretto dagli avvenimenti; egli spiegò molta attività, specie nella riorganizzazione delle truppe d'Africa. Con decreto del 14 luglio 1887, venne costituito un "Corpo speciale d'Africa" costituito di: 2 reggimenti cacciatori a piedi; i squadrone cacciatori a cavallo; 4 batterie di artiglieria (2 da fortezza, i da campagna, 1 da montagna) e 4 compagnie di servizî: in totale 5000 uomini. Le truppe irregolari furono portate a un effettivo di 2000 uomini; fu inoltre assicurato il concorso delle tribù sottomesse, nonché delle bande dei capi Debèb e Cafèl. Furono migliorate le fortificazioni e iniziata la costruzione di una ferrovia decauville fra Massaua e Saàti. Nei mesi di ottobre e novembre 1887 fu inviata in Africa, al comando del ten. gen. A. Asinari di San Marzano, una brigata di rinforzo (8 battaglioni di fanteria, 2 batterie e 2 compagnie del genio) che insieme col "Corpo speciale d'Africa" formò una massa operante di circa 20.000 combattenti, con 38 pezzi di artiglieria.
Fallite le trattative col negus, il corpo di operazione, procedendo a lente tappe e facendosi seguire dalla costruzione della ferrovia, verso la metà di marzo 1888 rioccupava la posizione di Saàti e vi si fortificava. Pochi giorni dopo scendeva dall'altipiano il negus Giovanni con tutto il suo esercito, forte di oltre 80.000 uomini, e poneva il suo campo nella conca di Sabergùma. Ma invano il negus cercò di attirare le nostre truppe fuori delle loro posizioni; il generale italiano stette sulla difesa, e l'esercito avversario, costretto dalla penuria di viveri e da epidemie scoppiate fra i soldati, il 3 aprile cominciò a ritirarsi sull'altipiano.
Come risultato di questa campagna non solo si riebbero Saàti e Uaà, che ne erano lo scopo principale, ma il raggio dell'influenza italiana si allargò fino all'orlo dell'altipiano, mentre per mezzo di trattative con capi indigeni, la nostra autorità si estendeva anche fra le tribù interposte fra Massaua e Kassala e quelle disseminate lungo la costa del Mar Rosso.
Operazioni contro ras Mangascià (1894-95). - Nel marzo 1889 il negus Giovanni IV trovò la morte nella battaglia di Metemma contro i mahdisti. Il governo italiano favorì, con aiuti di armi e di denaro, l'ascesa al trono del ras dello Scioa, Menelik, il quale dal canto suo s'impegnò a non ostacolare la penetrazione italiana nel Tigrè; infatti nel maggio seguente il nuovo negus Menelik II strinse con l'Italia il trattato di Uccialli e poco dopo gl'Italiani occuparono Cheren e Asmara. Ma la nomina di Menelik a negus aveva offeso le aspirazioni di ras Mangascià, figlio del defunto negus Giovanni IV, e il governo italiano, a conoscenza di questo fatto, di fronte all'atteggiamento ambiguo di Menelik riguardo all'applicazione dell'art. 17 del trattato di Uccialli (per i termini della questione v. etiopia: Storia, XIV, p. 472) s'indusse a stringere alleanza con ras Mangascià (convegno del Marèb del 6 dicembre 1891). Ciò irritò il negus contro il governo italiano. La crisi economica che afflisse l'Italia in quegli anni (1892-1893) consigliò di adottare una politica tendente a evitare ogni attrito con Menelik; lunghe trattative si svolsero con questi, ma senz'altro risultato che quello di mettere in sospetto Mangascià. Costui, credendosi tradito dall'Italia, fece atto di sottomissione al negus in Addis Abeba e, di ritorno nel Tigrè, si diede a fomentare la rivolta fra i capi delle popolazioni dell'Eritrea a noi sottomesse.
Il capo abissino Bahtà Agòs governava la provincia dell'Acchelè Guzài in nome dell'Italia; gli era a fianco, come rappresentante del governo dell'Eritrea (nome col quale furono designati i possedimenti d'Africa nel 1891), il tenente G. B. Sanguinetti, residente in Saganèiti. Bahtà Agòs, intermediarî i padri lazzaristi francesi, si lasciò attrarre dalle promesse di ras Mangascià: il 14 dieembre 1894 fece imprigionare il residente Sanguinetti e si proclamò signore indipendente dell'Acchelè Guzài. Il governatore gen. O. Baratieri, da Cheren, dove si trovava, ordinò subito al maggiore P. Toselli di muovere contro i ribelli. Il mattino del 26 il Toselli aveva già radunate tre compagnie sotto Saganèiti e intimò a Bahtà Agòs la consegna delle armi e la liberazione del tenente Sanguinetti. Bahtà Agòs cercò di temporeggiare e nella notte, abbandonata Saganèiti, si diresse con i proprî uomini su Halài per assalire di sorpresa quel forte, presidiato da una compagnia indigena al comando del capitano Castellazzi. Questi, assalito verso le 13,30 del 27 da 1600 ribelli, si difendeva coi suoi 250 uomini quando, verso le 16,45, la colonna Toselli sopraggiunse a tergo degli assalitori che, presi fra due fuochi, furono sconfitti. Lo stesso Bahtà Agòs trovò la morte in combattimento. Il tenente Sanguinetti venne liberato; l'Acchelè Guzài fu pacificato.
La pronta repressione dell'insurrezione sconcertò ras Mangascià, che si affrettò a felicitarsene col governatore Baratieri; ma essendo palese la sua connivenza con Bahtà Agòs, il Baratieri gl'intimò di consegnare i ribelli di Halài che si erano rifugiati presso di lui e di muovere, secondo quanto si era convenuto, contro i dervisci; e non avendo ricevuto risposta, raccolse un corpo di operazioni di circa 3500 uomini in Adi Ugri e il 26 dicembre mosse su Adua ove accampò sulle alture di Fremona. Mangascià cercò apparentemente d'intavolare trattative, ma in realtà, accordatosi con ras Agòs dello Scirè, avanzò minaccioso verso il confine dell'Eritrea, alla testa di 10.000 uomini, i due terzi dei quali, all'incirca, armati di fucili. La minaccia d'invasione della colonia determinò il generale Baratieri a ritirarsi da Adua, e a concentrarsi in Adi Ugri donde, per sbarrare il passo a Mangascià, il 12 gennaio si portò col corpo di operazioni a Coatit, ove era accampato l'esercito nemico. Il combattimento che seguì (v. coatit) nei giorni 13 e 14 costrinse il ras Mangascià, per le perdite subite e per difetto di munizioni, ad abbandonare le sue posizioni (giorno 14) e a ritirarsi verso la conca di Senafè dove il giorno appresso fu raggiunto dalle truppe del gen. Baratieri e nuovamente volto a precipitosa fuga. Ras Mangascià perdette oltre 2000 uomini tra morti e feriti contro 123 morti e 192 feriti italiani. Baratieri fece occupare da un capo indigeno nostro alleato, Agòs Tafarì, l'Agamè, quindi, incaricato il maggiore Toselli della pacificazione e del riordinamento dell'Acchelè Guzài, fece ritorno a Massaua.
Ras Mangascià si affrettò a scrivere al Baratieri (promosso frattanto tenente generale) e al re d'Italia lettere di scusa e di pace, ma era tutt'altro che rassegnato a lasciare l'Agamè nelle mani di Agòs Tafarì, e, coadiuvato da Tesfài Antalò, lo spodestato governatore di quella regione, si affrettò a ricostituire le sue forze sollecitando anche aiuti da Menelik e avvicinandosi ad Hausièn, con l'evidente intenzione di tentare un colpo di mano contro l'Agamè. Il gen. Baratieri gl'intimò il licenziamento degli armati; non ottenendo che risposte dilatorie, raccolto verso la metà di marzo un corpo di truppe di circa 4000 uomini a Senafè, mosse indi a poco alla volta di Adigrat, che occupò il giorno 25; quindi su Adua, ove entrò il 12 aprile. Ma di fronte all'opposizione del governo italiano, che paventava complicazioni politiche e nuovi oneri finanziarî, il Baratieri dovette per il momento rinunziare all'annessione di Adua.
Solo nell'agosto 1895 il Baratieri ottenne l'autorizzazione all'occupazione del Tigrè, che fu effettuata nel settembre-ottobre. Mangascià dovette ritirarsi davanti alle forze italiane e lasciò solo una piccola retroguardia che, raggiunta dalle truppe del generale G. E. Arimondi il 9 ottobre, fu sconfitta a Debrà Ailà. Macallè e Adua furono occupati stabilmente, e il Tigrè, annesso alla Colonia Eritrea, fu affidato al comando del generale Arimondi. Si chiudeva così il primo periodo della guerra.
Campagna del 1895-96 contro l'impero etiopico. - Ma intanto si andava ognor più delineando la minaccia di un'invasione etiopica, data la tensione dei rapporti fra l'Italia e Menelik, specialmente dopo l'occupazione del Tigrè. Menelik, provvedutosi di armi, munizioni, viveri e bestiame, era riuscito a imporsi ai capi dipendenti e a formare contro l'Italia l'unione di quasi tutta l'Etiopia.
Le prime mosse degli Abissini si effettuarono nella primavera del 1895, ma l'ulteriore avanzata fu rimandata alla stagione autunnale dopo il termine delle piogge. Ras Mikā'el e ras Makonnen insieme con ras Oliè, ras Alula, ras Mangascià e altri, mossero in precedenza con le loro truppe verso il nord; Menelik, il re del Goggiàm e gli altri ras minori seguivano coi loro eserciti.
Ai primi di dicembre, l'esercito abissino, forte di oltre 100.000 combattenti, si trovava diviso in due masse, una a N. del lago Ascianghi, al comando di ras Makonnen (30.000 uomini) e una a S., al comando dell'imperatore Menelik (70.000 uomini). Le forze mobili della colonia (circa 10.000 combattenti, astrazion fatta di 2000 uomini sparsi nei varì presidî) erano frazionate in 3 nuclei principali: ad Amba Alagi (maggiore Toselli con 2300 fucili e 4 pezzi); a Macallè (generale Arimondi con 2600 fucili e 2 pezzi), ad Adigrat, in corso di concentramento, 5000 uomini.
Il giorno 2 dicembre il maggiore Toselli segnalava al gen. Arimondi l'ingrossare delle forze nemiche e la loro palese intenzione di avanzare su Amba Alagi. Il 4 dicembre vi fu uno scambio di fucilate a S. del passo e il giorno 5 il Toselli chiese rinforzi al gen. Arimondi. Questi, nel pomeriggio dello stesso giorno, inviò un messo al Toselli per avvertirlo che la mattina seguente avrebbe avanzato in direzione di Amba Alagi e informò della decisione il governo. Ma il gen. Baratieri telegrafo da Asmara che fosse invece ordinato al Toselli di ripiegare mantenendo il contatto. Sennonché quest'ordine, pervenuto all'Arimondi alle 19 del 5 dicembre e trasmesso ad Amba Alagi alle 7 del giorno successivo, non giunse a destinazione, sicché il Toselli rimase nella convinzione di essere soccorso quanto prima. Siccome poi la mattina del giorno 6 giunsero da Amba Alagi notizie sempre più gravi, le quali facevano presagire certo un attacco per quello stesso giorno o per il giorno seguente, l'Arimondi, avuta questa volta l'autorizzazione del governatore, decise di affrettare la partenza per sostenere, giusta le disposizioni del Baratieri, il ripiegamento del Toselli, da farsi appena questi vedesse "di non poter contrastare da solo l'avanzata su Amba Alagi o di correre pericolo di essere tagliato fuori da colonne giranti". ll gen. Arimondi diede comunicazione di ciò al Toselli, ma anche questa comunieazione, inviata il 7 mattina, non giunse a destinazione, poiché appunto la mattina del 7 gli Abissini avevano attaccato la posizione di Amba Alagi. Il Toselli, convinto che sarebbe stato soccorso, resistette eroicamente per più ore, finché, circondato da ogni parte da forze più che decuple, cadde con quasi tutti i suoi (v. amba alagi). L'Arimondi, giunto intanto ad Aderà (a una ventina di km. da Amba Alagi), raccolse i pochi superstiti e, nella notte del 7, ripiegò su Macallé. Il giorno 8, poi, non reputando più possibile effettuare il concentramento di tutte le forze a Macallé, decise di ritirarsi verso Adigrat, a Edagà Hamùs, lasciando nel forte di Enda Jesùs il maggiore G. Galliano con circa 1200 uomini.
In seguito all'insuccesso di Amba Alagi, la fiducia delle popolazioni indigene parteggianti per l'Italia rimase scossa. I capi, che erano rimasti incerti da qual parte piegare, raccolsero guerrieri per ingrossare le file scioane. Da questo momento, scopo precipuo fu di difendere la colonia dall'immediata invasione e di guadagnar tempo, in attesa dei rinforzi che si allestivano in Italia e che non potevano essere disponibili se non alla fine di gennaio. Furono ritirati i presidî più esposti e concentrate ad Adigrat tutte le forze disponibili (poco meno di 10.000 uomini, comprese le bande).
Dopo Amba Alagi il nemico avanzò con grandi cautele. Durante i giorni 8 e 9 dicembre pattuglie di cavalleria galla stormeggiarono attorno al forte di Enda Jesùs. A metà dicembre tutta l'avanguardia abissina, la stessa che aveva attaccato Amba Alagi, era in vista di Macallè.
Intanto ras Makonnen aveva riaperto trattative di pace, ma poiché queste non condussero ad alcuna soluzione, il 10 gennaio 1896 cominciarono le fucilate contro l'Enda Jesùs; il giorno 8 il nemico s'impossessò delle sorgenti dell'acqua e non le abbandonò più. Dopo ripetuti assalti, respinti dai valorosi difensori, Menelik rinunciò ad agire di viva forza e si limitò a uno stretto blocco, ben sapendo che il presidio avrebbe dovuto capitolare per sete. In questa grave situazione, mentre appariva pericoloso muovere da Adigrat in soccorso dei difensori di Macallè (per quanto fossero già arrivati i primi rinforzi dall'Italia) e mentre dal canto loro gli assediati, ridotti agli estremi, avevano deciso di far saltare il forte, un messo italiano, che era stato inviato al campo del negus, tornava (17 gennaio) con l'offerta della liberazione del presidio di Macallè concessa da Menelik, indotto forse a ciò dalla speranza di addivenire alla pace e di cancellare il trattato di Uccialli dopo aver affermato il suo potere su tutta l'Etiopia in virtù dei successi già riportati.
Così il 22 gennaio il battaglione Galliano poté uscire dal forte con gli onori militari e con la promessa che sarebbe stato avviato ad Adigrat. Menelik, dal canto suo, non osando attaccare frontalmente la posizione di Edagà Hamùs, decise di aggirarla: per coprire le sue mosse fece avanzare verso N. un'avanguardia che si spinse da prima a N., su Dongollò, poi piegò a O., mentre il grosso dell'esercito sfilava per Hausièn, ove giunse il 29, proseguendo poi su Adua. Durante questo spostamento il battaglione Galliano dovette marciare, quasi scudo al nemico contro possibili offese da Edagà Hamùs, con l'avanguardia abissina, e venne liberato soltanto il 29 a Hausièn. L'aggiramento degli Abissini veniva a minacciare d'invasione la colonia per le vie di Godofellassi e del Belesa, perciò il gen. Baratieri effettuò un cambiamento di fronte da S. a O. (10 febbraio) trasferendo il corpo d'operazioni - già rinforzato da nuove truppe giunte dall'Italia - nella regione dell'Enticciò, ricca d'acqua, collegata con Adigrat e protetta sul davanti dalla forte posizione di Suarià. In tal modo però la linea di comunicazioni: Massaua-Adì Caieh-Mai Merèt rimase esposta alle molestie del nemico, tanto più quando, nella notte dal 12 al 13 febbraio, i nostri alleati, ras Sebàth e Agòs Tafarì, passarono al nemico e si diedero a sollevare la ribellione a tergo dei nostri e ad assaltare le carovane e i servizî delle retrovie. I ribelli nella notte dal 13 al 14 sorpresero il piccolo corpo di Seetà, lungo la via Adigrat-Suarià, e se ne impadronirono. Due drappelli, accorsi all'indomani da Adigrat, vi furono sconfitti; quasi contemporaneamente anche al vicino passo di Alequà i ribelli sconfiggevano altri nostri reparti accorsi a difenderlo. La neeessità di assicurare le retrovie costrinse allora il gen. Baratieri a distaccare dalle truppe avanzate, prima un battaglione e due compagnie, i quali il giorno 17 poterono sconfiggere i ribelli e riprendere i due colli suddetti; poi un reggimento intero a Mai Merèt, dove il giorno 20 si trasferì l'intendenza.
Menelik intanto, considerando il pericolo di un attacco contro le nostre posizioni e preoccupato nello stesso tempo dalla difficoltà di poter più a lungo far sussistere nella sfruttata conca di Adua le sue numerose forze, visto che i nostri non si lasciavano indurre ad attaccare, era disposto a trattare, ma non fu possibile venire a un accordo insistendo il governo italiano nel volere la rinnovazione del trattato di Uccialli.
Intanto giungevano dall'Italia altri battaglioni di rinforzo, mentre permaneva gravissima la situazione logistica, specialmente rispetto alle salmerie. Per assicurare lo stretto necessario al corpo di operazioni, da Adì Caieh in avanti, sarebbero occorsi 3000 cammelli e non se ne avevano che 2300, i quali alla fine di gennaio erano ridotti a 1700. In tal modo l'affluire di nuove truppe diveniva causa di debolezza. Agli ultimi di febbraio non si avevano disponibili vettovaglie se non per pochi giorni ancora. S'imponeva perciò la necessità o di ritirarsi o di tentare, con un'avanzata riuscita su Adua, di aprirsi la più breve e comoda via di rifornimento sui magazzini di Adi Ugri e Asmara. Il Baratieri, sebbene propenso a un ripiegamento, per l'attuazione del quale aveva già dato disposizioni, trascinato dal parere unanime degli altri generali, contrario al ripiegamento stesso, nella sera tra il 28 e 29 febbraio, risolse di avanzare nella notte sul 10 marzo dalla posizione di Suarià fino alla posizione costituita dal M. Semaiatà e dal M. Esciasc; è, indotto forse a quest'atto rischioso anche da un telegramma del presidente del consiglio, in data 25 febbraio, contenenti frasi vivaci.
Nel concetto del Baratieri questa nuova avanzata, da compiersi di sorpresa con una marcia notturna, doveva costituire una suprema provocazione per il nemico e non doveva condurre al combattimento che nel caso in cui il nemico si fosse indotto ad attaccare le fortissime posizioni da occupare. La marcia verso Adua ebbe effettivamente luogo con quattro colonne nella notte sul 10 marzo, ma, in seguito a una disgraziata sequela di contrattempi e di disguidi, condusse a una serie, non voluta, di combattimenti separati fra le varie colonne e le soverchianti forze abissine, combattimenti che, nel loro complesso, vanno sotto il nome di battaglia di Adua (v.). Le forze italiane vennero accerchiate e, dopo eroica resistenza, soverchiate dal numero dei nemici. L'inseguimento diretto dei vincitori si protrasse soltanto per una quindicina di km. I fuggiaschi però furono molestati durante tutta la ritirata dalle popolazioni avide di bottino e da bande di ribelli. La ritirata avrebbe potuto forse essere protetta dal reggimento di fanteria (di Boccard) che era stato lasciato a Mai Merèt a protezione delle retrovie; ma il colonnello di Boccard, privo di ordini e di notizie, dopo essere rimasto in posizione fino alle 12 del giorno 2, preoccupato della sua posizione di fronte a tutto l'esercito abissino, ordinò la ritirata su Adì Caieh, ove il giorno 3 era giunto anche il Baratieri. Il forte di Adigrat continuò a esser tenuto dal maggiore M. Prestinari, per non abbandonare i numerosi feriti ivi ricoverati. Il corpo d'operazioni eritreo perdette circa il 5000 delle sue forze (6600 morti, 500 feriti, 1700 prigionieri). Gli Abissini sembra avessero circa 7000 morti e 10.000 feriti.
La fine cosi disastrosa della campagna che aveva destato tante spe-. ranze e costato tanti sacrifici, provocò in Italia dimostrazioni e tumulti contro il governo e contro il Baratieri. In realtà la situazione era grave, ma non disperata: mentre Menelik con le sue forze ormai scosse dalle perdite subite, senza viveri, minate dalle epidemie, era nell'impossibilità di tenere ancora il campo, nella colonia rimanevano ancora numerose truppe alle quali venivano rapidamente aggiungendosene molte altre provenienti dall'Italia. Ma qui gli avversarî della politica africana invocavano l'abbandono della colonia, tentando perfino con la violenza d'impedire la partenza di nuovi rinforzi. Il gabinetto Crispi dovette dimettersi e il 15 marzo gli successe quello formato dal generale Ricotti, che ne diede la presidenza al Di Rudinì. Questi annunciò che si sarebbe subito proseguito nelle trattative di pace, già aperte subito dopo la battaglia dal suo predecessore, ma per ottenere condizioni onorevoli intendeva frattanto continuare nelle ostilità e chiedeva un credito di 140 milioni. Menelik, dal canto suo, dopo aver accennato a uno spostamento verso Enticciò, si dispose alla ritirata raccogliendo il suo esercito nel Faràs Mai. Di là, dopo inutili trattative col comando italiano, verso il 20 iniziò la ritirata lasciando all'investimento di Adigrat i soli capi tigrini. Frattanto il 4 marzo era giunto a Massaua il gen. A. Baldissera che si era dato a organizzare la difesa e mentre, d'accordo col governo, cercava di intavolare trattative di pace col negus, servendosi del maggiore T. Salsa, aveva fatto ripiegare tutte le truppe avanzate sulla linea Bàresa, Ghinda, Asmara. Allorché giunsero le due divisioni L. Heusch e N. Del Maino, nonché 3 battaglioni e 3 batterie chiesti dopo la battaglia, e nella colonia si ebbe una forza di circa 41.000 uomini, il gen. Baldissera si accinse a liberare il presidio di Adigrat e ai primi d'aprile iniziò il movimento in avanti, giungendo il 12 con tutto il corpo di operazioni ad Adì Caieh. Quivi sostò fino alla fine del mese e riprese quindi l'avanzata. Dopo una dimostrazione su Adua, allo scopo di distrarre le forze nemiche assedianti Adigrat, il 2 maggio il Baldissera avanzò ordinatamente con le due divisioni fino a Barachìt, donde poi il 3 procedette per il pianoro di Ghelebà, e il 4 arrivò a Cherseber, in vista del forte di Adigrat. La marcia del corpo di operazioni sconcertò Mangascià e ras Sebath e poiché la dimostrazione su Adua vi aveva attratto ras Alula, indebolendo le forze assedianti Adigrat, queste si tennero al largo senza combattere. Così il generale Baldissera il giorno 4 stesso si mise in comunicazione col Prestinari.
Il buon andamento delle operazioni fece nascere la speranza di una rivincita, ma il governo, intento a trattare la pace e la liberazione dei prigionieri, ordinò lo sgombro di Adigrat e il rimpatrio delle truppe. Prima di ritirarsi però il Baldissera intimò ai ras tigrini la consegna dei prigionieri italiani trattenuti nel Tigrè e riuscì a ottenere la restituzione del maggiore Salsa, di altri 7 ufficiali e 109 uomini di truppa prigionieri, nonché il permesso di far seppellire i morti d'Adua sul campo di battaglia. Adigrat, smantellato il forte, fu ceduto a Mangascià il 18 maggio e subito dopo il corpo d'operazioni rientrò nei confini della colonia.
Bibl.: G. Piccinini, Guerra d'Africa, Roma 1887; L. Chiala, La spedizione di Massaua, Roma 1888; A. Di San Marzano, Relazione sulla operazione militare eseguita nell'inverno 1887-88 per la rioccupazione di Saàti, in Rivista militare italiana, 1888; La guerra italo-abissina 1895-96, Milano 1896; O. Baratieri, Operazioni militari nella Colonia Eritrea dal 15 dicembre 1894 al 20 gennaio 1895, in Rivista militare italiana, 1895; id., Memorie d'Africa 1892-1896, Torino 1897; id., Autodifesa davanti al tribunale speciale dell'Asmara, Roma 1897; Documenti della Guerra d'Africa, marzo-giugno, in Rivista di artiglieria e genio, 1896; L. Dal Verme, Il ministero e la campagna d'Africa dopo il 1 marzo 1896, Roma 1897; A. Baldisssera, Relazione sulle operazioni militari nel secondo periodo della campagna d'Africa 1895-96, in Rivista militare ital., 1896; V. Mantegazza, La guerra in Africa, Firenze 1896; A. Di Giorgio, Le memorie d'Africa del gen. Baratieri e il soldato italiano, in Rivista politica e letteraria, 1899; A Bourelly, La battaglia di Abba Garima, Milano 1901; A. Angherà, L'azione militare nella nostra politica coloniale, in Rivista militare ital., 1908; G. Mondaini, Manuale di storia e legislazione coloniale del Regno d'Italia, Roma 1927; E. Bellavita. Adua. I precedenti; la battaglia; le conseguenze (1881-1931), Genova 1931. Vedi inoltre la bibliografia delle voci alle quali si rinvia nel testo.