Gli ebrei nel Medioevo centrale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alla vita e alla cultura ebraica dei secoli XI-XII non sono sconosciuti i fermenti messianici della cristianità: ne sono prova, fra l’altro, i testi in cui si fa riferimento al prossimo compiersi di alcune profezie e cui è, forse, da ricollegare una serie di conversioni all’ebraismo, che avvengono anche fra membri del clero. Se nell’XI secolo il quadro relativo alla diffusione delle comunità ebraiche e alle loro occupazioni resta ancora abbastanza oscuro, la seconda metà del secolo successivo è illuminata, invece, dai primi resoconti dei “viaggiatori-scrittori”. Contestualmente, le fonti mostrano l’affermarsi del ruolo ebraico nella diffusione delle scienze, tramite la pratica delle traduzioni, e la loro crescente specializzazione nell’esercizio della medicina, area in cui la maestria dei medici ebrei resterà a lungo insuperata.
Anche se su presupposti diversi rispetto alla società cristiana, l’approssimarsi e poi il trascorrere dell’anno Mille porta nel mondo ebraico alcuni mutamenti significativi sia nell’approccio alla vita quotidiana, sia introducendo nuove riflessioni sul significato del tempo e della storia. L’XI secolo giunge infatti, per gli ebrei, in una prospettiva di attese e d’importanti speranze. Ad esempio, secondo un’antica tradizione – principalmente veicolata da un tardo midrash intitolato Sefer Zerubbavel (Libro di Zerubbavel, redatto verso il VII secolo) – il Messia si sarebbe manifestato il 1 agosto 1058, in coincidenza con il 9 di Av dell’anno ebraico 4818, 990 anni dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Questa non è, naturalmente, né la prima né l’ultima data messianica in circolazione già da molti secoli (e altre ne verranno elaborate anche in seguito); ma l’attesa dell’evento per l’estate del 1058 risulta essere stata particolarmente sentita, non solo per la sua prossimità al volgere del primo millennio dei cristiani – e quindi nel contesto di un generale ripensamento millenaristico e di conseguente crisi – ma anche per il suo far seguito ai secoli IX e X, in cui l’ebraismo mediterraneo si era ritrovato in grave difficoltà, specialmente nel periodo delle persecuzioni bizantine.
Da molto tempo, d’altra parte, la tradizione ebraica prospettava per l’era messianica un doloroso periodo d’incubazione segnato da sciagure e sofferenze, sia collettive sia individuali: periodo delle “doglie del Messia”, così come indicato dalle fonti, con significativa metafora gestazionale. Sofferenze e problemi sono indubbiamente presenti per l’ebraismo altomedievale; ma la situazione viene ad acuirsi proprio dalla metà dell’XI secolo, quando non solo l’evento atteso per il 1058 non si manifesta – e la responsabilità viene fatta ricadere, come sempre, su Israele stesso per eccesso di peccato o difetto di purità – ma, nel volgere di pochi decenni, si assiste alla spinta ideologica antiebraica della prima crociata (1095/1096) che in Europa travolge i rapporti fra ebrei e cristiani, dando luogo al primo importante apice di tensione “globale” ebraico-cristiana del Medioevo, ben visibile nella scia di persecuzioni e di moti antiebraici che con i crociati attraversano, insanguinandola, specialmente l’Europa centrale.
All’ondata di persecuzioni fa contrasto un fenomeno meno noto: l’attrazione verso l’ebraismo di alcuni settori della società medievale che, nei secoli XI-XII, conduce a una serie di casi di apostasia. Il dato è nella sua estensione ancora da sottoporre ad attenta verifica: alcuni studiosi hanno stimato, probabilmente esagerando, fra i 10 e i 20 mila i cristiani europei che fra il X e il XII secolo si sarebbero convertiti all’ebraismo e spostati nel Nord Africa o nell’Oriente islamico. L’esistenza stessa del fenomeno indica comunque, al di là delle proporzioni, che malgrado l’ideologia antiebraica delle autorità ecclesiastiche, l’ebraismo seguita ad esercitare, come già nella tarda antichità, un fascino ambivalente sui cristiani, specie nei settori meno infimi della popolazione. Alcune notizie su tali conversioni sono reperibili in cronache e testi annalistici latini, ma è soprattutto dal grande fondo documentario arabo-ebraico della Genizah del Cairo che provengono le testimonianze più significative: fra le quali emergono i frammenti autobiografici dell’ex chierico normanno Giovanni di Oppido Lucano (Basilicata), il quale nell’estate del 1102 si converte all’ebraismo e, lasciata l’Italia, compie un lungo viaggio attraverso la Siria, la Mesopotamia, la Terrasanta e, infine, l’Egitto. Oltre che per le sue memorie, Ovadyah il Proselito (questo il nome assunto da Giovanni nell’ebraismo) è noto anche per un altro importante lascito: le prime trascrizioni di musica sinagogale che ci siano pervenute.
Rispetto ai periodi che l’hanno preceduto, il XII secolo segna un netto miglioramento nella base documentaria dell’ebraismo medievale. Si tratta, tuttavia, di una documentazione che fa ancora cogliere nel dettaglio solo la realtà di alcune comunità, di singoli individui o di specifici gruppi familiari, ma non è sufficiente per una delineazione comparativa delle vicende storiche e delle caratteristiche dell’ampia società ebraica che risulta sparsa sull’intera area mediterranea ed europea.
È probabilmente per tale ragione che è invalso in storiografia l’uso di utilizzare come passepartout il Sefer massa‘ot di Beniamino da Tudela (Libro di viaggi, editio princeps Costantinopoli 1543), probabilmente il testo del genere più noto e tradotto nella letteratura ebraica dell’età di mezzo. Il contenuto del libro giustifica in pieno tale utilizzo – talora attuato, però, con scarso senso critico – dal momento che, formalmente, l’opera si presenta come il “diario di viaggio” di un non altrimenti noto Binyamin ben Yonah (Beniamino figlio di Giona) che si sarebbe svolto nell’arco di circa tre anni. Vari indizi collocano il viaggio fra il 1166 e il 1173 – il terminus ante quem è fornito dal prologo, in cui si sostiene che Beniamino sarebbe ritornato in Castiglia nell’anno ebraico 4933 (1172/1173), ma la cronologia e diversi snodi dell’itinerario presentano varie incongruenze. In ogni caso il Sefer massa‘ot è ancora da considerare un punto d’osservazione particolarmente prezioso sull’ultimo scorcio del XII secolo e, per molte delle realtà rappresentate, fonte sostanzialmente credibile. È un peccato che la mancanza quasi totale di dati sull’autore e sul redattore-editore finale (si tratta infatti di un testo composto a più strati, analogamente alla storia redazionale del Milione di Marco Polo) non ci permetta di conoscere, fra l’altro, quanto tempo Beniamino si sia trattenuto nei luoghi visitati e, soprattutto, per quale ragione e in quali circostanze. Probabilmente, in origine, il testo non consisteva che in un taccuino di viaggio con annotazioni di luoghi, distanze, presenza o assenza di popolazione ebraica; base poi rielaborata, probabilmente in Castiglia, da uno sconosciuto letterato, utilizzando descrizioni e racconti provenienti non solo dalla cultura ebraica, ma anche da quella islamica e latino-cristiana.
Il quadro geografico coperto da Beniamino da Tudela comprende, dopo la Navarra e la Catalogna, la Linguadoca e la Provenza occidentale, fino a Marsiglia; quindi l’Italia peninsulare, da Genova a Otranto; l’Egeo – con lunga digressione su Costantinopoli – e le coste dell’Asia Minore; quindi la Siria costiera e il Libano, da Antiochia a Tiro; la Terrasanta (“Terra d’Israele”), percorsa in senso tortuoso, da Akko a Banyas; la Siria centro-orientale, da Damasco a Palmira; l’alta e bassa Mesopotamia, da Mossul a Bassora; e infine, dopo un’altra digressione, a quanto sembra posticcia, sull’Arabia, la Persia occidentale, la Susiana e la Media, parte dell’Asia Centrale e il Kurdistan (sezione questa anch’essa problematica, come del resto tutta la parte d’itinerario compresa fra il Golfo Persico, il Malabar, le Indie, lo Yemen e l’Etiopia).
Vi è poi la verosimile via del ritorno, dall’Egitto alla Sicilia, ma il testo si conclude con un’ultima deviazione unicamente descrittiva su alcune aree dell’Europa centro-orientale, l’Alamannia, la Boemia, il limite della Russia e infine la Francia. Il mondo ebraico che si dipana in tale orizzonte è estremamente vario e molti dati forniti da Beniamino possono essere integrati, precisati o corretti in base alla documentazione diretta, d’archivio, epigrafica o archeologica. Un punto particolarmente delicato e controverso nell’uso e interpretazione del testo risiede nelle indicazioni numeriche sulla presenza ebraica nelle località menzionate: secondo alcuni, tali cifre (“duecento ebrei”, “due ebrei”) sarebbero da accettare alla lettera; secondo altri, l’indicazione si riferirebbe al numero dei capifamiglia, o dei nuclei familiari: in tal caso “cinquecento ebrei” significherebbe “cinquecento (famiglie di) ebrei”.
Per quanto riguarda la descrizione dei luoghi, il testo è generalmente attento alla notazione degli aspetti non solo paesaggistici e culturali, ma specialmente economici e segnatamente “industriali” di ogni località, restituendo un’immagine abbastanza diversificata delle aree attraversate.
Nella descrizione dell’Europa meridionale si fa più sentire l’interesse culturale: fra Barcellona, la Provenza e l’Italia centrale (e particolarmente Roma, Capua, Salerno e la Puglia) si segnalano comunità ebraiche antiche e numerose, e importanti centri culturali, il cui primato va, in quel momento storico, all’area provenzale. In area egea (“Terra di Yawan”), con l’eccezione di Salonicco e di Tebe – la cui comunità appare dedita alla lavorazione della porpora ed è sede di studiosi illustri – da Corfù in poi dettagli sui luoghi mancano quasi completamente: non vi è dubbio che in tale sezione il tratto dominante sia lo spazio economico.
Oltre i Dardanelli, la descrizione di Costantinopoli è notevole: vi si descrivono le sedi monumentali del potere, i nomi dei governanti, dei re, dei califfi e qui non si manca di sottolineare la condizione subalterna in cui vive la comunità ebraica di Bisanzio. Nelle pagine dedicate alla Siria, al Libano e a Israele emerge, fra i residui dei conflitti della seconda crociata, lo spazio della memoria biblica e delle condizioni di Gerusalemme, al cui centro vi è il templum domini, la Cupola della Roccia sulla spianata del Tempio. Il riconoscimento dei luoghi biblici procede per accenni: siamo lontani dalle elaborate identificazioni erudite dei decenni e soprattutto dei secoli successivi. Dopo la Siria, anche in Mesopotamia la memoria dei luoghi biblici però continua e campeggia nella menzione delle tombe o dei luoghi di culto legati ad Abramo, Giona, Ezechiele, Daniele, Esdra. Qui si conclude, forse, l’itinerario realmente compiuto da Beniamino: ma se la digressione sull’Arabia è certamente artificiale, le tracce del viaggiatore sembrano ancora attendibili almeno in parte del territorio persiano, e certamente a Isfahan.
Mentre, come mostra in filigrana il testo del tudelense, le caratteristiche della vita ebraica in Europa e nel Mediterraneo vanno progressivamente a divergere – finché solo nell’area mediterranea resterà possibile, per gli ebrei, una partecipazione attiva alle attività produttive, imprenditoriali e artigianali – e si affermano quelle direttrici sociali ed economiche che resteranno immutate nelle loro linee essenziali per tutto il corso del Medioevo, nei secoli XI-XII viene anche ad affermarsi il ruolo fondamentale degli ebrei nella circolazione del sapere e nella pratica della medicina.
Il determinarsi di tali capacità si basa su fattori molteplici e diversi, ma tutto sommato esso appare determinato da non più di due circostanze: da un lato, la condizione del plurilinguismo, caratteristica di un’ampia sezione del mondo ebraico (entro il quale virtualmente non sussiste il fenomeno dell’analfabetismo) e che conduce, in breve, a una vera e propria specializzazione professionale d’interi nuclei familiari. Dall’altro, vi è il rilievo da sempre attribuito ad alcuni princìpi generali di condotta igienica, peraltro connessi a concezioni d’ordine non solo sanitario, ma anche teologico, quali le condizioni di purità (tohorah) e impurità (tum’ah) i cui argomenti fondanti sono già nei libri biblici del Levitico, dei Numeri e del Deuteronomio, sui quali in seguito si è costituita una cospicua sedimentazione normativa. L’ampia diffusione di minuziose prescrizioni sull’igiene fisica, alimentare (la cosiddetta kašerut) e ambientale, favorite dalla presenza costante di medici in tutte le comunità (spesso, presso la stessa figura rabbinica), ha determinato però non solo effetti positivi, ma talora anche dolorosamente imprevedibili. Si è da tempo osservato, per esempio, come nel Medioevo in tempo di epidemie fossero gli occupanti delle giudecche o dei quartieri ebraici a essere, almeno inizialmente, meno colpiti; si tratta di un effetto della già avviata separazione delle case ebraiche dal resto della struttura urbana, ma anche della scrupolosa osservanza delle norme igieniche imposte dalla tradizione insieme alla necessità di mantenere la purità rituale. Per contrappasso, però, si afferma la crescente convinzione che la presunta immunità degli ebrei
sia dovuta alla loro diretta responsabilità nella diffusione del contagio: ciò dà il pretesto per ulteriori slanci persecutori, specialmente nel corso della peste nera del 1348, quando tuttavia sarà giocoforza ammettere che le vittime nel mondo ebraico non risultano affatto inferiori a quelle cristiane. Disperso e in condizione di sempre maggiore isolamento, il mondo ebraico si aggrappa alla sinagoga, al bagno rituale, agli alimenti kašer; elementi basilari cui viene a unirsi l’istituto ospedaliero – l’hospitalis iudaeorum – i cui primi esempi noti in Occidente appaiono accanto alla struttura della sinagoga. Sorto come heqdeš, semplice luogo di rifugio per i poveri, lo sviluppo di tali strutture si avvia e si consolida con il transito dei pellegrini verso la Terrasanta: perché lungo il tragitto, se anche non esistessero le umilianti misure separatiste della società cristiana, le esigenze di igiene e purità renderebbero comunque più consigliabile sostare presso un ricovero di correligionari.