Graecia capta: collezionismo e saccheggio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’espansionismo imperialistico di Roma ha come conseguenza il drenaggio di innumerevoli opere d’arte dalla Grecia e dall’Oriente ellenistico verso la nuova capitale del mondo. I conservatori, come Catone, considerano l’arte greca un germe malefico che distruggerà i valori della cultura romana; altri aristocratici se ne mostrano fini intenditori, come gli Scipioni; altri ancora ne diventano collezionisti fanatici, tanto da non arretrare neanche davanti al crimine, come il famigerato Verre. Ma molti, e fra questi un grande intellettuale come Cicerone, praticheranno una doppia morale: stima privata, pubblico disprezzo.
La presa di Siracusa ad opera del console Marcello, nel 212 a.C. è assai di più che una conquista militare. Il saccheggio della più grande e più splendida città dei Greci d’occidente costituisce un tornante epocale nella storia culturale di Roma. Il generale vittorioso – racconta Plutarco (Vita di Marcello, 21) – prende infatti con sé “la maggior parte e le più belle opere d’arte che si trovavano a Siracusa come offerte votive per esibirle nel proprio trionfo e per abbellire l’Urbe. Prima di allora Roma non possedeva né conosceva nessuno di quegli oggetti lussuosi e raffinati, né si compiaceva di grazia e di eleganza, ma era piena di armi barbariche e di spoglie insanguinate e coronata di monumenti trionfali e di trofei, e non era uno spettacolo lieto e rassicurante, adatto a visitatori timidi e delicati [...]. Perciò Marcello acquistò più fama presso il popolo, avendo arricchito la città di uno spettacolo di piacevolezza, di grazia ellenica e di svariati fonti di attrattiva; ma fra i più anziani era maggiormente apprezzato Fabio Massimo. Infatti egli non rimosse né portò via nulla di simile da Taranto, dopo la presa di questa città: prese tutte le ricchezze e il denaro ma lasciò al loro posto le statue, dicendo – stando a quanto si tramanda – ‘lasciamo ai Tarantini questi loro dèi adirati’. Si rimproverava infatti a Marcello in primo luogo di aver esposto Roma all’invidia non solo degli uomini ma anche degli dèi, che vi aveva condotto, per così dire, come prigionieri da far sfilare nel suo trionfo; e secondariamente di aver reso un popolo abituato a combattere e a coltivare la terra, ignaro di mollezze frivolezze e come l’Eracle di Euripide ‘schietto, rude, ma buono per grandi imprese’, amante dell’ozio e delle chiacchere; di averlo portato a disquisire di arte e di artisti, passando in ciò buona parte della giornata. Tuttavia Marcello di tutto questo si gloriava anche davanti ai Greci, dicendo che aveva insegnato ai Romani ciò che prima ignoravano, cioè ad apprezzare e ad ammirare le bellezze e le meraviglie della Grecia”.
Da questo momento è tutto un crescendo. L’afflusso a Roma di opere d’arte greche si fa incessante. Statue in marmo e in bronzo, vasi cesellati di grande raffinatezza arrivano dopo la vittoria di Tito Quinzio Flaminino su Filippo di Macedonia nel 194 a.C. Altri tesori arrivano dopo la vittoria di Lucio Scipione Asiatico (il fratello dell’Africano) su Antioco III di Siria nel 188 a.C., tra cui ben 134 statue di divinità, che vanno a rimpiazzare i simulacri di legno e terracotta che ancora si trovano nei templi di Roma. Due anni dopo, in occasione del ritorno trionfale di Gneo Manlio Vulsone dalla campagna d’Asia, i Romani vedono tavole e mense preziose, triclini riccamente decorati, vesti sontuose. Nuovi tesori, tra cui 285 statue di bronzo e 230 di marmo, arrivano da Ambracia nel 187 a.C., al seguito di Marco Fulvio Nobiliore, vincitore degli Etoli. Il trionfo di Lucio Emilio Paolo su Perseo di Macedonia, nel 168 a.C. dura tre giorni, e la prima giornata basta appena a esporre le statue, i dipinti e i colossi presi al nemico, trasportati su 250 carri.
Altri originali greci sono acquisiti da Quinto Cecilio Metello nella sua campagna vittoriosa contro la Macedonia del 146 a.C., tra cui il celebre gruppo di Alessandro e i suoi compagni alla battaglia del Granico, opera di Lisippo. Statue e altri manufatti artistici arrivano anche dalla vinta Cartagine nel 146 a.C., ma ben più prezioso è il bottino razziato lo stesso anno a Corinto da Lucio Mummio: oltre ad innumerevoli statue e pitture affluiscono a Roma i famosi vasi corinzi, in bronzo di una speciale lega, di cui i Romani diventano ben presto accaniti estimatori. Molti altri episodi bellici nella storia di Roma repubblicana hanno come conseguenza la “deportazione” nell’Urbe di capolavori dell’arte greca, come la presa di Atene da parte di Silla nell’81 a.C., la vittoria di Pompeo su Mitridate nel 61 a.C. e quella di Ottaviano su Cleopatra e l’Egitto nel 29 a.C. Ma ciò che avviene tra la fine del III e la metà del II secolo a.C., in poco più di sessant’anni, è particolarmente significativo.
La Magna Grecia, la Sicilia, l’Epiro, la Macedonia, la Siria, in breve quasi tutta la Grecia e l’Asia ellenizzata vedono migrare i loro tesori artistici alla volta di Roma e la conseguenza inevitabile di tutto ciò è una rivoluzione nella cultura e nella società romana, riassunta dal poeta Orazio in un verso celeberrimo (Epistole, II, 1, 156): Graecia capta ferum victorem cepit, “la Grecia vinta vinse a sua volta il feroce vincitore”. Ma Orazio scrive quando i giochi sono ormai fatti, e non senza compiacimento. Invece all’inizio di questo processo di acculturazione, quando il fascino del bello e le lusinghe del lusso cominciano a far presa sui Romani, ma la partita è ancora aperta, i conservatori reagiscono preoccupati, denunciando a gran voce l’arte greca come un temibile agente di corruzione dei valori fondanti dei mores romani. Il censore Marco Porcio Catone è in prima linea, e un discorso che lo storico Tito Livio (XXXIV, 4) gli mette in bocca sintetizza lucidamente il suo pensiero: “quanto più le sorti della repubblica si fanno prospere di giorno in giorno e quanto più i nostri dominî si ampliano (già siamo passati in Grecia e in Asia, colme di tutte le lusinghe e di tutti i piaceri viziosi, e abbiamo steso la mano sui tesori dei re) tanto più io inorridisco, temendo che quelle ricchezze abbiano conquistato noi piuttosto che essere state conquistate da noi. Pericolose, credetemi, sono le statue che sono state portate da Siracusa. Ormai odo troppi lodare e ammirare le opere d’arte di Corinto e di Atene e deridere le immagini fittili degli dèi di Roma. Io invece preferisco che questi dèi ci siano propizi, e spero che lo saranno se faremo in modo che rimangano nelle loro sedi”.
Ma al partito catoniano si contrappongono in numero sempre crescente gli estimatori dell’arte greca, capeggiati dalla famiglia degli Scipioni, e sono questi in ultimo ad averla vinta sui tradizionalisti. Si vengono così a creare in Roma delle vere collezioni d’arte, tanto pubbliche che private.
Oltre alle spoliazioni operate secondo il diritto di guerra, ci sono quelle perpetrate illegalmente da magistrati di poco scrupolo, che nelle province loro affidate saccheggiano sfrontatamente opere d’arte di loro gusto. Il caso più scandaloso è quello di Verre, che inizia a rubare in Asia, depredando statue da Alicarnasso, Samo, Aspendo, Perge, e poi continua in Sicilia, negli negli anni in cui vi risiede come propretore (73-70 a.C.). Porta via tutta la collezione di un ricco signore di Thermae (Termini Imerese) e di un altro di Messina, procurandosi così opere di Prassitele, Mirone, Policleto. Lo stesso fa con altri malcapitati di Lilibeo, Centuripe, Catania. Neanche le opere esposte in edifici pubblici sono al sicuro.
Da Segesta porta via una statua bronzea di Diana, da Tindari una di Mercurio, da Agrigento una di Apollo, da Engyon (forse Troina) gli ex-voto del santuario della Magna Mater, dal pritaneo di Siracusa la Saffo di Silanione, e così via, in un parossismo di spudorata cupidigia che non si arresta davanti a niente, e di cui Cicerone fa un resoconto dettagliato nell’arringa che scrive per conto dei Siciliani che trascinano Verre in giudizio. Tutte queste opere depredate vanno a ornare il palazzo e i giardini di Verre a Roma (e qualcuna anche la casa di Ortensio, il suo avvocato difensore), ma per poco tempo. Geloso di tanta collezione, il triumviro Antonio lo fa proscrivere per poterla incamerare. L’uso di proscrivere gli avversari politici per appropriarsi dei loro beni è inaugurato, pare, da Silla (il quale ruba tra l’altro per sé una statua di Apollo in oro nel santuario di Delfi) e praticato ampiamente dai suoi accoliti. Descrivendo la casa di uno di questi, il famigerato liberto Crisogono, Cicerone (Pro Sexto Roscio Amerino, XLVI, 133) dice: “E avete un’idea di tutto quello che ha presso di sé di argenteria cesellata, di tappezzerie, di quadri, di statue, di marmi ? C’è tutto quello che è stato possibile ammassare in una sola casa da molte ricche famiglie nei momenti di disordini e di rapine”.
Non tutte le collezioni sono naturalmente frutto di crimini. Più spesso sono il risultato di un buon gusto sostenuto da mezzi adeguati. È il caso delle collezioni che impreziosiscono i giardini Serviliani, Liciniani, Luculliani, Asiniani e ne fanno dei veri e propri musei. I Romani facoltosi sono disposti a spendere cifre cospicue per soddisfare la loro passione per l’arte. Ortensio compra un quadro del pittore greco Cydias (non meglio noto) per 144 mila sesterzi. Cesare sborsa 80 talenti per un quadro di Timomaco raffigurante Medea e Lucullo 500 talenti per un Apollo dello scultore Calamide. Lo stesso Lucullo paga un milione di sesterzi una statua di Arcesilao, rimasta incompiuta per la morte dell’artista. Come dice Cicerone, “in questo campo è il desiderio che fa il prezzo. È difficile fissare un limite al prezzo se non lo si fissa alla passione”. Non mancano peraltro i falsi, smerciati da mercanti truffaldini, come quel Damasippo messo in caricatura da Orazio (Satire, II, 3, 16 ss.).
Questa passione, che in certi casi sconfina nell’infatuazione, dei Romani per l’arte greca, non riesce tuttavia a cancellare del tutto l’antico pregiudizio moralistico secondo cui altri dovevano restare gli interessi preminenti della classe dirigente. Virgilio, nel poema nazionale ispirato dall’ideologia restauratrice augustea, lo dice con grande chiarezza (Eneide, VI, 847 ss.): “Altri potranno” – lo concedo – “più delicatamente plasmare animate statue di bronzo e trarre dal marmo volti che sembrano vivi [...], ma tu, o Romano, ricordati che devi governare i popoli. Queste saranno le tue arti: imporre norme di pace, perdonare a chi si sottomette e debellare i superbi”. Perciò permane negli intellettuali romani una “cattiva coscienza” di fondo che accompagna il possesso e perfino la semplice conoscenza delle opere d’arte.
Tutti gli scrittori romani che parlano di arte affettano pertanto un certo distacco dalla materia, dissimulano la propria competenza. È un tratto che si trova perfino in Cicerone, uno dei Romani che meglio conoscono la cultura greca in tutte le sue manifestazioni. Cicerone da giovane ha viaggiato in Grecia e in Asia, ha risieduto ad Atene e a Rodi, ed ha perciò una conoscenza di prima mano di monumenti e opere d’arte. Ha certamente anche ampie conoscenze sulla teoria dell’arte e l’estetica greche. Quando però denuncia le ruberie di Verre, sa che parla ad un pubblico che almeno ufficialmente considera l’arte un’attività inferiore, non confacente a uomini liberi e in contrasto con la sobrietà e il senso pratico tipicamente romani. Perciò, da abile avvocato, evita accuratamente di mostrarsi un intenditore d’arte, limitandosi a far risaltare il valore materiale delle opere rubate e l’abuso di autorità da parte del magistrato. Quando esalta una statua in bronzo rubata ad Imera, dice che era tanto bella che – si affretta ad aggiungere – poteva essere apprezzata “anche da me che sono così ignorante in queste cose”. E al momento di dover citare l’autore di due statue di Canefore, dice: “ma il loro autore... chi era dunque? Ecco, giustamente mi suggerisci: dicevano che fosse Policleto”. Tenere la questione in sospeso, e fingere di doversi far suggerire dall’assistente il nome di uno dei più grandi artisti greci è un espediente che serve a sminuire le proprie competenze. Anche la stima delle opere d’arte è fatta – ci tiene a dire – “da coloro che si appassionano a queste cose”, mentre “personalmente non ne faccio un gran conto”. Poi, per spiegare l’importanza che i Siciliani annettevano alle opere rubate da Verre, si sente in dovere di chiosare: “I Greci hanno una passione straordinaria per delle cose che noi invece disprezziamo”. Questo dunque l’avvocato e il politico. Ma in privato la musica cambia, e nelle lettere che scrive ad Attico, che vive ad Atene, lo stesso Cicerone non smette di assillare l’amico perché gli compri delle opere d’arte adatte a decorare la villa di Tuscolo. Paga migliaia di sesterzi per delle statue di marmo e di bronzo, ma ne vuole ancora altre, e non bada al prezzo: “abbi fiducia – dice – nella mia cassaforte!”. Un esempio perfetto della doppia morale dei Romani in fatto d’arte.