SIMONELLI, Giuseppe
– Nacque a Napoli in una data imprecisata ma comunque a ridosso del 1650, così come si ricava dall’attendibile testimonianza di Bernardo De Dominici, che, nell’informato medaglione dedicato all’artista, ne fissa la morte al 1713 «all’età di 64 anni in circa» (1742-1745, III, 2008, p. 849). In circostanze che rimangono ancora prive di precisi riscontri cronologici, ma che gli elementi certi di cui oggi dispone la critica spingono a collocare sul finire del settimo decennio del XVII secolo, dovette prendere avvio e consumarsi il fondativo tirocinio di Simonelli nell’atelier di Luca Giordano: un’esperienza destinata a segnare tutta la sua parabola artistica e che gli studi moderni (tra cui Reccia, 2009, p. 265), appoggiandosi al racconto del biografo settecentesco, tendono generalmente a porre a ruota di un più antico periodo in cui il pittore avrebbe frequentato la casa del maestro napoletano come «suo servitor di livrea» (De Dominici, 1742-1745, III, 2008, p. 847). L’impalcatura generale della Vita intestata al pittore e l’intonazione moraleggiante del passo («tanto puote l’amore della virtù e lo studio del ben fare»; ibid.) inducono in realtà a leggere tale vicenda nel quadro della feconda aneddotica dedominiciana, impegnata qui a costruire un sapido espediente narrativo utile tanto a circostanziare l’indefettibile dedizione che Simonelli avrebbe palesato per tutta la carriera verso il magistero giordanesco, tanto a rimarcare la prodigalità e l’intuito di Luca verso un giovane di belle speranze.
Del tutto carente di appigli di natura documentaria, il periodo dell’apprendistato dovette essere scandito da una progressiva emancipazione all’interno delle tante imprese dirette dal maestro sul finire del terzo quarto del Seicento e, per ragioni di ordine anagrafico, sembra lecito pensare che Giuseppe lo abbia verosimilmente concluso intorno al 1670 (Paoluzzi, 2010, p. 227). Di certo, quando la bottega giordanesca venne affollata da una generazione di allievi più giovani di almeno una decina di anni (da Paolo de Matteis a Nicola Malinconico e Andrea Miglionico), egli dovette essere già riconosciuto come un veterano nella squadra di aiuti allestita dal grande caposcuola.
Rimasto nell’orbita del Giordano come collaboratore di lungo corso almeno sino al 1692 – e cioè sino a quando Luca non lasciò Napoli per trasferirsi in pianta stabile alla corte di Carlo II (Pavone, 1997, p. 103; Reccia, 2009, p. 265) –, non più tardi dell’inizio del nono decennio Simonelli dovette cominciare ad affacciarsi sulla scena artistica meridionale anche con una parallela attività in proprio. Riscosso nel 1686 il saldo per una pala con i Santi Martiri destinata al collegio gesuitico di Trapani – a oggi la più antica traccia accertata della sua produzione (Pavone, 1997, p. 103) –, nel 1690 il pittore si cimentò in autonomia con due ritratti («uno in figura intiero del quondam Carlo Reis […] et d’uno altro simile di mezza figura»; ibid.), esordendo a Napoli in un campo che avrebbe continuato a coltivare con discreta fortuna almeno sino al 1707 (anno in cui realizzò per la chiesa della Redenzione dei Cattivi le effigi del viceré e dei sovrani spagnoli; ivi, p. 107) e che, come documenta lo spigliato Autoritratto rintracciato una quindicina di anni fa a Lubecca, Museum für Kunst und Kulturgeschichte der Hansestadt, da Nicola Spinosa (2001, pp. 439, 453, nota 4), venne profondamente condizionato dai clichés formali ed espressivi adottati nel genere da Giordano.
Eseguiti tra il 1691 e il 1692 il S. Nicola da Tolentino per la cappella Siqueiros in S. Maria della Speranza e tre tele (l’Estasi di s. Teresa, la Madonna della Purità e la Visione di s. Carlo Borromeo, firmata)per S. Maria del Rosario alle Pigne, intorno alla metà degli anni Novanta l’artista cominciò a farsi strada sulla piazza napoletana come disinvolto interprete della grande decorazione a fresco. Licenziate nel 1695 le pitture nel cappellone dell’Immacolata nella chiesa dei Girolamini – un ciclo profondamente intriso del neovenetismo franco e brioso dell’ultimo Giordano partenopeo –, nell’agosto del 1696 (Confuorto, [1679-1699], II, 1930; pagamento al 3 settembre 1696 rintracciato da Rizzo, 2001, pp. 225 s., doc. 113) Giuseppe completò la cupola di S. Maria Donnaromita: un cantiere che nel 1692 il suo vecchio maestro fu costretto a dismettere anzitempo per via del trasferimento in Spagna e che, a distanza di quattro anni, egli riuscì a condurre in porto consacrandosi in città come l’erede più autorevole della tradizione decorativa di stretta osservanza giordanesca.
Forte del riscontro che gli venne da un intervento così emblematico come quello in Donnaromita (dove parve occupare materialmente il posto liberatosi con la partenza del Giordano e dove, nel solco del formulario stilistico di Luca, continuò a lavorare sino al 1702 con l’esecuzione di altre scene distribuite tra il tamburo, i pennacchi e i finestroni; Pavone, 1997, p. 104), negli anni del passaggio di secolo Simonelli consolidò la propria posizione nelle preferenze della committenza ecclesiastica napoletana, onorando una fitta agenda di incarichi che, nello spazio di poco più di un lustro, lo videro impegnato nelle chiese dei Ss. Marcellino e Festo (Storie dei ss. Marcellino e Festo, Passaggio del Mar Rosso, 1697-1700), di S. Caterina a Formiello (Predica, Martirio e Trionfo di s. Giacomo e quattro Virtù, 1698-99), di S. Gregorio Armeno (Caduta della manna, Coro di angeli, 1699) e di S. Giovanni Battista delle Monache (Madonna del Rosario, 1702).
Contando su un’inusitata facilità esecutiva e, come già avvertiva con una punta di malizia il De Dominici (1742-1745, III, 2008, p. 848), attingendo con spregiudicata sistematicità allo sterminato repertorio compositivo del maestro, sullo scorcio del secolo Giuseppe riuscì pure a intensificare i rapporti con il mercato provinciale, trovandovi un remunerativo sbocco alternativo per la propria produzione sacra (Sulmona, Nascita di Maria e Presentazione di Maria al Tempio, 1698; Benevento, Santi patroni beneventani, 1700; Aversa, Strage degli innocenti, Madonna del Rosario e un’altra ventina di tele in collaborazione con il fratello Gennaro, 1702-05) e imponendosi, in specie nei contesti più defilati del Regno (Cirigliano, Madonna col Bambino e s. Filippo Neri, firmata, e S. Michele Arcangelo, 1700-02; Aliano, Assunzione della Vergine 1700-02; Teverola, Gloria di s. Giovanni Evangelista, firmata, 1700-05; Padula, Pietà, firmata, 1705-10; Procida, otto Santi, Annunciazione e altri dipinti, 1707) come uno dei divulgatori più apprezzati del barocco di schietta matrice giordanesca.
Continuando a frequentare con discreta assiduità i circuiti del collezionismo privato partenopeo e spagnolo – dove generalmente venne interpellato quale pittore sacro (come nel caso della dozzina di dipinti devozionali eseguiti entro 1702 per Juan Suarez de Figueroa; cfr. Labrot, 1992, pp. 314 s.), ma dove pure si cimentò con sensuose messe in scena a sfondo profano (Rinaldo e Armida, firmato, coll. privata: Paoluzzi, 2010, p. 232; sulla fortuna del pittore in Spagna cfr. Barrio Moya, 1993; Luca Giordano y España, 2002, pp. 44, 48, 178, 256, 317 s.) –, nell’ultima fase di carriera l’artista si produsse in una lunga serie di commesse partenopee (S. Maria di Montesanto; S. Carlo alle Mortelle; Gesù Nuovo; S. Nicola da Tolentino; Redenzione dei Cattivi; Rosario di Palazzo, perduta; S. Maria del Carmine, 1709; S. Anna dei Lombardi, 1710), costeggiando il temperato classicismo di Paolo de Matteis (Fontana, 2014, p. 157) e avvalendosi del supporto di un’attrezzata bottega in cui, oltre a Gennaro Abbate (il cui discepolato è accertato da un documento del 1705; Pavone, 1997, pp. 108, 386), dovettero probabilmente transitare Girolamo Cenatiempo (Fontana, 2009) e Matteo Simonelli (sul suo legame con Giuseppe mancano tuttavia conferme documentarie; Reccia, 2009, p. 266).
Fedele agli ammaestramenti del Giordano anche nel campo della grafica (Scavizzi, 1999), Giuseppe si spense a Napoli nel 1713 (De Dominici, 1742-1745, III, 2008, p. 849), forse non riuscendo a ultimare la volta della sagrestia di S. Brigida affidatagli qualche anno addietro dal Giordano (Prohaska, 2001; Reccia, 2009, p. 266).
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