Greci e Persiani: lo scontro
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel 490 a.C. una spedizione punitiva persiana conquista e distrugge Eretria, ma viene fermata dagli Ateniesi nella celebre battaglia di Maratona. Dieci anni dopo, il tentativo persiano di annettere l’intera Grecia all’impero fallisce dopo una serie di battaglie di terra (Termopili, Platea) e navali (Artemisio, Salamina, Micale). Le guerre persiane lasceranno in eredità un’epopea identitaria per i Greci e un’eccezionale sicurezza in se stessi negli Ateniesi, protagonisti dell’impresa; sanciranno però anche la definitiva rottura di un legame tra Oriente e Occidente, che nell’età arcaica aveva prodotto splendidi risultati.
La spedizione navale comandata dai generali persiani Dati e Artaferne che nella primavera del 490 a.C. attraversa l’Egeo, conquistando Nasso e sbarcando poi in Eubea, sotto le mura di Eretria, ha sicuramente un intento punitivo nei confronti di quanti avevano collaborato con i rivoltosi di Aristagora, ma è inevitabile considerarla anche un primo tentativo da parte dei Persiani di estendere la loro influenza a Occidente. La resistenza di Eretria si esaurisce in una settimana circa, al termine della quale un traditore – ce ne sono sempre nelle poleis greche – apre le porte della città, esponendo i suoi concittadini a un terribile destino: molti anni dopo si potranno trovare ancora gli Eretriesi a lavorare come schiavi non lontano dalla capitale persiana Susa.
È ora il momento di punire Atene. I Persiani hanno una guida di eccezione – anche se ormai molto avanti negli anni – in Ippia, il figlio di Pisistrato, che non ha ancora deposto le speranze di un trionfale ritorno in patria. Per lo sbarco, superando uno strettissimo braccio di mare, viene scelta Maratona, in una zona dell’Attica settentrionale defilata, pianeggiante, a circa 40 chilometri dalla capitale.
Ad Atene, nel frattempo, si vivono momenti di eccezionale tensione. Difficile evitare la retorica: una comunità si trova – tutta insieme – a dover prendere una decisione da cui dipenderà la vita stessa dei propri familiari, dei propri figli. Noi possiamo stupirci del fatto che le dimensioni dell’esercito di Dati e Artaferne non fossero così enormi come molte fonti riportano (una cifra intorno a 20 mila uomini è la più plausibile, pur sempre il doppio dell’esercito ateniese): ma possiamo anche immaginarci quante voci circolassero nelle vie della città, fra persone terrorizzate, che certo sapevano della sorte di Eretria, che certo pensavano all’impero persiano come a qualcosa di ignoto, sì, ma anche di incommensurabile per grandezza e ricchezza. Dopo tutto i Persiani vengono (più o meno) dagli stessi paesi nei quali sono nate le leggende di Mida e di Creso; i Persiani sono quel popolo che abita a oltre tre mesi di marcia, tanto lontano da indurre il re Cleomene di Sparta a licenziare Aristagora in cerca d’aiuto, quando appunto questi gli ha confessato non tanto la lontananza, quanto il fatto che per tutti quei tre mesi si sarebbero attraversate terre di proprietà del Gran Re!
In una tale situazione, le bussole cui fare riferimento sono davvero poche. Una è certamente Milziade, il nobile esponente della famiglia dei Filaidi, forse pari per lignaggio agli Alcmeonidi, che da poco ha abbandonato i suoi possedimenti nel Chersoneso tracico per tornare in patria. Lui i Persiani li conosce, e non pare particolarmente impressionato dalla loro forza militare.
Viene rapidamente presa la decisione di uscire con l’esercito per andare incontro al nemico, senza affrontare la prova terribile dell’assedio. La tradizione dipinge il contingente ateniese come un esercito oplitico “perfetto”, composto da poco meno di 10 mila uomini. Il punto dolente sono gli alleati: alla fine, si presenteranno solo i fedelissimi Plateesi, con 1000 uomini. Gli Spartani promettono sì di collaborare con 2000 opliti, ma questi vengono trattenuti da obblighi religiosi (la celebrazione delle feste Carneie), che solo una profonda incomprensione culturale definirebbe superstizioni, o ancor peggio pretesti: “giunti troppo tardi per la battaglia, avevano comunque gran voglia di vedere i Medi; andati a Maratona, li contemplarono. Quindi, lodando gli Ateniesi e la loro impresa, se ne tornarono indietro”, racconta sobriamente Erodoto. Giunti anche gli Ateniesi a Maratona, i due eserciti si fronteggiano per alcuni giorni: i Persiani infatti non si decidono ad attaccare (forse aspettano che si palesino gli elementi filopersiani che sanno presenti all’interno della comunità ateniese), gli Ateniesi forse aspettano gli Spartani, forse i loro comandanti hanno opinioni differenti – a capo dell’esercito c’è il polemarco Callimaco, ma il comando effettivo spetta, a rotazione, un giorno per uno, ai 10 strateghi della giovane democrazia: non propriamente un sistema efficiente dal punto di vista militare. Alla fine, la decisione viene lasciata a Milziade, che finalmente stabilisce di lanciare l’attacco. Il successo, incerto al centro dello schieramento, è totale sulle ali: 6400 Persiani trovano la morte, di contro a soli 192 Ateniesi, che verranno sepolti in un tumulo sul luogo stesso della battaglia. I Persiani compiono un tentativo di imbarcarsi rapidamente sulle navi per raggiungere Atene via mare circumnavigando l’Attica, ma Milziade conduce indietro l’esercito a marce forzate e la flotta nemica decide allora di allontanarsi definitivamente.
Maratona è uno dei grandi luoghi della mente dell’Occidente. John Stuart Mill sosteneva fosse più importante per la storia dell’Inghilterra della battaglia di Hastings (1066). Il mito dei maratonomachi (coloro che hanno combattuto a Maratona) si diffonde presto ad Atene stessa e nel mondo greco, immagine di un mondo ideale, di una comunità coesa, di un equilibrio esistenziale che non sarebbe più stato raggiunto.
Non è proprio così: tra l’altro, c’è chi racconta che i Persiani siano stati indotti all’ultimo tentativo di raggiungere Atene dopo la sconfitta da un segnale proveniente dalla città, un segnale che, qualcuno vocifera, è opera proprio degli Alcmeonidi. Ma i miti positivi sono più belli, e le malelingue sono destinate a essere zittite, perlomeno finché le cose vanno bene.
Tra la spedizione di Dati e Artaferne e la successiva invasione della Grecia passa quasi un decennio. La proverbiale lentezza persiana nel mettere in movimento le risorse dell’impero, i problemi dinastici seguiti alla morte di Dario e l’ascesa al trono di Serse (486 a.C.) e infine una rivolta in Egitto spiegano questo intervallo.
Nel frattempo, ad Atene, un nuovo protagonista della vita politica, Temistocle, convince i concittadini a convogliare le cospicue risorse che la scoperta di nuovi filoni argentiferi nelle miniere del Laurio aveva messo a disposizione della città verso la costruzione di 100 navi da guerra. I preparativi per la spedizione persiana in Grecia, da effettuarsi con l’azione congiunta di esercito e flotta, attraverso una lunga marcia che dall’Ellesponto è destinata a raggiungere il nord della Grecia, iniziano nella primavera del 481 a.C. Le cifre di Erodoto, che parlano di una flotta di 1207 navi che accompagna oltre 2 milioni e mezzo di uomini, destinati a raddoppiare tenendo conto del personale al seguito, fanno ovviamente sorridere. Ma certo si tratta di un corpo di spedizione di tutto rispetto: le cifre più attendibili (comunque ipotetiche) parlano di un massimo di 100 mila uomini nell’esercito e di una flotta di svariate centinaia di navi.
Inutile dire come i problemi di logistica relativi allo spostamento di una tale massa di uomini, per mesi e mesi, siano incredibili. Superfluo anche sottolineare lo sconcerto, il terrore che avrà invaso le comunità greche in quell’estate del 481 a.C., durante la quale la notizia si sarà diffusa (anche a supporre l’immediata diffusione della notizia dei preparativi, l’informazione non poteva raggiungere la Grecia prima di tre mesi, a dir poco). Un’estate di riunioni, di assemblee è seguita dall’arrivo, nei primi giorni di autunno, degli inviati ufficiali del Gran Re, che ad ogni comunità chiedono “terra e acqua”, cioè niente di meno della completa sottomissione. Molte comunità decidono di piegarsi, soprattutto quelle della Grecia settentrionale e centrale, che sarebbero state le prime a essere investite dagli invasori.
Anche l’oracolo di Delfi non si distingue certo per coraggio: lo troviamo infatti in prima fila tra i “collaborazionisti”. A cose fatte, verrà perdonato, nelle pieghe di numerosi distinguo che caratterizzano sempre le vendette del dopoguerra.
L’iniziativa di quanti non intendono arrendersi viene organizzata da Sparta; la collaborazione con gli Ateniesi è immediata, nonostante inevitabili tensioni, che riguardano il comando della flotta (che Atene richiede inutilmente) e, soprattutto, la strategia da adottare. Qui è la geografia a giocare un ruolo importante.
Mentre gli Spartani e, in genere, i Peloponnesiaci preferiscono organizzare la difesa sull’istmo di Corinto, per comprensibili ragioni gli Ateniesi cercano di convincere gli alleati a fermare i Persiani più a nord. Viene scelta alla fine una linea di resistenza sul passo delle Termopili, tradizionale via d’accesso alla Grecia centrale, con il parallelo dispiegarsi della flotta a Capo Artemisio, all’estremità nord dell’Eubea. La Lega ellenica (in realtà, gli alleati preferivano definirsi semplicemente e significativamente hoi Hellenes, i Greci), oltre a Sparta e Atene, comprende gran parte delle poleis del Peloponneso (ma non Argo, che si mantiene prudentemente neutrale: una scelta per la quale vale la pena di riportare il tagliente quanto ineccepibile giudizio erodoteo: “se è lecito parlare liberamente, rimanendo neutrali finivano per sostenere i Persiani”), Corinto, Egina, Megara, l’Eubea, Platea e pochissime tra isole e comunità della Grecia centro-settentrionale.
La più importante tra le poleis “medizzanti” (questo è il verbo che veniva usato per indicare i collaborazionisti) è sicuramente Tebe, una circostanza che peserà per tutta la sua storia successiva.
Intorno alla metà di settembre del 480 a.C. si svolgono le prime due battaglie. A Capo Artemisio lo scontro tra le due flotte, preceduto dal tentativo di Temistocle di far defezionare le navi fornite dalle poleis d’Asia Minore per mezzo di messaggi incisi sulle rocce in prossimità delle sorgenti d’acqua (un espediente che dimostrerebbe un buon grado di alfabetizzazione delle ciurme), si conclude con un nulla di fatto.
I Persiani perdono forse più navi, ma riescono comunque a forzare il blocco. Alle Termopili, negli stessi giorni, il contingente alleato (modestissimo: poche migliaia di uomini in tutto, segno che probabilmente gli alleati, nonostante l’apparente adesione alla strategia ateniese, non hanno molta voglia di impegnarsi così a nord) viene spazzato via dopo un’eroica resistenza incentrata sui 300 spartiati comandati dal re Leonida. Mai sconfitta sarà più esaltata: la leggenda sulla resistenza dei 300 e sull’esempio di disciplina che essi sono stati in grado di fornire (“Straniero, riferisci agli Spartani che qui noi giacciamo, in obbedienza ai loro ordini”, recitava l’epigramma inciso sul luogo della battaglia in onore dei caduti) restano profondamente impressi sui contemporanei e sui posteri, e lasciano in ombra la più banale verità, che i Persiani non hanno ormai più ostacoli nella loro marcia verso sud.
Gli Ateniesi prendono la drammatica decisione di evacuare la città, rifugiandosi in parte nell’isoletta di Salamina, in parte a Trezene, nel Peloponneso. I Persiani, intorno al 27 settembre, penetrano nella città abbandonata e danno alle fiamme i templi dell’Acropoli, difesi solo da uno sparuto drappello di uomini.
L’atto non è, a detta dei Persiani, empio, ma una calcolata vendetta per l’incendio di Sardi avvenuto 18 anni prima. Pochissimi giorni dopo (forse il 29 settembre), nelle acque del Golfo Saronico, l’enorme flotta persiana, lì giunta dopo l’Artemisio, viene attirata in una trappola congegnata da Temistocle, comandante del contingente ateniese, di gran lunga il più numeroso. Il comando ufficiale è riservato allo spartano Euribiade, che, un po’ per convinzione, un po’ grazie agli stratagemmi messi in atto dallo stesso Temistocle, finisce per seguirne le decisioni. La flotta persiana – enorme, e certo non tutta al livello del contingente fenicio, che ne costituisce la punta di diamante – ha grandi difficoltà a manovrare nei ristrettissimi spazi in cui si è andata a cacciare. Allo sguardo attonito dello stesso Serse, che assiste alla battaglia assiso su di un trono preparato sulle coste dell’Attica, si presenta lo spettacolo delle sue navi che hanno la peggio e vengono affondate dai Greci. Lo svolgimento della battaglia non è in realtà chiaro, nonostante gli splendidi versi de I Persiani che Eschilo, uno dei combattenti, vi dedica otto anni dopo; chiarissimo è il risultato e il fastidio di Serse, che preferisce allontanarsi rapidamente per tornare nel cuore dell’impero, da cui manca ormai da troppo tempo.
Nell’antichità, di solito, le guerre si combattono solo nella buona stagione: a ottobre si sospendono le ostilità. I Persiani hanno perso una battaglia, ma il loro grande esercito è intatto e sverna nella Grecia centrale. La Lega ellenica ha vinto, ma nulla è deciso; gli Ateniesi, in particolare, si prendono molti dei meriti della vittoria di Salamina, ma non devono essere felici di rientrare nella loro città semidistrutta.
Nella primavera del 479 a.C., si ricomincia daccapo. Gli Ateniesi evacuano di nuovo la città, i Persiani scendono a sud e la occupano. Gli Spartani, come al solito, sono restii a impegnarsi al di fuori del Peloponneso; alla fine, però si decidono, e un grosso contingente di ben 5000 spartiati, il più grande mai schierato dalla polis laconica in una singola battaglia, si mette in marcia verso nord. Ancora una volta nel mese di settembre, dopo lunghe attese che non fanno che mettere a durissima prova una situazione logistica ormai allo stremo per entrambi gli schieramenti, i due eserciti si incontrano nella pianura beotica, poche decine di chilometri a nord dell’istmo di Corinto, a poca distanza da Platea. L’esercito greco è composto da contingenti di 25 poleis: Sparta – guidata dal reggente Pausania, che era anche comandante in capo di tutto l’esercito greco – e Atene – i cui uomini sono guidati da Aristide) – fanno la parte del leone. Nel complesso, si può ipotizzare un totale di circa 50-60 mila uomini. Non molto diverse le cifre per quanto riguarda l’esercito persiano, guidato dal genero di Serse, Mardonio: forse 50 mila asiatici, cui si affiancano 10 mila o qualcuno in più tra i “medizzanti”.
Lo scontro non ha storia, gli alleati greci hanno la meglio con apparente facilità e la battaglia si risolve in una carneficina. Con un geniale stacco dalla retorica imperante già ai suoi tempi, Erodoto fa notare che “i Persiani non erano certo inferiori per coraggio e per forza, ma, oltre a essere privi di armatura oplitica, erano inesperti e impari ai nemici nell’arte militare […]. Li danneggiava soprattutto il loro equipaggiamento, privo come era di armi pesanti: armati alla leggera, sostenevano la lotta contro opliti”: in pratica, fa notare l’enorme superiorità dell’equipaggiamento dei soldati greci, che rendeva la lotta impari.
La guerra, per il momento, è finita. Il successo che la flotta alleata riporta, sempre nella tarda estate del 479 a.C., sulla flotta persiana a Capo Micale – a guidare il contingente ateniese troviamo Santippo, il padre di Pericle – non fa che suggellare il trionfo ellenico.
Le guerre persiane sono un’epopea affascinante. Al di là dei film-fumetto dei giorni nostri, nessuno può rimanere insensibile all’eterno tema di Davide contro Golia e all’eccezionale coraggio con il quale gli Ateniesi e tutti gli altri hanno saputo dire di no ad accomodamenti che avrebbero evitato drammi terribili, nel caso più che probabile di una sconfitta. E i tentativi di ridimensionare la forza militare persiana non vogliono dire poi molto: quando si tratta di votare in un’assemblea, quello che conta non è un’analisi spregiudicata e una riflessione sugli armamenti reciproci – nessuno, peraltro, ha le idee chiare in proposito – ma il terrore che l’ignoto e le enormi dimensioni dell’impero suscitano.
A tutto questo va però contrapposta la malinconica e lungimirante visione di Erodoto, che non a caso è stato tacciato di essere “amico dei barbari”. Come era più bello prima, quando Oriente e Occidente potevano anche combattersi, ma erano uniti da tante esperienze comuni! Dopo le guerre persiane “era calata una cortina di ferro: l’Oriente contro l’Occidente, il dispotismo contro la libertà; le dicotomie istituite dopo le guerre persiane echeggiano attraverso la storia mondiale e sembrano destinate a perpetuarsi sempre più, a mano a mano che l’uomo resuscita vecchi modi, e ne scopre di nuovi, per tormentare la sua anima” (O. Murray).