TAMBRONI, Giuseppe
– Nacque a Bologna l’8 settembre 1773 da Paolo, agiato cuoco di origini parmensi, e da Rosa Muzzi.
Fu istruito in casa assieme alla sorella Clotilde (v. la voce in questo Dizionario), per lo più sotto la direzione di Michele Aponte, affittuario di una stanza nella casa paterna. Entrato all’Università di Bologna, meritò la speciale benevolenza dei docenti Luigi Palcani (filosofia), monsignor Floriano Malvezzi (archeologia) e soprattutto di Lodovico Savioli, allora alle prese con la stesura di una storia di Bologna e integrato negli ambienti massonici felsinei. Tambroni ottenne per decreto del Senato bolognese del 9 settembre 1794 il posto di paleografo e archivista della sua città. All’arrivo dei francesi, entrò nella guardia nazionale con il grado di tenente e l’anno successivo, proclamata la Repubblica Cisalpina, si portò a Milano dove fece fervente opera di apostolato democratico. Nominato segretario d’ambasciata della Repubblica, seguì Ferdinando Marescalchi a Rastadt e a Vienna. Al rientro nella capitale cisalpina, ottenne il posto di segretario del direttorio. Rischiando di soccombere alla repressione degli austro-russi, nel 1799 fuggì a Chambery, dove nello stesso anno sposò Teresa Couty.
Dopo Marengo, fu recuperato alla diplomazia napoleonica come membro della Legazione italiana a Parigi, quindi fu investito di missioni alquanto importanti, tra Repubblica Italiana e Regno d’Italia. Nel 1804 fu inviato a sistemare presso il governo d’Austria la questione della restituzione degli archivi della Lombardia e del Veneto. Divenuto attaché del ministero degli Esteri del Regno italico, dal 1807 al 1808 fu inviato a Gorizia per definire i confini tra il Regno stesso e l’Impero asburgico. La missione gli valse l’approvazione dell’imperatore, che nel 1808 lo nominò cavaliere dell’Ordine della Corona di ferro. Nel medesimo anno fu formalizzata la sua ammissione a membro corrispondente dell’Institut di Parigi, che aveva cominciato a frequentare all’epoca del soggiorno francese.
In quel torno d’anni redasse la sua opera edita più impegnativa, ancorché non propriamente memorabile: il Compendio delle Istorie di Polonia (Milano 1807-1808).
Avviata nel 1807 a seguito della campagna napoleonica nel territorio dell’antica Repubblica nobiliare, l’opera in due tomi è presentata come una sorta di vademecum per uso personale, rivendicando la consultazione di fonti latine e di trattati moderni. Ripercorsa come pura histoire bataille, nel solco di una sensibilità storiografica già superata all’epoca dell’uscita, la plurisecolare vicenda della nazione polacca vi è trattata dalle origini e, con particolare insistenza, nell’epoca postimperiale laddove Tambroni postula la netta individualità razziale dei Sarmati rispetto ai Goti e poi la loro superiorità su russi e prussiani, nell’evidente intenzione di perorare una causa nazionale polacca in polemica con le spartizioni. Sentenziosa e segnata da un reciso anticlericalismo e antipapismo, nonché da una forte vena antinobiliare, l’opera rivela una buona familiarità dell’autore con le fonti classiche e, ancor più, il proposito di tracciare un parallelo tra le vicende della nazione orientale e quelle della patria italiana, in una ottica fieramente bonapartista, con la liquidazione degli istituti rappresentativi tanto amati in precedenza e con un’accentuata disposizione verso un ideale di ‘assolutismo moderno’.
Divenuto per un breve periodo console a Livorno, con decreto dell’11 marzo 1811 fu trasferito a Civitavecchia con facoltà di risiedere a Roma, dove ebbe inizio la sua forte e durevole amicizia con Antonio Canova, rappresentante primario della vita artistica romana e al contempo simbolo internazionale della grandezza del ‘genio italico’. Divenuto socio dell’Accademia di archeologia della ex capitale pontificia e dell’Accademia di S. Luca, Tambroni trascurò vieppiù i propri doveri politici e amministrativi per concentrarsi sulla promozione delle belle arti della penisola. Con il passare dei mesi, anzi, piegò l’intera sua attività diplomatica alla finalità di insediare a Roma un pensionato per gli artisti del Regno d’Italia, al fine di eguagliare la già lunga esperienza francese nel frattempo imitata da altri Paesi. Sorse così, a stretto contatto con il Canova, il progetto dell’Accademia di Italia a palazzo Venezia, che doveva ospitare per un triennio (poi un quadriennio) i migliori artefici segnalati dalle Accademie di belle arti di Milano, Venezia e Bologna. Il progetto, di non semplice esecuzione e talvolta raffrenato da importanti personalità coinvolte come il direttore di Brera e Leopoldo Cicognara, vide Tambroni talmente convinto da stanziare i propri fondi personali per implementare la formazione degli ospiti, e godette infine del sostegno del viceré Eugenio de Beauharnais, già firmatario di atti notevoli per la protezione e promozione dell’arte accademica italica.
Si rafforzarono in quell’ultimo periodo del dominio francese a Roma le vedute e i gusti artistici di Tambroni, che avrebbero trovato migliore espressione negli scritti editi e inediti degli anni successivi.
Fermo il primato nazionale e internazionale di Canova, Tambroni coltivava da parte sua un vagheggiamento di ritorno al Rinascimento italiano tale da farne un classicista piuttosto che un fautore rigoroso del neoclassicismo alla Winckelmann. A ogni modo, individuava nella città eterna la sede primigenia della vita artistica italiana, anche per l’intensa frequenza con cui vi si recavano gli artisti stranieri più importanti. Piuttosto interessante era lo sguardo comprensivo con cui Tambroni seguiva l’arte romana, non trascurando affatto le arti minori e l’artigianato di supporto, e polemizzando con il mecenatismo d’antico regime. Più coerente con il genio artistico dell’Urbe era lo stretto legame tra scoperte archeologiche e arti visuali, che Tambroni avrebbe continuato a segnalare nelle successive esperienze pubblicistiche. Nel 1812 iniziò a studiare meticolosamente l’attività artistica della città di residenza, compiendo le osservazioni che sarebbero confluite due anni dopo nel memorandum, rimasto manoscritto, con cui avrebbe voluto perorare la sua causa presso Klemens von Metternich in seno al Congresso di Vienna.
Immediatamente dopo la caduta di Bonaparte, Tambroni continuò a risiedere a Roma, convinto che le benemerenze acquisite nella politica culturale potessero far dimenticare i trascorsi antipapisti e la fedeltà all’imperatore. Tuttavia, la reggenza dell’Accademia d’Italia, sulla quale si appuntavano le sue speranze per un impiego onorevole, fu assegnata a Ludwig von Lebzeltern, contrario – come il cardinale Ercole Consalvi – alla reintegrazione di Tambroni. Ancora assistito – anche a livello economico – da Canova, egli si portò nel dicembre del 1814 a Vienna, deciso a caldeggiare la propria causa con il principe di Metternich. Dovrebbe risalire al soggiorno austriaco la stesura del Cenno intorno allo stato attuale delle belle arti in Roma (in Rudolph, 1982, pp. 58-128) che, accanto a una dovizia di informazioni specifiche, forniva un resoconto della sua attività a favore degli artisti presenti a Roma. Il carteggio con Canova testimonia della progressiva disillusione di Tambroni, bloccato a Vienna nell’attesa che Metternich gli desse udienza. Ad ogni modo, il 5 ottobre 1815 scriveva a Canova che la sua nomina era stata approvata dall’imperatore d’Austria, aggiungendo però che la malevolenza di Lebzeltern ne stava ritardando l’esecuzione.
Beneficiario di un modesto sussidio come ex funzionario, Tambroni si mosse in seguito per un biennio tra Roma (dove continuava a risiedere l’amatissima moglie Teresa Couty) e Milano, dove prese parte alle iniziative per il busto del pittore Giuseppe Bossi. Rientrato a Roma, nel 1819 entrò a far parte del gruppo dei compilatori del Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti, dove per un lustro fu responsabile del notiziario su belle arti e archeologia.
Promosso e diretto dal principe Pietro degli Odescalchi, il Giornale arcadico si proponeva come una sorta di Biblioteca italiana in terra romana. Legato fin dal nome alla colonia poetica e al suo antico ideale di buon gusto e pacato razionalismo, la rivista innalzò la bandiera del classicismo trecentista e cinquecentista, ma al contempo aveva l’ambizione di fungere da ribalta della moderna vita scientifica di Roma e dello Stato pontificio. Classicismo e devozione facevano dunque il paio con il miraggio di rilanciare la nomea dello Stato romano come fucina di vita culturale degna di un posto di tutto riguardo nella ancora vagheggiata repubblica delle lettere. Compilato da intellettuali quali Giulio Perticari e Antonio Nibby (fino al 1821, quando nacquero le concorrenti Effemeridi romane), da prelati in servizio alla Vaticana e docenti dell’Archiginnasio, il giornale vantava corrispondenti da tutte le periferie dello Stato pontificio, e non di rado dette la precedenza alle notizie e alle memorie di scienze naturali, fisiche e mediche (grazie pure alle tante traduzioni dal francese) rispetto alla prima prevalente bella letteratura e filologia. Dell’impostazione tambroniana sopravviveva la sensibilità per l’attività di tutti i luoghi della cultura romana; più specificamente avvinta all’atmosfera politica e culturale della Restaurazione era invece la battaglia a tutto campo contro il Romanticismo (con precoce stroncatura di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi e del medievalismo in genere) e contro il liberalismo in tutte le sue forme costituzionali ed economiche.
In questo contesto Tambroni curava una sorta di notiziario critico sulle novità artistiche, talora suddiviso in rubriche riservate a ciascuna delle arti maggiori. Per lo più firmato, talora estremamente succinto, il notiziario comparve regolarmente dal 1819 al 1823, ma con il tempo si aggiunsero altri estensori. Altri contributi di Tambroni furono un regesto da Jean-Baptiste Biot sul Reame africano degli Asantei, qualche pezzo poetico e, soprattutto, una disputa con Vincenzo Monti susseguente all’apparizione dell’altra opera maggiore di Tambroni, l’edizione dello scritto di Cennino Cennini animata da intenti patriottici e conservatori allo stesso tempo. La polemica concerneva la questione della lingua letteraria, che all’epoca era divenuta un altro interesse di Tambroni. Fautore del purismo più accanito e conservatore, privo di qualsivoglia inventiva o originalità, egli aveva difeso un trecentismo integrale, che tra l’altro gli aveva aperto le porte dell’Accademia della Crusca. Alla morte di Canova, Tambroni ne diede alle stampe un breve ritratto biografico.
Vedovo da un anno, morì a Roma il 19 gennaio 1824.
Opere. Oltre ai testi citati si segnalano: Alla Sacra Maestà di Francesco Cesare Augusto Imperatore e Re, Milano 1815; Lettera al chiarissimo sig. abate Missirini intorno alle urne cinerarie dissotterrate nel pascolare di Castel Gandolfo, Roma 1817; recensione a Ode del Conte Giovanni Paradisi per nozze, in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti, II (1820), 6, pp. 346-349; Lettres du chev. Antonio Canova, ibid., II (1820), 8, pp. 260-270, III (1821), 10, pp. 283-290; Di Cennino Cennini. Trattato della Pittura messo in luce la prima volta con annotazioni dal cavaliere G. T., Roma 1821; Di una canzone di Sennuccio Del Bene restituita a migliore ed intera lezione, in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti, IV (1822), 13, pp. 99-103; Necrologia di R. Schadow, ibid., pp. 160-161; Necrologia. Antonio Canova, ibid., IV (1822), 16, pp. I-IV; Anche un’altra lettera del Tambroni intorno Boville, scritta al sig. Luigi Poletti architetto, ibid., V (1823), 20, pp. 251-258; Intorno alcuni edifici ora riconosciuti dell’antica città di Boville, ibid., V (1823), 18, pp. 371-428; Intorno la vita di Antonio Canova. Comentario, Venezia 1823; Necrologia di Orazio Carnevalini, in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti, V (1823), 21, pp. 430-431; Rime postume inedite, Macerata 1832.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Milano, Ministero degli Esteri Prima Divisione (Archivio Marescalchi), b. 16, Quadri delli impiegati; Biblioteca apostolica Vaticana, Fondo Ferrajoli, voll. 517-518 (corrispondenza e scritti inediti); Epistolario Canoviano. Necrologio, Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti, VI (1824), 21, pp. 129 s.; C. Franceschi, All’Italia. In morte di del cavaliere G. T., ibid., VI, 1824, 22, pp. 96-100; Memorie romane di antichità e di belle arti, 1826, vol. 3, pp. 458-464 (necrologio anonimo ripubblicato poi in E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII, e de’ contemporanei, V, Venezia 1837, pp. 29-32).
Nouvelle Biographie générale depuis les temps les plus reculés jusqu’à nos jours, XLIV, Paris 1865, s.v.; C. Cantù, Corrispondenze di diplomatici della Repubblica e del Regno di Italia 1796-1814, Milano 1884, pp. 60-72; Ph. Denkel - M. Dvorak - H. Egger, Der Palazzo di Venezia in Rom, Wien 1909, ad ind.; S. Rudolph, G. T. e lo stato delle belle arti in Roma nel 1814, Roma 1982 (con ampia selezione del carteggio con Canova).