Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del XVI secolo gli Europei presenti in Oriente sono principalmente i Portoghesi. Navigatori, commercianti e missionari sono spinti da interessi economici e progetti di evangelizzazione. Gli interessi economici sono destinati a tramontare e a venire gestiti da nuove potenze, mentre l’evangelizzazione si svilupperà nel tempo in realtà e situazioni differenti.
I primi Europei a raggiungere l’Oriente in età moderna sono i Portoghesi alla fine del XV secolo, in conseguenza del trattato di Tordesillas del 7 giugno 1494. Con questo accordo, infatti, la Spagna rinuncia, in favore del Portogallo, a tutti i territori situati a est del 47° meridiano. Così facendo la potenza iberica, attratta dagli ori americani, sceglie l’Atlantico, ma perde l’Oriente.
La storia dell’espansione a est di un piccolo Stato europeo come il Portogallo è breve ma intensa: nel volgere di un secolo vive ascesa, culmine e declino. Alla base dell’esplorazione e della conseguente spinta colonizzatrice lusitana sono il commercio e l’evangelizzazione; da una parte si spera infatti che l’Oriente possa essere ricco di quelle spezie – necessarie per la conservazione alimentare e l’insaporimento dei cibi – il cui prezzo sui mercati europei, dopo la conquista turca di Costantinopoli del 1453, è cresciuto del 60 percento, d’altra parte, si vagheggia da sempre l’esistenza – alle spalle degli islamici – di popolazioni cristiane con cui stringere alleanza religiosa, politica e militare.
Le direzioni geografiche prese dal colonialismo portoghese durante il XVI secolo sono due: la principale è verso l’India, l’altra verso la Cina. Nel 1497 Vasco de Gama, navigatore al servizio del sovrano portoghese Manoel I doppia il Capo di Buona Speranza e, dopo aver attraversato l’oceano, giunge nel maggio del 1498 alla città indiana di Calicut. Per conflitti intercorsi con i locali non riesce a portare il carico di spezie sperato; al ritorno è comunque accolto trionfalmente dalla corte regia, non solo per i campioni di merce che è riuscito a prelevare o per quel drappello di indiani che lo seguono, ma, soprattutto, per le speranze di future ricchezze che il suo solo ritorno è in grado di suscitare. Nel 1500 il re di Portogallo Manoel I il Grande, dopo aver informato del viaggio il papa, è insignito del titolo di “Signore delle conquiste, navigazioni e commerci dell’Etiopia, dell’Arabia, della Persia e dell’India”.
L’anno seguente sono inviate due nuove flotte comandate rispettivamente da Pedro Alvarez Cabral che scopre il Brasile, e da Vasco de Gama. Lo scontro di Vasco de Gama con gli abitanti di Calicut e il conseguente bombardamento della città mostra immediatamente ai Portoghesi la difficoltà di conquistare, prima, e governare, poi, terre tanto lontane. Si impone quindi al sovrano e ai suoi consiglieri la necessità di scegliere tra la conquista militare dei territori interni o il dominio del mare e delle rotte. Il consiglio reale, in base ai fatti di Calicut e dopo una realistica analisi delle forze del Paese, decide di rinunciare alla conquista territoriale e di costruire basi navali fortificate lungo la rotta e direttamente in India. Stabilisce, inoltre, di nominare un viceré con poteri militari, politici e commerciali e di istituire un monopolio della corona sul commercio delle spezie.
Alla carica di viceré del nuovo Stato delle Indie orientali sono nominati in successione Francisco de Almeida fino al 1509 e Alfonso de Albuquerque. Durante questi anni, grazie agli accordi con i diversi potentati locali, nascono le prime basi navali, fra cui si ricordano quelle di Kilwa (oggi in Tanzania), Mombasa (Kenya), Angediva (India), Cananore e Cochin (India). Nel 1510 è conquistata la città di Goa, che diviene la capitale della colonia portoghese.
Il sistema monopolistico portoghese è misto: viene gestito dalla corona, ma una parte è affidata ai privati sotto licenza regia. I commercianti hanno l’obbligo di imbarcare le merci su navi portoghesi e di sbarcarle a Lisbona per il pagamento dei dazi; da Lisbona, poi, le spezie confluiscono ad Anversa dove sono comprate dai commercianti di ogni Paese.
A partire però dal 1549 la capitale portoghese diviene, senza più la mediazione della città di Anversa, il centro del mercato internazionale delle spezie, che vengono vendute a un prezzo cinque volte inferiore di quello pagato a Venezia. Ad accrescere il dominio portoghese in Oriente contribuisce la stessa Spagna quando, nel 1529, Carlo V – bisognoso di risorse da impiegare nel conflitto con Francesco I di Valois – vende le Molucche, dette “isole delle spezie”, al Portogallo.
Se la penetrazione portoghese nell’area indiana è considerevole, di minore entità è quella che avviene in Cina. Nel 1517 otto vascelli, al comando di Ferdinando de Andrade, sbarcano nella baia di Canton. Ha inizio una serie di conflitti con i locali che si protrarranno fino al 1559, quando viene concesso ai Portoghesi di stanziarsi lungo l’estuario del fiume Perle. In questo luogo viene fondata la città di Macao, che diviene una base di penetrazione commerciale, non tanto verso l’interno della Cina quanto verso il Giappone.
Le ragioni della sorprendente ascesa coloniale di un piccolo Stato come il Portogallo sono varie. Per un verso essa è favorita da circostanze locali. Le popolazioni indiane sono prive di flotte potenti e i grandi stati dell’Asia come il Siam, il Bengala, il Sultanato di Delhi e la Persia sono potenze essenzialmente terrestri. Per un altro i Portoghesi sono agevolati dalla natura stessa del commercio orientale e dalle caratteristiche morfologico-climatiche della zona: infatti le spezie più pregiate crescono in zone limitate e quindi facilmente controllabili. Laddove le spezie sono presenti in zone circoscritte (come il pepe a Malabar in India, i chiodi di garofano nelle Molucche o la noce moscata nell’isola di Benda) è più agevole stabilire un monopolio ed effettivamente imporne il rispetto.
Inoltre la configurazione insulare e piena di passaggi obbligati dei mari prospicienti la costa indiana rende più semplice l’imposizione, il controllo e il pagamento dei pedaggi; così come la natura dei venti stagionali – consentendo la navigazione solo in determinati periodi dell’anno – permette di concentrare e rendere quindi più efficace lo sforzo portoghese di tutelare il monopolio imposto.
Ma per comprendere le cause storiche di una rapida ascesa e di un’altrettanta repentina caduta, bisogna considerare il carattere congiunturale di queste ragioni favorevoli che, seppur valide per il successo portoghese in Oriente, si fondano però su strutture troppo fragili in Europa. Dopo la metà del Cinquecento, infatti, l’autorità regia declina progressivamente e il commercio privato aumenta il suo volume d’affari, fino a quando si giunge a una situazione in cui sul re gravano gli oneri del governo, ma i profitti dei commerci sono interamente in mano ai mercanti privati. La grande distanza dalla madrepatria e la difficoltà dei contatti sono la causa principale del loro sopravvento. Per ottenere maggiori profitti i mercanti tendono ad allearsi con i nemici della madrepatria e iniziano ad aggirare essi stessi quei controlli da cui avrebbero dovuto sentirsi garantiti. Inoltre l’esiguità del territorio e della popolazione portoghese rende difficile il reperimento di uomini e soldati per espandersi ulteriormente in Oriente, allargare i mercati e aumentare i profitti.
Tuttavia l’elemento più importante per spiegare il crollo portoghese nella dominazione dei mari d’Oriente è da ricercarsi nell’unione del Portogallo con la Spagna di Filippo II, avvenuta nel 1580. A una così grave crisi dello Stato corrisponde inevitabilmente una crisi del monopolio commerciale d’Oriente. Tale situazione attira in questa zona del mondo gli Inglesi prima e gli Olandesi poi.
Significativamente, proprio negli anni Ottanta del XVI secolo, Francis Drake e Thomas Cavendish compiono i loro rispettivi viaggi: raccolgono nelle terre d’Oriente spezie e provano a commerciare con le Molucche, riuscendo a eludere un monopolio portoghese ormai in crisi. Ma lo scarseggiare di capitali liquidi e il contemporaneo scontro dell’Inghilterra con la Spagna rendono vani questi tentativi. La stessa cosa non succede agli Olandesi sul finire del Cinquecento. Dotati di una flotta potente e di una notevole conoscenza delle rotte oceaniche della zona, dovuta agli scritti di Jan van Linschoten che per cinque anni ha vissuto a Goa come segretario del locale arcivescovo, gli Olandesi si organizzano in consorzi e cominciano una strategia di invasione dei mari e dei mercati orientali allo scopo di rafforzare il centro di Amsterdam che, dopo il declino d’Anversa, è diventato l’emporio europeo delle spezie in concorrenza con Lisbona. Le colonie portoghesi cadono l’una dopo l’altra e, durante il XVII secolo, l’intera zona vedrà il predominio degli Olandesi e delle loro compagnie.
Una significativa avvisaglia della crisi è rappresentata dalle vicende dell’arcipelago delle Filippine, un insieme di isole spagnole in un mare portoghese. Scoperte nel 1521 da Ferdinando da Magellano, un lusitano al servizio del re di Spagna, in base al trattato di Tordesillas rappresentano l’ultimo possedimento spagnolo prima dell’inizio della sfera di influenza portoghese. Esse vengono esplorate solo a partire dal 1542: oltre al fatto di essere prive di spezie, la loro relativa vicinanza alla Cina e al Giappone non può essere sfruttata a causa del monopolio portoghese su quei mercati. Gli Spagnoli comunque riescono a fare di necessità virtù e decidono di utilizzare questo avamposto orientale come base per attirare i mercanti asiatici. Essi creano una propria colonia e, aggirando il monopolio portoghese sulla zona, scambiano la seta e le porcellane asiatiche con i carichi d’argento dei galeoni provenienti dalla città messicana di Acapulco. La via di Madrid quindi passa attraverso tutto il globo e unisce il Messico alle Filippine, l’Oriente all’Occidente. Vincolati dal rispetto del trattato di Tordesillas gli Spagnoli rinunciano a espandersi via mare, ma sfruttano i territori delle Filippine in modo efficace; l’unico obiettivo possibile, quello della evangelizzazione, è perseguito con grande successo e raggiunge effetti storicamente duraturi.
L’esempio delle Filippine, ove nel 1620 si arrivano a contare ben due milioni di cattolici, indica come l’aspetto forse più importante della presenza europea in Oriente sia rappresentato dalle missioni. Il fenomeno missionario è strettamente legato, sin dalle sue origini, alle esplorazioni e ai commerci portoghesi, ma è destinato a sopravvivere alla loro crisi, tanto da divenire l’elemento caratterizzante dell’intera vicenda. In questa storia – fatta di commerci e preghiere, monopoli di spezie e d’anime – è proprio lo zelo del missionario, nel lungo periodo, ad avere la meglio sui saperi e sui sentimenti degli altri principali protagonisti: sulla perizia del cartografo come sull’umano ardimento del navigatore o la bramosia del commerciante. Le ragioni del commercio e quelle dell’evangelizzazione sono storicamente unite perché la sanzione papale, richiesta dal potere regio per vedere legittimata la proprietà delle nuove terre scoperte, è concessa in cambio dell’impegno missionario. Tanto è vero che la corona portoghese, per ottenere un riconoscimento giuridico e morale delle sue conquiste, non si impegnerà solo a diffondere la fede ma anche a organizzare una Chiesa, in diocesi e benefici, da affidare al personale più idoneo. Il re Manoel I sin dal 1499 comunica ad Alessandro VI la decisione d’inviare sacerdoti secolari e regolari nelle nuove terre. Nel marzo del 1500 con la bolla Cum sicut maiestas il papa pone sotto l’egida di un commissario apostolico tutte le terre che vanno dal Capo di Buona Speranza fino all’India. Si procede a tappe forzate: il nuovo papa Giulio II concede l’indulgenza plenaria a tutti i missionari e, nel giugno del 1514, con la bolla Pro excellenti praeminentia, Leone X istituisce la nuova diocesi di Funchal nei pressi di Madeira. Nel 1534 la diocesi, con una giurisdizione che comprende un territorio tra la Mauritania e l’Indocina, è elevata a sede metropolitana. Questo atto ha conseguenze importanti perché permette alla città di Goa di divenire un arcivescovado. Per merito dell’ordinario del luogo, Giovanni d’Albuquerque, che regge la diocesi dal 1537 al 1553, ha inizio un controllo effettivo del territorio che permette il superamento di una concezione e di una pratica virtuale dei poteri diocesani. Rispetto all’azione spagnola in America e nelle stesse Filippine, l’azione missionaria ed ecclesiastica portoghese procede con maggiori indugi e più lentezza. I motivi di questo ritardo sono differenti. Da un lato bisogna far riferimento alla realtà stessa della presenza portoghese in Oriente, che è costituita da avamposti ed empori commerciali che raramente superano la fascia costiera. Le missioni di conseguenza risentono di questo scarso radicamento territoriale e sociale, e si limitano a essere colonie delle Chiesa, riuscendo a conquistare minoranze, ma non popolazioni. D’altro canto l’avidità dei mercanti portoghesi e i continui scontri con le popolazioni locali rendono difficile, perché poco credibile, la predicazione evangelica che avviene negli stessi luoghi. In India un primo periodo missionario è caratterizzato dalla presenza del clero secolare e di ordini antichi come i Francescani e i Domenicani. Lo scopo immediato di questa predicazione è il battesimo delle popolazioni e la costruzione di chiese. Una seconda fase è invece incentrata sull’azione dei Gesuiti e sulle figure di Francisco de Jaso, conosciuto come Francesco Saverio e Roberto De’Nobili.
Francesco Saverio, che sarà canonizzato nel 1622 per il carattere esemplare della sua attività missionaria in Oriente, è inviato in India come legato di Paolo III e qui compie numerosi viaggi tra il 1549 e il 1551, raggiungendo Cochin, le Molucche e il Giappone. L’azione di Francesco Saverio è caratterizzata da uno zelo straordinario accompagnato alla convinzione che siano prima di tutto i missionari a dover conoscere i popoli di cultura diversa e adattarsi. Questa sua capacità di farsi ben volere dai locali fa sì che i suoi insegnamenti, improntati a una rigida disciplina e ortodossia cattolica, siano recepiti e attuati dagli abitanti d’Oriente con notevole efficacia.
A un maggior sincretismo religioso è ispirata invece l’attività missionaria di Roberto de’ Nobili. Il gesuita ritiene infatti che il trasferire apparati e regolamenti occidentali in Oriente tolga al cristianesimo ogni possibile prospettiva di successo duraturo. I suoi battezzati quindi possono conservare abitudini indù fino a quando non travalicano i mobili confini dell’ortodossia. Lo stesso gesuita studia il tamil e il sanscrito per poter meglio comprendere i locali e tradurre loro la lettera del messaggio cristiano. Altre due figure di Gesuiti di grande importanza nella storia dell’evangelizzazione europea in Oriente sono Alessandro Valignano e Matteo Ricci. Il primo concentra la sua attività in Giappone ove, dopo la morte di Francesco Saverio, rimanevano tre comunità cristiane di circa un migliaio di fedeli. Attraverso una strategia di conversioni e battesimi di massa, nel 1580 i cristiani in terra giapponese raggiungono le 150.000 unità. Il missionario impone ai suoi colleghi lo studio della lingua e fonda due seminari per la formazione del clero. Tuttavia lo sviluppo e la diffusione in Giappone del cristianesimo si interrompe sul finire del secolo. La rivalità fra ordini religiosi, esplosa dopo che nel 1585 papa Gregorio XIII concede alla Compagnia di Gesù il privilegio esclusivo di evangelizzare l’Estremo Oriente, indebolisce il fronte missionario in terra straniera. Ciò avviene in un momento in cui una serie di rivolgimenti politici interni al Paese creano un ambiente ostile ai missionari cristiani di recente installazione. Come conseguenza di questi due fattori ha inizio una lunga storia fatta di martiri, espulsioni e persecuzioni, che condanneranno il cristianesimo a una effimera e difficile presenza nel Paese del Sol levante. Il gesuita Matteo Ricci insieme al suo compagno Michele Ruggieri ottiene nel 1583 il permesso di soggiornare a Canton, in Cina. Iniziano a studiare la lingua e gli scritti di Confucio e, dopo qualche anno, si trasferiscono a Pechino nella speranza di ottenere i favori dell’imperatore. Nel 1601 ottengono il permesso di costruire una chiesa e iniziano un’attività culturale e religiosa che guadagna alla fede cristiana personalità influenti della corte imperiale. Alla morte di Matteo Ricci sono numerosi i critici del suo sincretismo religioso e compromissorio soprattutto sul tema dei riti. Tuttavia i cristiani in Cina sono circa 2500, organizzati intorno all’influente diocesi di Macao. La città, costruita tra il 1553 e il 1554, rappresenterà per tre secoli – insieme alla diocesi di Manila nelle Filippine spagnole – il centro degli interessi europei in Estremo Oriente, segno inequivocabile del legame tra le ragioni dell’evangelizzazione, la stabilità dell’organizzazione ecclesiastica e la storia degli imperi commerciali dalle però mutevoli e alterne fortune.