guelfi e ghibellini
. I termini guelfi e ghibellini come denominazione di due partiti opposti compaiono più o meno nel terzo-quarto decennio del secolo XIII: se poi si vuol dare agli stessi un contenuto politico abbastanza definito si deve scendere ancora arrivando presso a poco alla metà del Duecento: e Firenze, dove la comparsa di questi partiti precede di qualche anno il loro sorgere in altre città, rientra perfettamente in questo quadro.
Guelfi e ghibellini intesi nel senso di partito sono l'espressione, il risultato di una situazione sociale e politica del tutto particolare, né è pensabile di arrivare ad afferrare la natura e le conseguenze politiche di questa partizione se prima non si conosca l'ambiente socio-economico-politico che la generò. In particolare per l'ambiente fiorentino, bisogna risalire al tempo di Cacciaguida (sec. XII), epoca in cui si delineano già chiaramente, specialmente verso la fine del secolo, atteggiamenti e tendenze politiche nuovi che mettono in evidenza le lacerazioni del gruppo sociale più elevato e la crisi della costituzione del primo comune cittadino.
A Firenze come altrove il libero comune si forma per gradi successivi e vi concorrono in maniera determinante le famiglie dell'ambiente matildino, profondamente legate al mondo feudale, di cui esse erano parte e molte delle quali son ricordate da D. nei canti XVI e XVII del Paradiso. Il primo comune, quella libera associazione che ha e del pubblico e del privato, ha qui la sua base, la sua forza, la sua ragion d'essere: esso riflette una situazione ancora profondamente legata al passato, ma contiene anche i germi dei prossimi grandiosi sviluppi.
Nel corso del secolo XII, per varie circostanze, economiche e politiche specialmente, la società cittadina è al centro di una espansione senza precedenti: città viva e città morta, per adoperare un'espressione cara agli storici contemporanei, cambiano a vista d'occhio e così la primitiva limitata autonomia diventa vera e propria conquista politica e il comune, da società semi-privata, diviene Stato; siamo proprio nel mezzo di quello che la storiografia usa chiamare col termine di ‛ comune consolare ', espressione di ambienti e d'interessi particolari e generalmente ristretti a un numero limitato di famiglie che, logicamente, hanno una base sociale e politica estremamente circoscritta.
Ma già nel corso del secolo XII, seconda metà, si delinea, e poi si manifesta con crudezza, il contrasto tra la costituzione rimasta immobile e superata dagli avvenimenti e la società evoluta e profondamente trasformata: il contrasto è netto e profondo; sono i primi sintomi di una crisi di fondo che investe le città italiane avviate verso la completa autonomia politica.
La cosa, d'altronde, è più che naturale: il gruppo consolare, ristretto di numero ed espressione d'interessi limitati, è incapace a far fronte a una situazione più complicata e tutta nuova; la crisi investe l'intero comune, dalla società alla costituzione. Un fermento nuovo è chiaramente avvertibile dal vertice alla base: le famiglie consolari, già gruppo compatto, si scindono e si combattono per motivi politici commisti, in stretta simbiosi, a interessi di natura pratica, a inimicizie di persone e di casate. Nel frattempo gruppi sociali nuovi si fanno avanti e portano alla ribalta interessi e pensieri prima sconosciuti: perciò crisi profonda al vertice e aspirazioni nuove e forza di espansione alla base; la costituzione comunale è superata dalla vita e allora si assiste alla trasformazione, o meglio all'evoluzione, del diritto pubblico del comune; la costituzione consolare, quindi, è incapace a far fronte ai nuovi bisogni della società e a sua volta entra in crisi: è il travaglio società-costituzione della fine del secolo XII, a conclusione del quale si avrà l'istituto del podestà come organo stabile del diritto pubblico, con cui la costituzione stessa entrerà nella sua seconda fase.
Nella pratica, logicamente, non fu così semplice come può sembrare da quanto si è detto: la ricerca di nuove forme giuridiche fu dovunque laboriosa e passò attraverso esperimenti successivi intercalati, più o meno a lungo, dal ritorno alla costituzione consolare; per esempio, è solo col 1207 che a Firenze l'ufficio del podestà diviene stabile, mentre i primi tentativi della sua introduzione risalivano alla fine del secolo XII. Il fenomeno è pressoché generale e questo, logicamente, sottintende condizioni politiche e sociali molto simili fra loro, almeno nel nord e nel centro dell'Italia.
Il tessuto urbanistico dei nascenti comuni risente profondamente i contrasti della società cittadina: gli agglomerati urbani si riempiono di torri; si afferma così un'architettura verticale, domestica e bellicosa (Valey, p. 176), ed è da queste torri che escono le prime vampate di guerra cittadina. Né è da pensare, come qualcuno ha pur voluto sostenere, ma a torto, che questa corsa verso l'alto, quest'architettura verticale così caratterizzante i comuni medievali italiani, sia dovuta alla mancanza di aree fabbricabili; è piuttosto il riflesso fedele e immediato di una realtà sociale nella quale esse svolgono precise funzioni di difesa e di offesa; e il loro rapido diffondersi (" e di queste torri avea grande numero nella città Firenze, l'una alta cento e centoventi braccia, e tutti i nobili, o la maggior parte, aveano in quello tempo torri, e quelli che non ne avieno, ve ne feciono assai ", Malispini LXXV, anno 1177) è la testimonianza parlante di una società in crisi, nella quale il ricorso alle armi è un fatto giornaliero e tale da costituire quasi una malattia endemica.
L'irrequietezza cittadina e la spaccatura del gruppo dirigente sono chiaramente visibili anche nella Firenze della seconda metà del secolo XII: l'episodio degli Uberti (1177), la famiglia dello scandalo nella storia fiorentina e una delle più possenti del periodo, rientra perfettamente in questo quadro, e con immagini di sangue e di fuoco evoca con immediatezza davanti ai nostri occhi una società in armi e divisa in blocchi contrapposti: e questa è la " pistolenza " che assale gran parte delle città italiane del tempo.
La divisione, lo ripetiamo, ha alla base interessi e questioni di carattere vario, ma più spesso personale, di casata o di consorteria: quindi son per lo più motivi transeunti, spesso di natura pratica e suscettibili di cambiamenti; e questo ci spiega gli spostamenti di casate o d'intere consorterie da un gruppo all'altro, come, ad esempio, fecero i Malispini i quali, da amici degli Uberti ne divennero fieramente nemici per offese ricevute.
Ma l'antagonismo non è giunto alle ultime conseguenze, la lotta non si è radicalizzata e quindi la coesistenza dei gruppi, ancora non partiti politici, è tuttora possibile; e sanata l'offesa, alla maniera dell'antica faida, la convivenza cittadina può continuare a sussitere. In questo clima in cui l'odio esplode a fiammate, ma si estingue rapidamente come rapidamente era sorto, si spiegano, e vorrei aggiungere si capiscono, le affermazioni dei cronisti, secondo le quali durante i tumulti causati dall'irrequietezza degli Uberti (1177-1179) si assisteva al fatto, curioso solo in apparenza, di feroci combattimenti diurni per le strade, mentre la sera i combattenti si riunivano in festosi banchetti, lodando ognuno le bravate della giornata e le stoccate date e ricevute (" l'uno die combatteano e l'altro mangiavano e bevevano insieme, novellando delle virtù e prodezze l'uno dell'altro ", Malispini LXXV e Villani V 9).
Ma con le generazioni successive questo non sarà più possibile: la lotta, politicizzata dallo scontro fra Papato e Impero, si radicalizza e diviene lotta politica a oltranza per la conquista integrale del potere; le fazioni, già parti di Chiesa e d'Impero, assumono allora la denominazione (siamo verso il 1240 circa) di guelfi e ghibellini e così l'antagonismo diviene feroce, senza esclusione di colpi; i partiti cercano l'appoggio armato esterno per prevalere: cominciano così le proscrizioni. E l'odio dei partiti si farà così forte, così irrazionale direi, da rivolgersi anche contro le pietre: palazzi e torri verranno così abbattuti a vicenda, a seconda dell'alterna fortuna; il libro dei danni dati ai guelfi fiorentini dopo il 1260 è uno dei primi e più noti documenti che metta in luce questa triste consuetudine.
La saltuarietà della magistratura podestarile dei primi del Duecento conferma l'irrequietezza e l'instabilità della società cittadina, specialmente di quella al vertice, incapace di reggere ulteriormente le sorti del comune. Nuove forze economiche e sociali si fanno intanto avanti e chiedono di partecipare alla vita politica, perché questo vuol dire anche difesa d'interessi particolari e di gruppo: e la partecipazione ha da essere non uti singuli', cosa che nella pratica avviene anche spesso, ma non ha un significato politico, bensì come rappresentanti delle associazioni economiche ormai affermatesi dovunque; così la base politica tende a spostarsi verso la massa popolare, destinata a divenire fra non molto la forza più omogenea e più organizzata della città. Sono le prime avvisaglie del successivo sviluppo politico e costituzionale del comune cittadino del Duecento.
Nell'Italia centro nord il fenomeno descritto è pressoché generale e questo ci dice che siamo di fronte a condizioni socio-economiche e politiche quasi identiche: né Firenze fa eccezione a quanto si è detto.
L'uccisione di Buondelmonte Buondelmonti (v.), del 1216, acuisce in Firenze la tensione già esistente tra i gruppi (" con tuttoché dinanzi assai erano le sette tra' nobili cittadini ", dice il Villani, V 38) generando nuovi spostamenti nell'ambito dei medesimi. Ma il dissidio, non bisogna dimenticarlo, era specialmente causato dalla spaccatura del gruppo dirigente e chi esprimeva queste tensioni era una società (Amidei e Fifanti, Uberti e Giandonati, Donati e Buondelmonti, ecc.) che per mille rivoli era ancora legata profondamente al modo di vivere e di pensare del mondo feudale e che poi era quella stessa che nel secolo precedente aveva dato origine al comune.
Tutti i cronisti son d'accordo nell'attribuire alla vicenda un'importanza primaria nell'origine delle Parti cittadine, ma si deve anche ricordare che tutti quanti (Malispini, Compagni, Villani e perfino il tardo trecentesco Marchionne di Coppo Stefani) insistono sul fatto che la divisione del gruppo dirigente era di gran lunga precedente al 1216: e nel parlare dell'avvenimento si dice che fu la goccia, la scintilla o l'occasione dell'esplosione dell'odio, nel che è naturalmente implicito il richiamo a una situazione di tensione degli anni precedenti.
Nelle sue conseguenze storiche lontane l'episodio del Buondelmonti va però ridimensionato perché esso, e tanti altri fatti consimili, pur essendo stato un avvenimento clamoroso, da far epoca si direbbe (ed è proprio per questo, non si dimentichi, che poi sarà preso come termine a quo nella divisione cittadina, e non è certo un caso se il Compagni apre la sua cronica proprio con questo fatto), tuttavia non fu sicuramente così gravido di conseguenze come si vorrebbe far credere a prima vista. I cronisti fiorentini del Due e del Trecento sono naturalmente portati a politicizzare al massimo l'uccisione del Buondelmonti e non riescono a comprendere che l'avvenimento è uno dei tanti anelli di una catena di tensione nei rapporti interni del gruppo dirigente, la ‛ societas militum ' irrimediabilmente spaccata in due: e anche in questo caso (e in tanti altri, come ha già messo in evidenza il Salvemini) essi giudicano con occhi e mente successivi l'avvenimento del 1216 e, logicamente, non riescono a sceverare il vero dal falso e quindi non ne comprendono la vera essenza per cui ricorrono con naturale ingenuità al richiamo dell'intervento diretto della forza del male (" per subsidio diavoli ", come dice il Villani, V 38).
Il fatto di Buondelmonte rende incandescente la già calda atmosfera della città: non si deve dimenticare, infatti, che siamo in tempo in cui le casate sono profondamente unite dai legami del sangue, di vicinanza, d'interesse e che la consorteria è uno degli elementi più vivi e più sentiti del tessuto sociale del comune. Perciò un'offesa pubblicamente grave come quella di Buondelmonte non poteva non acuire i dissensi dei due gruppi cittadini, già divisi e già di fatto nemici l'un dell'altro. Ma bisogna anche sottolineare il fatto che non si va più in là e che la lotta non varca le mura della città: e tutto questo conferma quanto già sappiamo, cioè che ci troviamo di fronte a una società comunale in crisi, il cui gruppo dirigente, che era stato l'ossatura e l'espressione del primo comune consolare, è ora incapace, anche perché premuto da forze nuove, a trovare una formula di governo; quindi l'episodio del 1216 è una delle manifestazioni più vistose della crisi di rapporti sociali esistenti al vertice del comune. E che si sia nel vero, che cioè in questi primi anni del '200 lo stato di tensione esistente nei comuni italiani sia ancora una conseguenza della divisione interna del gruppo dirigente, lo prova l'assenza pressoché assoluta del popolo, cosa che dopo, cioè quando i gruppi attraverso un processo di politicizzazione diventeranno partiti, non avverrà più: ma allora prenderanno corpo e diventeranno d'uso comune i termini di guelfi e ghibellini come sinonimi di raggruppamenti politici, nei quali le forze popolari non saranno totalmente assenti come lo sono ora.
Gli avvenimenti cittadini del 1216 portano all'accentuarsi delle divisioni, e i raggruppamenti si precisano meglio di quanto non fosse avvenuto prima: ma, lo ripetiamo ancora una volta, sarebbe arbitrario immaginare questi gruppi come qualche cosa di fisso e d'immutabile: gli spostamenti da una parte all'altra sono ancora abbastanza frequenti in conseguenza dei mutevoli rapporti che compongono le parti.
L'esame degli elenchi fornitici dai cronisti (Malispini C; Villani V 39) può suggerire considerazioni di qualche conto, pur dovendosi tener sempre presente che gli elenchi sono puramente esemplificativi (e gli scrittori stessi, d'altronde, non mancano di sottolinearlo) e quindi non hanno nessuna pretesa di essere esaurienti. La prima cosa che balza agli occhi è la pochezza delle casate implicate nella divisione: siamo nell'ordine di non molte decine (secondo il Malispini sono esattamente 72) e questo ci dice subito che il grosso della cittadinanza era sostanzialmente estraneo alla lotta e che la scissione riguardava in particolare gruppi di casate poste al vertice sociale della città; in conclusione, siamo ancora di fronte alla spaccatura del gruppo consolare, della ‛ societas militum ', spaccatura sicuramente approfonditasi in seguito al fatto di Buondelmonte, ma non ancora divenuta definitiva come lo sarà poi successivamente, quando le Parti diventeranno guelfi e ghibellini.
Ancora: i gruppi avversari, oltre che essere di forze presso a poco uguali (se vogliamo prendere almeno come indicative le cifre del Malispini vediamo che 39 erano le casate guelfe e 33 quelle ghibelline), erano socialmente omogenei, cioè sostanzialmente appartenevano allo stesso ambiente socio-economico, cosa questa che mette subito in evidenza l'arbitrarietà delle affermazioni di alcuni storici moderni, secondo i quali le casate guelfe eran quasi tutte di antica nobiltà, mentre le ghibelline erano la più parte di nobiltà minore o " di mercanti che cominciavano a divenire potenti " (Villari, p. 167). Può ben darsi che casate popolari, ma certamente limitate nel numero, in qualche modo si siano trovate invischiate nella divisione: lo dicono direttamente i cronisti (" e molte altre schiatte d'orrevoli cittadini e popolani tennero l'uno coll'una parte e l'altro coll'altra ", Villani V 39) e lo fa pensare il fatto che ciò si riscontri con sicurezza anche in tempi successivi, in periodi di maggiori antagonismi, nei quali non si avrà mai una divisione di partiti rigidamente ancorata a gruppi socio-economici; è pensabile quindi che lo stesso sia avvenuto in questi primi decenni del Duecento, ma se anche ciò avvenne, e sembra che questo si debba sottolineare con convinzione, fu sicuramente limitato a pochi esempi; e che la nota dominante che risulta dalla lettura degli elenchi delle due fazioni è data dall'appartenenza delle casate al gruppo consolare cittadino.
Dopo la feroce esplosione del dissenso del 1216 la città si calma e le Parti sembrano placarsi: la tranquillità interna, la pace tra i gruppi, di nuovo protesi al " bene comune " (Malispini CXXXII), permettono la ripresa di una vigorosa politica estera di espansione lungo direttrici che segnano la montante marea del grosso commercio cittadino. Si spiegano così i decenni di guerra con Pisa e con Siena e nel rinnovato clima di distensione tra le Parti si capisce la presenza di cavalieri di Firenze delle opposte fazioni nella crociata bandita da papa Onorio III, dove il fiorentino Bonaguisa de' Bonaguisi si distinse particolarmente nella presa di Damiata.
Ma l'idillio, se è lecita un'espressione del genere, dura poco perché il comune si doveva evolvere attraverso le lotte dei partiti: a Firenze come altrove nel terzo decennio del Duecento (esattamente verso gli anni 1236-1237) si vedono cose nuove e si avverte con chiarezza la presenza di un clima ben diverso: nomine e deposizioni di podestà, paci fatte e poi smentite, primi esodi di fuorusciti. " Destructum est palatium comunis Florentini et palatium filiorum Galigarii ", dicono gli Annales Florentini II, mentre due anni dopo (1238) " filii Iohannis Donati ceperunt turrem filiorum Fantis ": come si vede sono chiaramente percepibili un odio e un accanimento (è da ora che ha inizio il triste spettacolo dell'abbattimento dei palazzi e delle torri e si fanno tali vuoti da modificare il panorama urbanistico cittadino) prima difficilmente riscontrabili.
Perché questo risveglio di Parte, che ha tutta l'aria di esser quasi improvviso? Nella divisione cittadina, ora fortemente rinfocolata, la lotta all'ultimo sangue fra Papato e Impero ha un immediato violento contraccolpo: Cortenuova (1237) vendica Legnano, ma lascia alle Parti il dente avvelenato.
I rapporti interni risentono con immediatezza gli effetti della lotta tra le due potestà universali e ne sono fortemente influenzati: ai vecchi motivi di dissidio, personali o di consorteria, ma sempre circoscritti e spesso componibili, si aggiunge ora la violenta passione politica.
I gruppi cittadini si trasformano così in vere e proprie organizzazioni politiche con legami esterni e la lotta si radicalizza rapidamente, diviene totale perdendo subito quell'aspetto paradossalmente gentile, anche se arrivava spesso al sangue, dei tempi precedenti.
Un clima totalmente nuovo investe allora le nostre città: sta sorgendo il comune di Parte. Ed è proprio di questo tempo, e in quest'atmosfera arroventata, che si hanno, e proprio a Firenze, le prime testimonianze dell'esistenza dei due partiti, dei guelfi e dei ghibellini, che proprio ora entrano nel vocabolario politico dell'Italia dei comuni (" Guelfi iverunt ad Gangalandi et Ghibellini ad Castignolum ", dicono gli Annales Florentini II per l'anno 1242). Questo, naturalmente, non avviene a caso: le nuove denominazioni testimoniano molto bene l'avvenuto trapasso e fanno vedere che la vita del comune cittadino è entrata in una fase tutta nuova: da qui in avanti l'interesse della Parte, del partito, dovrà prevalere e il comune, non più espressione dell'intera cittadinanza, s'identificherà con questo e quello: e lo stesso perdente abbandonando beni e città si porterà dietro il suo comune, come se questo fosse diventato un'appendice del partito.
Il legame profondo che guelfi e ghibellini instaurano con le due supreme potestà del tempo ha conseguenze importanti anche per altri aspetti: Papato e Impero, in forza della loro natura stessa, portano nella lotta interessi reali e concreti, anche se fortemente frammisti a motivi di altra natura: e ne viene di conseguenza che anche le forze economiche cittadine, il popolo grasso, ne sono fatalmente influenzati; si affaccia così alla ribalta della vita cittadina il popolo come forza organizzata, che sarà il protagonista della storia comunale dei decenni successivi.
La scissione della nobiltà cittadina, divenuta permanente con la nascita dei guelfi e ghibellini, porta come conseguenza immediata alla scomparsa della ‛ societas militum ', la cui ultima menzione a Firenze sarebbe, secondo il Salvatorelli, del 1245: ma è evidente che da gran tempo essa si era svuotata completamente del suo primitivo genuino significato; guelfi e ghibellini, in quanto derivazione del gruppo nobiliare, si danno ora quell'organizzazione militare propria delle fazioni nobiliari (Salvatorelli, p. 573). Quanto al significato da attribuire a questi nomi, da Bartolo in poi variamente se n'è discusso, ma sempre senza trovare risposte soddisfacenti: e forse il più vicino al vero è il Salvemini quando afferma che " si dicono guelfi o ghibellini secondo che sperano di essere aiutati nella loro politica dal Papa o dall'Imperatore; e quindi invocano il loro intervento nelle questioni interne e approfittano fin che possono del loro appoggio " (Salvemini, p. 6). Voler comprendere a ogni costo il perché una città fu guelfa e l'altra ghibellina sarebbe una fatica improba e, forse, inutile: v'influirono per lo più ragioni di opportunità politica locali, così come nella formazione degli schieramenti interni della città questo o quel gruppo si disse guelfo semplicemente perché gli avversari si erano schierati nella Parte opposta. Cercarvi motivi di altra natura sarebbe forse vano, anche se bisógna ammettere che la tradizione filo-papale o filo-imperiale vi ebbe sicuramente una parte molto importante: si capisce così come Firenze fu guelfa, mentre Pisa e Siena non potevano non abbracciare il partito opposto.
Guelfi e ghibellini diventano pedine importanti nella lotta fra Papato e Impero e l'interesse locale si sposa con quello delle supreme potestà del tempo: nella gara per la supremazia cittadina si arriva così all'intervento di forze esterne in favore di questo o quel partito, di forze sostanzialmente equilibrate, per cui si assiste alla nascita del comune di Parte, mentre gli avversari, i perdenti, son costretti a lasciare la patria dando inizio allo spettacolo dell'esodo di massa.
La superiorità imperiale permette alle forze ghibelline di prevalere rapidamente: " onde i Ghibellini presono vigore e con più forza e vigore pugnarono contro a' Guelfi, i quali non aveano aiuto, né attendeano soccorso perché la Chiesa era a Lione in su' Rodano e la forza di Federigo era grande in tutta parte di Talia " (Malispini CXXXII).
I contrasti interni, sensibilizzati dall'appoggio esterno, si fanno sempre più acuti: la divisione lacera finanche le famiglie e il fragore delle armi investe ogni angolo della città e diviene la nota dominante della vita cittadina.
Anche a Firenze matura ben presto l'intervento delle truppe imperiali: su sollecitazione degli Uberti, capi riconosciuti di Parte ghibellina, Federico II invia sulle rive dell'Arno il figlio naturale Federico principe di Antiochia, il quale entra in città il 30 gennaio 1249 con un buon nerbo di cavalieri tedeschi. I guelfi sono incapaci di resistere a tanta marea: così l'intervento di forze extra-cittadine si manifesta subito come l'elemento risolutivo della lotta, segno evidente che le forze contrapposte erano più o meno equilibrate, mentre la massa del popolo è sostanzialmente estranea ai due movimenti; e anche per questo verso si viene a confermare quanto già sappiamo sulla composizione essenzialmente nobiliare dei guelfi e ghibellini. Con l'intervento esterno la lotta di fazione cittadina s'inserisce nel vivo della politica internazionale e allora anche la guerra di Parte si fa totale, senza esclusione di colpi, divenendo pedina importante di un vasto gioco politico che interessa l'intera cristianità.
Il 2 febbraio 1249 i guelfi, dopo aver dato con mesta e fiera cerimonia la sepoltura a Rustico de' Marignolli, lasciano la città; è il primo esodo di massa e sarà da ora che, alternativamente, si comincerà a sentire sì come sa di sale / lo pane altrui (Pd XVII 58-59).
Abbandonata la città i guelfi si rifugiano a Capraia, a Montevarchi e in altre terre fortificate del contado fiorentino: si formano così nuclei armati consistenti (e nella formazione giocano diversi elementi, ma quello guida, basilare, dovette esser la consorteria), i quali, con tutta probabilità, già prima di abbandonare la città dovevano aver elaborato un piano di resistenza contro i ghibellini, dal momento che le dislocazioni sembrano essere state fatte in funzione di precisi interessi militari.
Ancora una volta gli elenchi dei fuorusciti e delle famiglie ghibelline rimaste in città suggeriscono qualche utile considerazione: i due opposti schieramenti ripetono, salvo rare e ben circoscritte differenze, quelli del 1216, il che conferma ulteriormente che i due partiti, i guelfi e i ghibellini, sono schieramenti che hanno un seguito quasi esclusivamente nell'ambiente superiore della città. Naturalmente sarebbe contrario al buon senso e alla realtà storica del tempo pensare a gruppi rigidamente omogenei, facilmente delimitabili dal punto di vista sociale. Posizioni di questo genere sarebbero, oltre che superate, assolutamente fuori posto: è quindi pacifico ammettere che elementi del popolo abbiano lasciato Firenze insieme con i guelfi, cosa, d'altronde, ammessa dagli stessi cronisti, come testimoniano in modo inequivocabile l'episodio del calzolaio presente tra i fuorusciti di Capraia (Villani VI 35) e l'affermazione secondo la quale elementi popolari lasciarono Firenze rifugiandosi nelle loro proprietà di campagna (" altri popolani di quella parte si ridussero per lo contado a' loro poderi e di loro amici ", Villani VI 33).
La stessa cosa, d'altronde, vale anche per il partito ghibellino, nel quale è addirittura individuabile la presenza di elementi ecclesiastici d'indubbia provenienza popolare (Santini, I Capitoli del Comune di Firenze, App. nn. 10, 11). Ma questo non infirma minimamente quanto si è già detto: la nota dominante dei due schieramenti politici è la presenza, naturalmente non esclusiva, ma certo predominante, di famiglie del ceto nobiliare, mentre le forze popolari né sono assenti quasi del tutto.
I due schieramenti erano di forze presso a poco uguali, mentre il popolo se ne stava in posizione di attesa e di equilibrata distanza fra i due gruppi: infatti solo con l'aiuto dei cavalieri di Federigo di Antiochia i ghibellini riusciranno a prevalere, ma ciò non ostante non saranno capaci di sloggiare i guelfi dai luoghi fortificati in cui si erano rifugiati (Montevarchi, Capraia e altri) per cui, per mantenersi al potere, son costretti a sostenere uno sforzo bellico e finanziario continuo che li logora. La pressione fiscale che ogni giorno si fa più pesante (" gravavano il popolo d'incomportabili gravezze, libbre e imposte " dice il Villani, VI 39), l'atteggiamento di alterigia assunto nei confronti delle forze popolari, alienano sempre più il popolo dal governo ghibellino: né la vittoria di Capraia del settembre 1249 rafforza all'interno la loro posizione perché le crudeltà di cui in quell'occasione furono oggetto molti guelfi suscita in città una reazione popolare di sdegno contro l'imperatore e il ghibellinismo che in lui s'incarnava. Così, pur vittoriose sul piano militare e apparentemente sempre più forti, le forze ghibelline vanno incontro a un lento ma progressivo logoramento; la morte improvvisa e repentina di Federico II (13 dicembre 1250) ne accentua il decadimento, ma non bisogna dimenticare che al momento della scomparsa dello Svevo il partito ghibellino era stato già estromesso dal popolo dal governo di Firenze; e questo conferma appieno quanto abbiamo detto poco sopra.
Si afferma così il governo del Primo Popolo, verso il quale le generazioni successive, quelle di D. e dei Villani, guarderanno continuamente con nostalgia, come a un'età difficilmente ripetibile. L'affermazione popolare mette in evidenza il fatto di capitale importanza nella storia interna dei comuni italiani: il popolo arriva al potere, e anche successivamente avverrà la stessa cosa, per virtù propria, per l'adesione della massa cittadina, mentre ghibellini e guelfi, cioè gruppi ristretti di forze e d'interessi, han bisogno dell'appoggio armato dell'esterno. Quindi governo di popolo vuol dire allargamento della base di potere e significa anche inserire nella vita del comune larghi strati sociali della città, che fino allora erano stati tenuti lontani dalla cosa pubblica.
La costituzione comunale, la terza in ordine di tempo, riflette con immediatezza la nuova situazione, essa pure riflesso e conseguenza di una crisi politica e del fermento della società cittadina.
Il governo ha ora alla base le forze popolari militarmente organizzate e si esprime attraverso organi nuovi, il più noto dei quali è il capitano del popolo, esso pure di nobili natali e destinato a far da contraltare al podestà.
Erreremmo moltissimo se facessimo un tutt'uno tra il popolo trionfante e i guelfi, anche se non dobbiamo dimenticare che sulle rive dell'Arno il primo, come ha già sottolineato il Sestan, per motivi ideali e per interessi di natura pratica, si andava pian piano colorando di guelfismo.
Della composizione sociale dei consigli e degli organi di governo del periodo del Primo Popolo non sappiamo quasi nulla perché i documenti del tempo sono pochi e quei pochi non soddisfano affatto la nostra curiosità, né le indicazioni date in proposito dal Salvemini (su 176 anziani ben 174 sarebbero stati del popolo) nella loro schematicità portano maggiori elementi di chiarimento. Che nelle assemblee e nei veri e propri istituti di governo ci sia stata una larga maggioranza delle forze popolari è fuor di dubbio: oltre alle affermazioni dei cronisti ci sono molti elementi che lo confermano, né, per esempio, è pensabile che i guelfi, una volta rientrati in città (gennaio del 1251) carichi di odio e desiderosi di rivalsa, avrebbero tollerato la presenza in Firenze dei ghibellini se appena appena avessero avuto una piccola influenza politica; perciò governo delle forze popolari e scarsissima influenza delle forze nobiliari, sia guelfe che ghibelline.
Pervenuto al potere, il popolo assume, almeno all'inizio, un atteggiamento di equilibrata distanza tra i due schieramenti politici cittadini, e questo fatto è avvenimento di primaria importanza perché frutto di maturità e di calcolo politico. Il popolo fiorentino, infatti, pur avendo tradizionali simpatie per il Papato (si pensi al suo atteggiamento chiaramente filopapale durante la lotta delle investiture) e di riflesso per le forze guelfe, all'inizio del suo governo assume una condotta di sostanziale neutralità tra i due partiti per perseguire fini politici propri. Il perché è evidente. Il governo del Primo Popolo è l'espressione delle forze economiche cittadine, le quali, per espandersi, han bisogno di condizioni interne favorevoli. In questo clima si spiegano tante cose: il desiderio della pace interna prima di tutto, la politica aggressiva ed espansionistica per la conquista e la tutela delle principali vie di comunicazione, la coniazione del fiorino d'oro (1252), avvenimenti tutti che illustrano molto bene la volontà politica dell'ambiente di governo cittadino.
Sintomatico e altamente indicativo è l'atteggiamento tenuto nei confronti dei ghibellini, dopo che questi avevano rifiutato di marciare ‛ armata manu ' contro la ghibellina Pistoia: questo atteggiamento, di chiara sfida alle forze al potere, suscita a Firenze una violenta reazione, e non ci vuole molta fantasia per pensare che i guelfi abbiano alimentato a più non posso la ventata antighibellina, per cui i ghibellini a furor di popolo sono cacciati dalla città (1251, luglio).
La reazione delle forze popolari all'atteggiamento anticittadino dei ghibellini era stata così istintiva, passionale quasi, che sembra dare senz'altro ragione al Sestan quando parla di diffuse venature guelfe nel popolo fiorentino. Ma il furore ben presto cede il posto alla ragione, cioè il calcolo politico trionfa sulla irrazionalità del gesto, e i ghibellini sono fatti rientrare in città, nonostante la certa opposizione delle forze guelfe.
In questo modo di procedere del popolo è da vedere solo l'amor di pace, di cui parlano i cronisti? C'è questo e altro, direi: c'è la sicurezza della propria forza militare, ci sono le condizioni politiche generali favorevoli e c'è, prevalente, il desiderio della pace e della tranquillità interne, condizioni queste essenziali per un'ulteriore espansione dell'economia cittadina.
Fino al 1258 l'azione politica del popolo mira a questo scopo e i due partiti politici son costretti a vivere fianco a fianco senza turbare la quiete cittadina: e non è certo un caso se proprio in questi anni la politica estera fiorentina assume toni particolarmente aggressivi, specialmente nei confronti delle città poste lungo le principali vie di comunicazione (Pisa, Pistoia, Siena). Le condizioni internazionali favoriscono l'azione politica del popolo e l'autonomia comunale, in conseguenza dell'assenza dell'Impero, ne viene a essere potentemente rafforzata: è il periodo a cui la cronistica guelfa successiva guarderà sempre come a un momento felice e difficilmente ripetibile della storia cittadina.
Ma col 1258 il panorama politico italiano cambia rapidamente: Manfredi s'impadronisce del regno dell'Italia meridionale e il contraccolpo è subito avvertibile nella vita dei comuni dell'Italia centro-settentrionale, dove il ghibellinismo rialza la testa assumendo pose chiaramente aggressive. Ma i ghibellini fiorentini si muovono con troppa precipitazione: vera o falsa che sia la notizia secondo la quale sarebbero stati i suggerimenti di Manfredi a farli muovere per " rompere il popolo " (Villani VI 65), è certo che le loro trame son subito scoperte e questa volta il governo si muove con rapidità e decisione inaudite: sono messi a morte gli esponenti del ghibellinismo cittadino (Schiattuzzo e Uberto degli Uberti, Mangia degli Infangati), mentre il grosso del partito è costretto a prendere di nuovo la via dell'esilio e a rifugiarsi a Siena. Come si vede, le condizioni internazionali hanno immediati contraccolpi nella vita dei comuni e nella condotta dei partiti: si deve aggiungere, anzi, che la lezione sarà imparata così bene che negli anni successivi l'affermazione di questo o quel gruppo sarà sempre legata all'intervento delle forze esterne, da cui i due partiti dipenderanno sempre più.
I fatti del 1258 hanno importanti conseguenze anche sul piano interno: il popolo, già venato di guelfismo, abbandona la politica di equidistanza fra i due gruppi e si avvicina sempre più ai guelfi, né è improbabile che la rottura clamorosa e drammatica col ghibellinismo cittadino almeno in parte sia da mettere in relazione coi nuovi rapporti delle forze popolari coi guelfi.
Abbandonata Firenze (1258, luglio), i ghibellini, tra cui non mancano elementi di sicura estrazione popolare, come quel conciatore Boccadipesce di cui parla il documento del 2 ottobre 1258 (Santini, I Capitoli, n. 84, p. 256), si recano a Siena e quivi iniziano a tessere la tela di ragno per provocare l'intervento di Manfredi: in questa occasione Farinata degli Uberti dimostra di possedere indubbie qualità politiche, mentre Montaperti e gli avvenimenti successivi metteranno in evidenza il condottiero e il cittadino amante della propria terra, anche al disopra della Parte.
Quali siano i precedenti del notissimo fatto d'armi di Montaperti non è questo il luogo più adatto per parlarne, anche perché sono avvenimenti molto conosciuti: l'entusiasmo e la sicurezza del numero diedero alle forze fiorentine un'eccessiva fiducia in loro stesse, avviandole a una battaglia senza una seria preparazione, come volevano gli esponenti dei guelfi; ma se l'Arbia venne a essere colorata in rosso (If X 86) dal sangue dei caduti, popolani e nobili, è segno evidente che le forze fiorentine si batterono con accanimento e sfortunato entusiasmo.
Montaperti consacra la sconfitta del popolo e dei guelfi fiorentini, ormai intimamente legati tra loro, e ha come immediata conseguenza la caduta del governo del Primo Popolo (1260, 12 settembre), oggetto di strabocchevole simpatia e di rimpianto da parte dei cronisti popolani successivi (" e allora fu rotto e annullato il popolo vecchio di Firenze, ch'era durato in tante vittorie e grande signoria e stato per dieci anni ", Villani VI 78).
Di nuovo e in misura maggiore si assiste allora al triste spettacolo dell'abbandono della città da parte dei perdenti, il cui vuoto vien colmato subito dall'arrivo dei vincitori: è un comune di Parte che se ne va, e un altro di colorazione diversa s'insedia nei singoli centri cittadini. L'esame dell'elenco delle famiglie fiorentine costrette a lasciare il bel San Giovanni (If XIX 17) nel settembre del 1260 ancora una volta mette in evidenza il fatto che particolarmente colpito era stato l'ambiente magnatizio dei guelfi, la cui sorte, però, è ora condivisa anche da un discreto numero di famiglie più in vista del governo popolare, elementi bifronti e che tanti punti (di parentela, d'interesse, d'ideologia) hanno in comune con le casate guelfe cittadine.
A Firenze il periodo 1260-1266 fu tempo di stretto dominio ghibellino, mentre i guelfi, e con essi non poche casate dell'ambiente popolare, furono costretti a sciamare per la Toscana e, dopo il 1263 (accordo dei ghibellini con Lucca), in diverse parti d'Italia e fuori, cosa che, in ultima analisi, ebbe il suo contributo nell'affermazione, specialmente presso la Curia, dei banchieri fiorentini. Montaperti, seguito dall'immediato rovesciamento dei governi dei comuni toscani, consacrò e consolidò la supremazia italiana di Manfredi, il che, ancora una volta, conferma i nessi strettissimi esistenti tra la vita interna delle città italiane del tempo e la grande politica internazionale.
Benevento, che segna il trionfo delle forze guelfo-papali con l'intervento nella lotta italiana della potenza francese, tronca il cordone ombelicale che nutriva il ghibellinismo italiano: così i ghibellini fiorentini si sentono mancare il terreno sotto i piedi (1266, 26 febbraio). Sulle rive dell'Arno si crea allora quella situazione confusa di cui parlano gli storici: i ghibellini tentano un appoggio popolare, si passa attraverso la prova dei due frati gaudenti (1266, luglio) e si esperimentano innaturali governi misti destinati, ora e nel futuro, a far cattiva prova; lo stesso popolo, arrivato al potere, cerca l'impossibile convivenza dei guelfi e dei ghibellini. L'instabilità degli ordinamenti giuridici riflette l'irrequietezza della società. Ancora una volta sono le forze esterne a tagliar netto il nodo gordiano: nell'aprile del 1267 una nutrita schiera di cavalieri angioini entra in Firenze coi guelfi fiorentini, che già avevano fatto parte dell'armata di Carlo: i ghibellini son di nuovo e definitivamente cacciati dalla città; nasce così il governo guelfo (1267-1280), la cui natura è indicata chiaramente dal magistrato di Parte guelfa, organo istituito proprio allora e che riflette benissimo in sé stesso i tempi nuovi.
L'Ottokar ha sfatato da tempo la leggenda di una costituzione fiorentina rigidamente classista: anche in questi anni, che sono i più significativi, il governo non è affatto chiuso agli elementi più in vista del popolo, i cui interessi sono sempre venuti presenti nella politica interna ed esterna del comune: si deve aggiungere, anzi, che tra la nobiltà guelfa vincitrice e questi elementi bifronti del popolo è in atto uno scambio continuo per cui non è raro il caso di veder comparire tra i capitani della Parte, giustamente considerata la roccaforte dei Grandi, cittadini popolari.
La situazione fiorentina, appoggiata alla potenza del papa e di Carlo d'Angiò, rimane statica fino al 1280, anno in cui Niccolò III, timoroso del predominio angioino e non del tutto insensibile al richiamo del ghibellinismo italiano, invia a Firenze il cardinale Latino, autore del noto omonimo lodo, in base al quale si volle introdurre una costituzione divisa a metà tra guelfi e ghibellini e nella quale i due partiti si neutralizzavano a vicenda: era una creazione artificiosa e meccanica e come tale destinata a breve vita.
Ma ormai le forze popolari cittadine sono mature a prendere integralmente il potere nelle loro mani: si arriva così al priorato delle arti, cioè al governo che poggia esclusivamente sull'organizzazione artigiana (1282), la cui base di governo si allarga ulteriormente, specialmente dopo l'emanazione degli Ordinamenti di Giustizia del 1293.
Alla fine del secolo XIII parlare di guelfi e ghibellini, specialmente a Firenze, non ha più significato: c'è, è vero, una ventata di ghibellinismo toscano culminata nella giornata di Campaldino (11 giugno 1289), ma ormai i due partiti hanno perduto il senso del loro vero significato e son da considerare, almeno sulle rive dell'Arno, due veri e propri relitti del passato.
D. fa riferimento a questi due partiti sempre in tono polemico, in quanto sia nell'uno che nell'altro vede una minaccia per la società, una strumentalizzazione dell'idea imperiale, nonché una degenerazione del Papato. Giustiniano, infatti, nel celebrare l'aquila imperiale condanna sia i guelfi che i ghibellini come nemici dell'Impero (si move contr'al sacrosanto segno / e chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone, Pd VI 32-33); accusa inoltre apertamente i guelfi di fare gl'interessi della casa di Francia, e i ghibellini di servirsi dell'insegna imperiale per mascherare le proprie trame di Parte, e auspica per entrambi la giusta punizione (Omai puoi giudicar di quei cotali / ch'io accusai di sopra e di lor falli, / che son cagion di tutti vostri mali. / L'ùno al pubblico segno i gigli gialli / oppone, e l'altro appropria quello a parte, / si ch'è forte a veder chi più si falli. / Faccian li Ghibollin, faccian lor arte / sott'altro segno, ché mal segue quello / sempre chi la giustizia e lui diparte; / e non l'abbatta esco Carlo novello / coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli / ch'a più alto leon trasser lo vello, vv. 97-108). S. Pietro inoltre, nel deprecare la corruzione del Papato, denuncia come questo abbia deviato dai suoi fini originari, facendo leva su forze politiche per un'affermazione temporale (Non fu nostra intenzion ch'a destra mano / d'i nostri successor parte sedesse, / parte da l'altra del popol cristiano; / né che le chiavi che mi fuor concesse, / divenisser signaculo in vessillo / che contra battezzati combattesse, XXVII 46-51). Le lotte fra le due fazioni in Firenze sono ricordate da Farinata in If X 46-51, e la sconfitta dei guelfi fiorentini a opera dei ghibellini lucchesi capitanati da Uguccione della Faggiuola è in Eg I 27 e in Pg XXIII 106-111.
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