MAROTTA, Giuseppe
– Nacque a Napoli il 5 apr. 1902 da Giuseppe e da Concetta Avolio.
Il padre, avvocato, appartenente a una buona famiglia di Avellino, aveva sposato la madre del M., una semplice sartina, in seconde nozze e da lei aveva avuto tre figli: oltre al M., secondogenito, le due figlie Maria e Ada; morì nel febbraio 1911 lasciando la famiglia nella miseria.
Il M., malato di tubercolosi ossea dalla prima infanzia ai diciassette anni, visse dunque la vita della Napoli povera dei «quartieri» e dei bassi; frequentò la scuola, l’istituto tecnico Flavio Gioia, fino al 1917, poi si impiegò come letturista dei contatori presso la Società del gas. Fin dall’adolescenza dimostrò un vivo interesse per la letteratura, la poesia in special modo, e la musica, leggendo e studiando come e quando gli era possibile.
La sua formazione culturale fu quindi da autodidatta, non ebbe contatti con le contemporanee avanguardie né si definì per il tramite di interessi politici, ma si fondò piuttosto, per forza di cose e per naturale vocazione, sugli autori della tradizione meridionale – napoletana in particolare – tra Otto e Novecento: Matilde Serao (ma la Serao cronista e bozzettista più che romanziera), R. Bracco, S. Di Giacomo, F. Russo; sul teatro di V. Scarpetta, E. De Filippo, R. Viviani, recependo da alcuni il gusto della descrizione accurata di matrice verista, da altri la sensibilità malinconica affine ai crepuscolari, corretta, nel M., da un’innata ironia, da uno spiccato senso dell’umorismo, dalla vocazione al paradosso. Soprattutto, fonte di ispirazione e leitmotiv di tutta la sua futura produzione furono le fonti autoctone e orali del folclore napoletano, insieme con i caratteri salienti del genius loci: l’emotività mediterranea e la fatalistica accettazione degli eventi capitali dell’esistenza, inclusa la morte; l’irrazionalismo, il senso del fantastico e del meraviglioso e il semplice buon senso; la naturale propensione ai valori essenziali della convivenza, la paziente capacità di adattamento.
Le prime prove del M., poesie prevalentemente, apparvero, senza compenso, in alcuni giornaletti cittadini: Il Roseto (fondato a spese di un commerciante, tal G. Maestri, indotto a tanto dal M. e da altri suoi amici e pressoché immediatamente fallito), Amore illustrato, Farfalla d’amore; tra il 1923 e il 1924 gli vennero accettati su un settimanale romano, Tutto, e sul supplemento illustrato de La Tribuna, Noi e il mondo, una decina di racconti. Consapevole che a Napoli molto difficilmente si sarebbero presentate per lui occasioni adatte a soddisfarne le ambizioni, intorno al 1924 il M. aveva compiuto due viaggi «esplorativi» a Milano prendendo contatto con un giornalista meridionale, P. De Luca, direttore del periodico Veritas, che gli dette qualche speranza e gli pubblicò due poesie (Canzone d’estate, nel 1924, e L’elegia di gennaio nel febbraio 1925); infine il M., con pochissimi soldi e in compagnia di un amico ragioniere, M. Sarno, nel febbraio 1926 si trasferì nel capoluogo lombardo. Qui ottenne una collaborazione alla Mondadori, nella redazione che si occupava del settore periodici della casa editrice, con mansioni di archivista, correttore di bozze, segretario; quando, nel 1927, i periodici Mondadori passarono alla Rizzoli, il M. fu, dalla nuova proprietà, promosso redattore e assunto in pianta stabile; sempre nel 1927 sposò Pia Montecucco, originaria di Gavi e conosciuta a Milano, da cui ebbe i due figli Giuseppe e Luigi.
Gli anni di lavoro alla Rizzoli, dove passò per varie redazioni (fra le altre La Donna, Novella, Cinema illustrato), e più in generale a Milano, contribuirono in modo decisivo alla formazione del M.: conobbe i giovani C. Zavattini e G. Guareschi, di cui divenne amico, e i già affermati U. Fracchia e G.B. Angioletti, i quali «inteneriti dalla mia ignoranza e dalla mia buona volontà, mi dirozzarono un poco» – come scrisse lo stesso M. (Accrocca, p. 265) – introducendolo poi a La Fiera letteraria. Per guadagnare, continuava anche a scrivere e a pubblicare, soprattutto racconti, in giornali e riviste i più vari (nel corso della sua carriera di giornalista e scrittore collaborò con più di trenta riviste e con sei quotidiani); furono, a suo dire, «anni di galera», tuttavia importanti per la sua maturazione artistica.
Il M., autodidatta come si è detto, acquistò, nei termini obbligati del lavoro giornalistico, capacità di inquadramento e di strutturazione di materia e forma della sua scrittura; si precisò nella dimensione che gli era più propria, quella del racconto; progressivamente definì un suo stile e chiarì gli elementi basilari della sua ispirazione, fondata su una commistione di umorismo e melanconia, su interessi prevalentemente autobiografici ma pure su divagazioni fantasiose e a volte fantastiche, oltreché sull’acuta e scanzonata osservazione della realtà.
Frutto di questa prima fase lavorativa furono i due volumi Tutto a me (Milano 1932) e Divorziamo per piacere? (ibid. 1934) costruiti in parte – come molta della produzione successiva – su pezzi già pubblicati, divertissements a sfondo autobiografico, per certi versi catalogabili ancora come letteratura di evasione, i quali ottennero, comunque, quel successo di pubblico che, anche in futuro, quasi mai venne meno.
Nel 1934 il M., chiuso il rapporto di lavoro con la Rizzoli (da allora, anche per una sua naturale vocazione all’indipendenza, rimase per tutta la vita free lance), proseguì e intensificò la pubblicazione di articoli e rubriche, in particolare su due dei più importanti settimanali umoristici italiani: Bertoldo e Guerin meschino; si avvicinò poi al mondo del cinema, come soggettista, sceneggiatore e critico e, nel 1938, anche per seguire meglio questo nuovo indirizzo della sua attività, si trasferì a Roma. Ottenuta, nel 1941, una prima collaborazione fissa con un quotidiano di prestigio, La Stampa, l’anno successivo, chiamatovi da A. Borelli, passò alla terza pagina del Corriere della sera.
Come egli stesso scrisse, «la mia salvezza fu l’elzeviro» (Accrocca, p. 265): in effetti il potersi dedicare, principalmente se non esclusivamente, a questa forma giornalistica che si strutturava come una sorta di libera divagazione o anche di breve racconto gli dette modo di dedicarsi alla letteratura nella forma che più gli era congeniale.
Nel giro di pochi anni pubblicò cinque volumi: Questa volta mi sposo (Milano 1940), Mezzo miliardo (ibid. 1940), La scure d’argento (ibid. 1943), Il leone sgombera (ibid. 1944) e Nulla sul serio (ibid. 1946).
Sono raccolte di racconti e romanzi, in cui, accanto agli abituali temi autobiografici, si ripropone in alcuni la vecchia struttura narrativa ottocentesca, magari con allusioni anticapitalistiche e affermazioni di un blando socialismo di tipo umanitario (Mezzo miliardo) – anche se il M. non si schierò mai apertamente per alcuna formazione politica e si potrebbe anzi dire che mai di politica si interessò veramente –; altri sono impostati su una scrittura di tipo parodistico (La scure d’argento, che si rifà ai romanzi di E. Salgari) o su temi classici del teatro e del cinema «leggeri». Dove però il M. dà prova di un sottile umorismo all’«inglese» – e infatti furono fatti i nomi di J.K. Jerome e di P.G. Wodehouse –, basato piuttosto sull’ironico e sorridente distacco dell’autore dai suoi personaggi e dalle situazioni che non sulla comicità immediata della farsa. E dove appaiono evidenti la facilità e il gusto del narrare, la fervida immaginazione e soprattutto la definizione di uno stile ricco, superlativo, molto lavorato, tendenzialmente «barocco».
Nel 1943 il M., rimasto a Roma, dove era impegnato presso la redazione di Film, diretto da M. Doletti, in cui curava anche una rubrica di posta con i lettori, «Strettamente confidenziale», firmandosi come «l’Innominato», vi pubblicò, dopo il 25 luglio, precisamente il 27, un articolo in cui si rivolgeva in termini affettuosi alla «signora Libertà», alfine ritrovata; di conseguenza, dopo l’avvento della Repubblica sociale italiana (RSI), venne radiato dall’Albo dei giornalisti e, in pratica, dovette nascondersi fino alla liberazione della città, quando riprese a lavorare dapprima come vicedirettore di Bis, rivista presto fallita, e quindi al Corriere.
Intanto, nel 1947 a Milano, era uscito L’oro di Napoli – il titolo felicissimo, poi divenuto quasi proverbiale, non fu trovato né dal M. né dall’editore Bompiani che lo pubblicò, bensì dal giornalista F. Piazzi e allude al dono, proprio alla città e ai suoi abitanti, di una superiore, intelligente, inesauribile pazienza –, libro destinato a dargli notorietà nazionale e i primi riconoscimenti della critica, anche se i suoi rapporti con quest’ultima non furono mai buoni: «La critica? In generale mi tiene il broncio, come se io l’avessi, in qualche indimenticabile modo, offesa» (Accrocca, p. 266).
Sempre il M. nella prefazione precisò: «nella vita di ogni uomo di penna […] arriva sempre il momento […] in cui la sua materia decide di somigliargli, rivelandosi esclusivamente composta di fatti e di volti che gli appartennero o che lo sfiorarono» (p. 15, ed. Milano 2006); in effetti l’autobiografia e Napoli già negli anni precedenti avevano costituito una costante, anche se non esclusiva, materia del suo narrare; ora raccolse in volume 36 elzeviri apparsi nel Corriere della sera, tutti incentrati su questi due temi, in cui il personaggio M. introiettava in episodi della sua personale esistenza paesaggi, eventi, caratteri della città, per celarsi poi, come singolo individuo, all’interno di una corale epifania di Napoli e dei suoi tanti personaggi. Quella che il M. racconta, attraverso l’abituale sintesi di umorismo e malinconia, in uno stile che utilizza abbondantemente l’analogia, il traslato e la metafora nel probabile intento di rendere in italiano la ricchezza semantica e inventiva della «lingua» napoletana (il M. utilizzò il dialetto quasi esclusivamente come autore di canzoni), è la «sua» Napoli, come lui la sentiva, e quindi diversa e lontana dalla pur ricca produzione di molti altri scrittori «napoletani» della generazione successiva (quali D. Rea, Anna Maria Ortese, R. La Capria): non come oggetto di denuncia sociale, come distaccato ritratto antropologico, come rivisitazione onirica e neppure come forma di autocoscienza, ma come esercizio di memoria, attraverso la consapevole lente del ricordo. Come scrisse di lui E. Falqui, «Senza essere nostalgico del passato né fanatico del presente, questo strano Novecentista, imparentato coi De Amicis e con le Serao, va in sollucchero sempre che gli capiti a tiro una natura morta di sgargiante tradizione napoletana secentesca […]. Ed è un fatto che alle tante Napoli anche illustri, di cui già disponevamo, adesso tocca aggiungere la sua» (p. 179). Nel 1954, a rendere ancora più vasta la notorietà delle figure rivisitate dal M. (il guappo prepotente, la bella «pizzaiola», il venditore di saggezza, l’accanito giocatore), contribuì un film, di grande successo, tratto dal libro, con la sceneggiatura del M. di C. Zavattini e di V. De Sica, regista De Sica.
L’oro di Napoli, che ottenne il premio Paraggi ex aequo con T. Landolfi, inaugurò, nell’abbondante narrativa del M., un filone specificamente indirizzato all’ambito partenopeo.
Oltre a San Gennaro non dice mai no (Milano 1948) bisogna ricordare almeno Gli alunni del sole (ibid. 1952) in cui elementi della mitologia classica, che tanta parte hanno nel complesso tessuto della cultura e anche della sensibilità meridionali, vengono fusi con umori picareschi, trovate, personaggi che appartengono invece alla vita quotidiana dei «vichi» e dei bassi; e Gli alunni del tempo (ibid. 1960) che ripropone questo medesimo meccanismo di assorbimento e identificazione nella realtà cittadina, legandolo però a fatti di cronaca e ai mutamenti del costume indotti dalla modernità, in un gioco che, in questo caso, tende a farsi meccanico.
Un altro filone è costituito dai volumi dedicati, nella stessa chiave tra autobiografica e descrittiva, a Milano, la seconda patria del M. «emigrante» (A Milano non fa freddo, ibid. 1949; Mal di galleria, ibid. 1958; Le milanesi, ibid. 1962). E ancora: la serie degli «scherzi», in cui viene accentuato il carattere surreale e paradossale dello stile del M. (Pietre e nuvole, ibid. 1950; I dialoghi, ibid. 1951; Cavallucci di carta, ibid. 1955); l’effusione sentimentale di Le madri (ibid. 1952), una raccolta di exempla sull’amore materno; i dialoghi con la morte così cari al «senso dell’eterno» che alberga nell’animo meridionale di Salute a noi (ibid. 1955).
Evidentemente, in tutta questa produzione, così legata alle contingenze dell’attività giornalistica, erano inevitabili i rischi della ripetitività, del macchiettismo, del «colore» fine a se stesso, da cui spesso il M. seppe salvarsi grazie alla fondamentale sincerità dell’ispirazione e alle doti di «inesauribile improvvisatore di battute, spunti polemici bizzarri […] infinito monologhista» (Diz. della letteratura italiana contemporanea [Vallecchi], Firenze 1973, s.v., p. 468).
Il M., in parte per necessità obiettive e contingenti, in parte per vocazione, fu un poligrafo estremamente prolifico; necessitano di menzione almeno altre due «sezioni» della sua produzione: i lavori teatrali e la critica cinematografica.
Nel teatro, così come nella narrativa, motivo e sostanza della scrittura del M. è la descrizione, in chiave di commedia – e quindi animata dall’abituale vivace umorismo pieno di inventiva – ma sostanzialmente realistica, della società meridionale, tant’è che alcune delle otto pièces realizzate fra il 1946 e il 1961 – con l’aiuto di un autore teatrale «di professione» come Belisario Randone e di cui sei rappresentate – si riferiscono a precedenti racconti.
La tematica è quella abituale del M. e il prodotto si può inserire nel più ampio fenomeno – da osservarsi, precedentemente, anche in personalità di ben maggior livello come G. Verga e L. Pirandello – dell’assorbimento della grande tradizione del teatro popolare meridionale nell’alveo nazionale. Le commedie del M. sono costruite tradizionalmente in chiave di carattere, e interprete ideale delle due migliori – Il califfo Esposito (Napoli, teatro Mediterraneo, 20 genn. 1956) e Bello di papà (Milano, teatro Manzoni, 22 ott. 1957) – fu appunto un attore di «carattere» come Nino Taranto; la seconda soprattutto, nell’esame attento e partecipato di un difficile rapporto padre-figlio o, meglio ancora, «della natura segreta della paternità», tocca con delicatezza, ma in profondità, uno dei valori fondativi, e quindi denso di significato, della società meridionale. Nello specifico, ma anche con più generale riferimento al M. scrittore di teatro: «A questo garbato “teatro d’uso”, munito di satira e di sorriso, non mancano sensibili e acute verità» (Pandolfi, p. 135).
Al cinema il M. si dedicò come soggettista e sceneggiatore con undici film fra il 1942 (Soltanto un bacio, regia di G.C. Simonelli) e il 1954, quando oltre a L’oro di Napoli, partecipò a Tempi nostri di A. Blasetti (sceneggiatura per l’episodio tratto dal suo racconto Don Corradino) e a Questi fantasmi, regia di E. De Filippo; ma soprattutto fin dalla fine degli anni Trenta, e poi in particolare nel dopoguerra con una fortunata rubrica su L’Europeo, fu un apprezzato critico. Raccolse i suoi articoli in tre volumi: Questo buffo cinema (Milano 1956), Marotta ciak (ibid. 1958) per cui fu insignito del premio Viareggio, Facce dispari (ibid. 1963).
Naturalmente anche nell’esercizio della critica cinematografica il M. si mosse secondo sue particolari modalità: si trattava in effetti di una sorta di «racconto-critica» in cui egli, esponendo la trama del film, attraverso notazioni, divagazioni, battute, esprimeva in definitiva un giudizio fondato essenzialmente sul suo distaccato e ironico buon senso, dimostrando in linea di massima una notevole finezza critica senza alcuna paura delle stroncature. Trattandosi, tuttavia, di giudizi fondati eminentemente sulla sensibilità personale, talvolta il M. non arrivò a capire autori significativi ma distanti dal suo sentire (per esempio M. Antonioni), o generi che gli sembravano da ascrivere al b-movie (come la fantascienza); seppe apprezzare, invece, il valore del grande «artigianato» registico comprendendo, in anticipo sui tempi, come, anche più del cinema d’autore, questo fosse base e sostanza di una cinematografia «sana». Sempre, anche nel caso di un lavoro in certo modo di routine, curò la scrittura tanto che E. Cecchi scrisse al riguardo: «È soggetto di vera meraviglia che come sottoprodotto cinematografico si possa contare su una prosa di tal calibro» (in Paladino, p. 454).
Il M. fu anche un appassionato autore di testi per canzoni, questi quasi tutti in dialetto.
Trasferitosi con la famiglia nei primi anni Cinquanta a Napoli, vi morì il 12 ott. 1963.
Fonti e Bibl.: Un’accurata ed esaustiva bibl. del M. e su di lui in S. Maffei, Sogni, delusioni e sconfitte nelle lettere inedite di G. Marotta, Napoli 2004. Vedi inoltre: G. Ravegnani, Uomini visti, II, Milano 1955, ad ind.; V. Pandolfi, Teatro italiano contemporaneo, Milano 1959, ad ind.; E.F. Accrocca, Ritratti su misura di scrittori italiani, Venezia 1960, ad ind.; E. Falqui, Novecento letterario: serie terza, Firenze 1961, ad ind.; R. Frattarolo, Notizie per una letteratura, Bergamo 1961, ad ind.; S. Torresani, Il teatro italiano degli ultimi vent’anni (1945-1965), Cremona 1965, ad ind.; G. Barberi Squarotti, La narrativa italiana del dopoguerra, Rocca San Casciano 1968, ad ind.; V. Paladino, G. M., in I contemporanei, III, Milano 1969, pp. 443-461; C. Segre, La letteratura italiana del Novecento, Roma-Bari 1996, ad ind.; P.P. Pasolini, Sette punti per una polemica, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti - S. De Laude, I-II, Milano 1999, ad ind.; G. Fofi, Introduzione, in G. Marotta, L’oro di Hollywood, Cava de’ Tirreni 2002, pp. 3-14; R. Nigro, Introduzione, in G. Marotta, L’oro di Napoli, Milano 2006, pp. 5-12.