GIULIANI, Giuseppe
Nacque il 16 luglio 1794 a Bereguardo, vicino Pavia, da Francesco e da Giuseppa Rusca. Compiuti i primi studi a Mortara, si laureò in giurisprudenza, nel 1813, nell'ateneo pavese. Per raggiungere il padre, inviato ad Ancona come intendente di finanza del Regno d'Italia, scese nelle Marche e si avviò alla professione di avvocato, dopo aver sostenuto l'apposito esame e conseguito il titolo alla corte d'appello di Ancona. Frequentò Macerata, che era ancora in quell'epoca - e lo sarebbe stata fino all'Unità - la città in tutta la regione più favorevole allo svolgimento di una professione legale, per la presenza di un'antica facoltà giuridica, per le tracce ancora fresche di una gloriosa rota, per essere sede di tribunali di ogni grado. Lì conobbe e sposò Cristina Brunelli, maceratese, e per un paio d'anni svolse anche l'ufficio gratuito di avvocato dei poveri presso il tribunale penale di prima istanza. Ricostituitosi poi lo Stato pontificio, si stabilì, sempre seguendo il padre, allontanato dal territorio dello Stato quale "impiegato straniero", a Milano, dove operò come avvocato fino al 1821 quando, morto il padre, decise di trasferirsi definitivamente a Macerata.
La considerazione di cui godeva come avvocato preparato, eloquente, colto, gli valse, nel 1826, il conferimento dell'insegnamento del diritto criminale nella facoltà giuridica dell'antico Studio maceratese. Non aveva in quel momento alcun titolo scientifico, neanche una pagina stampata: venne soltanto sottoposto a una prova, sarebbe difficile dire quanto severa.
Avvocato, professore, e in seguito legislatore, consultore e giudice, secondo un modello che era tipicamente quello del nuovo giurista penalista professionale impostosi nella prima metà del secolo, il G. si sarebbe avviato probabilmente anche sulla via dell'impegno politico, se solo avesse vissuto in un contesto diverso. Non è cosa sorprendente dunque che egli, cattolico moderato, moderatamente liberale, sia stato seppur indirettamente coinvolto in fatti cospirativi connessi alla rivoluzione del 1831, cosa che sarebbe parsa impensabile a chi lo avesse conosciuto venti anni dopo. Vicino, allora, a F. Puccinotti, medico legale nella facoltà giuridica che aveva collaborato alla formazione del Comitato provvisorio di governo costituitosi a Macerata nel febbraio 1831, ospitò in casa sua una riunione di liberali, che, per di più, consideravano quel comitato eccessivamente moderato. Questo coinvolgimento gli costò una non breve quarantena, a cominciare dall'esclusione dal novero dei giudici del tribunale d'appello, cui pur lo aveva designato, in qualità di supplente, il segretario di Stato T. Bernetti: "è dubbia la sua condotta politica", aveva osservato il delegato apostolico L. Ciacchi, rimandando indietro il biglietto di nomina (Arch. di Stato di Macerata, Polizia pontificia, 1831).
Negli anni che seguirono il G. consolidò la sua fama di avvocato principe, conseguendo tra l'altro, nel 1836, l'importante incarico di difensore dei rei presso il tribunale di appellazione per le Marche, che aveva sede a Macerata. Furono però, soprattutto, gli anni in cui pubblicò la sua opera più importante, le Istituzioni di diritto criminale, articolate in quattro volumi più un Indice, che uscirono a Macerata, uno all'anno, dal 1833 al 1837.
L'opera è ben fatta. Scritta con chiarezza, ordine e metodo, si colloca deliberatamente nel solco delle correnti culturali che, tra Milano, la Toscana e Napoli, stavano costruendo la grande penalistica del secolo XIX, dopo averne gettato le basi. C. Beccaria, G.D. Romagnosi, L. Cremani, e soprattutto G. Carmignani sono i suoi punti di riferimento. Un'opera che si impone su scala italiana, e che non resta chiusa dentro i confini dello Stato pontificio, come era avvenuto fino ad allora per tutta la tenue e scolastica elaborazione del penale che tra Roma, Bologna, Perugia e Macerata si era pur venuta facendo da parte di uomini come R. Ala, C. Contoli, L. Armaroli o G. Pagnoncelli.
La pubblicazione delle Istituzioni e l'accoglienza che ottennero, posero il G. nel numero non grande dei penalisti italiani di indubbio rilievo, e gli consentirono prima contatti epistolari, poi l'avvio di una non superficiale amicizia con alcuni grandi del suo tempo, dal Romagnosi (che sarebbe scomparso di lì a poco) al Carmignani, dal Cremani a F. Mori, fino a C.J.A. Mittermaier. Inoltre, lo sforzo che egli fece di innestare nel discorso istituzionale un commento descrittivo ma anche critico del Regolamento sui delitti e sulle pene e di quello di Procedura criminale, recente frutto della codificazione gregoriana, lo accreditò senz'altro come il massimo penalista dello Stato.
Il salto di notorietà e di considerazione conseguito nella seconda metà degli anni Trenta gli aprì spazi a Roma, nell'attività mai interrotta di riesame della legislazione penale e processuale penale dello Stato pontificio. Intorno al 1838 si erano intensificate le attività di ricerca e sperimentazione intese alla correzione o addirittura al rifacimento dei codici, penale e di procedura, entrati in vigore appena all'inizio del decennio. In una prima fase (non si può escludere che in qualche modo pesasse ancora su di lui la vicenda del 1831) il G. venne coinvolto in modo non ufficiale, probabilmente prima come mediatore per arrivare al Carmignani, poi, informalmente, con la richiesta di un contributo diretto nella compilazione dei progetti. Crebbe così la generale considerazione della sua qualità di giurista e di uomo insieme moderato e deciso: continuista - per così dire - rispetto ai fondamenti politici del sistema penale pontificio, ma decisamente riformista quanto ai principî penali e processuali che avrebbero dovuto tradurre quei fondamenti in un sistema legislativo adeguato, moderno ed efficace.
Dopo l'uscita della seconda edizione delle Istituzioni di diritto criminale (Macerata 1840-41), integrata, aggiustata nel taglio, nell'ispirazione dogmatica e nell'orientamento, il G. pubblicò diversi saggi a forte contenuto tecnico, sulla giustizia militare, sulla certezza delle prove, sulle garanzie processuali, sulla complicità.
L'avvento di Pio IX (1846) trovò il G. in totale sintonia con la nuova fase politica. Uomo d'ordine, moderatamente liberale, convinto della necessità di rinnovare e aggiornare il sistema penale dello Stato, assertore di una prudente modernizzazione, egli rappresentava inevitabilmente l'uomo di riferimento per l'ormai necessaria riforma della legislazione penale nello Stato pontificio. La critica prudente ma costante, puntuale e attenta, rivolta alle parti difettose dei regolamenti gregoriani, l'orientamento politico progressivamente aggiustato e corretto lungo le linee di un equilibrato eclettismo lo candidarono naturalmente alla guida della nuova codificazione.
Chiamato a Roma da Pio IX nel novembre 1846 e inserito in una Commissione di giureconsulti per la riforma del regolamento penale e di procedura criminale, ne divenne rapidamente guida e motore, fino ad assumere praticamente su di sé l'intero lavoro di progettazione: quasi tre anni spesi senza risparmio "nella brigosa redazione dei progetti di leggi criminali, la quale era a me totalmente affidata. Ciò avvenne dal novembre 1846 al luglio 1847, e dal dicembre 1847 all'aprile 1848" (Arch. di Stato di Macerata, lettera al presidente del tribunale di Macerata, 1849).
Fu il lavoro di progettazione di un nuovo codice penale a impegnarlo di più e a recare principalmente la sua impronta. Un nuovo codice penale, scrisse al Mittermaier, "nel quale si è procurato di ridurre la legislazione ai veri princìpi filosofici del gius pubblico".
Non si può dire che il Progetto di codice penale del 1847 ponesse senz'altro il sistema punitivo dello Stato pontificio allo stesso livello dei sistemi vigenti in alcuni altri Stati italiani. Infatti il G. se ne distanziava, ben sapendo come la qualità costituzionale dello Stato pontificio gli ponesse limiti insormontabili: uno Stato assoluto, con alla testa un monarca dalle prerogative illimitate, per il quale valeva senza residui il principio del quod principi placuit; uno Stato confessionale nel quale i poteri non erano separati, essendo naturale che il papa li riassumesse tutti, per la sua qualità di solo legislatore, primo governante, supremo giudice. Lo sforzo del G. è dunque quello di modernizzare restando dentro questo ambito. La monarchia assoluta si può costituzionalizzare (e lo statuto verrà di lì a pochi mesi), il confessionalismo può essere attenuato, il novero dei peccati-reato ridotto, il privilegio del clero circoscritto; molti principî possono essere accolti, perché compatibili con l'assetto costituzionale dello Stato pontificio, alla sola condizione di una "astensione" del sovrano dall'esercizio di prerogative che continuerebbero a essergli riconosciute in astratto: sono l'unicità del soggetto di diritto, il principio di legalità con i connessi divieti di retroattività e di analogia, il diritto alla difesa e all'appello, la pubblicità dei processi, l'attenuazione - e talora il bilanciamento - delle prerogative inquisitorie, il principio di adequazione della pena, una scala penale razionale, la non eterointegrabilità del codice, giudici laici, preparati e pagati meglio, una legge di polizia che riporti l'arbitrio entro i limiti di una regolata discrezionalità. In più, si possono introdurre elementi tecnici che rendano il codice robusto, di malagevole aggiramento e manipolazione difficile. Perché il G. è convinto che il primo riparo di una buona giustizia sta proprio nella accurata qualità tecnica delle norme.
Nessuna di queste riforme sarebbe giunta in porto. Così come non sarebbero giunte in porto quelle che al G. vennero espressamente affidate dal sovrano. Circa le sue vicende biografiche, era lui stesso a compendiarle in una lettera al Mittermaier del 9 nov. 1850:
"Io rimasi in Roma fin quasi la metà di luglio del 1847, ed in tal circostanza la Commissione legislativa a cui appartenevo riuscì a compiere il Codice penale, la cui redazione venne tutta affidata a me. Partendo poi in quell'epoca da Roma con permesso del Santo Padre, piacque a questo Sovrano d'incaricarmi della redazione di un Regolamento di polizia, raccomandandomi che procurassi di compierlo per l'epoca del mio ritorno a Roma, che doveva seguire sul cadere dell'autunno, e mi riuscì grazie al cielo di adempiere ad un tale mandato. Tornato a Roma nel dicembre del 1847 e rimastovi fino all'aprile 1848, compii con l'aiuto dei miei colleghi il Codice di procedura criminale, e quindi me ne tornai in Patria; ma venni ben tosto richiamato nella nuova qualifica di Consigliere di Stato, cosicché mi convenne di tornare colà sul cadere di giugno e rimanervi fino a mezzo agosto, epoca in cui per motivi di salute tanto miei tanto di mia moglie dovetti rimpatriare, e quindi avanzare la mia rinuncia alla carica di Consigliere di Stato, umiliandola al Santo Padre, il quale nel degnarsi di accettarla volle nominarmi giudice in questo Tribunale di Appello. Così la provvidenza di Dio mi salvò dal grave dolore di trovarmi nella Dominante nelle luttuose epoche dell'assassinio del Rossi e dell'assalto dato al Sommo Pontefice nel suo Palazzo, nonché della fuga del Papa, con tutto quello che di disordine la seguì".
L'inizio della sua nuova attività di giudice coincise con la breve fase costituente e poi repubblicana del nuovo Stato romano, rispetto al quale il G. restò perfettamente defilato, scrivendo e sottoscrivendo, con corretta acquiescenza istituzionale, le sentenze che il tribunale di appello emetteva "in nome di Dio e del Popolo" e che notificava "in nome della Repubblica Romana". Tramontata quell'epoca, mentre continuava a far parte del tribunale di appellazione per le Marche, assunse nel 1852 la guida della facoltà giuridica e riprese il lavoro scientifico, pubblicando nel 1856, sempre a Macerata, la terza edizione in due volumi delle Istituzioni di diritto criminale, molto rimaneggiata, ampliata, migliorata nello stile, nonché cresciuta in autorevolezza, essendone l'esposizione molto più sicura, risoluta e spedita rispetto alle due edizioni precedenti.
C'è un'intenzione politica in questo rimettere le mani nella sua opera maggiore. Già nella Prefazione il G. addita i pericoli che verrebbero dal "pretto Razionalismo", dal "Lamennismo", e dalla "detestabile scuola chiamata ateismo del diritto", derivata dal Trattato della legislazione di J. Bentham, da cui "l'anima candida del Romagnosi fu scossa" fino a rendere imperfetta la sua idea di giustizia. Del Romagnosi, però, il G. salva la teoria della "spinta criminosa", associandola col principio della "adequazione delle pene". È questo il nucleo forte della nuova impostazione: una teoria della pena coniugata strettamente alla sua funzione dissuasiva, ma dentro il temperamento della proporzione con il fatto, le circostanze, il grado della colpevolezza. Vengono così praticamente riscritte o interamente aggiunte le parti che riguardano l'idea di giustizia, il diritto di punire, la quantità del delitto; quelle che affrontano l'origine, l'essenza e i caratteri della pena; quella dedicata al "magistero preventivo, ossia alla prevenzione dei delitti conseguibile con mezzi non dolorosi".
Nel 1855 il G. attuò a Roma l'estremo tentativo di rinnovare la legislazione penale portandolo a termine nel 1857, con la compilazione di un Progetto di codice penale in riforma del regolamento sui delitti e sulle pene del 1831 (che appare, per tecnica normativa e per grado di innovazione, ben più arretrato del progetto del 1847, col quale si era pur misurato) e di un Editto sulla riforma dell'organico e della procedura criminale. Il nuovo codice penale che veniva proposto non si discostava poi tanto dal regolamento gregoriano emanato nel 1831, e tuttavia la strada per arrivarci dovette essere stata tortuosa e frustrante come il G. temeva, così come deludente e scoraggiante ne sarà ancora una volta l'esito.
Tornato a Macerata, il G. riprese la sua ordinaria attività dando però la prevalenza agli studi. Quanto al lavoro di giudice, chiese lunghi congedi: quello di un anno ottenuto dal pontefice alla fine del 1854 durò praticamente fino al 1858. Verso la fine del 1860, poco prima dell'annessione delle Marche al Regno di Sardegna, non lo si trova più nel collegio giudicante.
In questi anni il G. conobbe una fase di radicalizzazione politica e di involuzione religiosa. Le sue convinzioni divennero francamente "papiste", nel senso pieno che l'appellativo aveva nello scontro politico di quel tempo. L'Analisi che fece seguire alla sua traduzione del libro di Albert Du Boys, Dei principj della rivoluzione francese considerati come principj generatori del socialismo e del comunismo (Macerata 1857) e la stessa idea di quella traduzione, nata da un intento politico di confutazione, stavano perfettamente nel clima di irreparabile oscurantismo dominante in quegli anni nello Stato pontificio. L'accentuato clericalismo si sposava in lui con uno zelo religioso che tingeva di bigottismo la stessa sua fede. Tuttavia dopo la nascita del Regno d'Italia il G. diede prova di una tempra straordinaria, per coerenza e dignità, comportandosi, fin dove poté, come se respingesse l'idea stessa di essere stato sottratto alla sudditanza del papa. E se non più suddito, tuttavia fedele.
Malgrado le insistenze del commissario regio L. Valerio, non si piegò a insegnare in una università divenuta italiana e regia, che si prefigurava laica. Unico tra i professori di Macerata e rara avis nell'intero panorama delle università che erano state pontificie, rifiutò il giuramento che gli si chiedeva, né prese parte al plebiscito per l'annessione, evitando dunque di coonestare, fosse pure con un voto di rifiuto, quella che probabilmente riteneva un'illegittima cerimonia tesa a mascherare un'usurpazione. Chiese e ottenne, invece, di continuare il suo lavoro di professore, giudice e legislatore, al servizio della Repubblica di San Marino: non in Italia, e per uno Stato cattolico.
Si aprì così l'ultima fase della sua vita. Il Consiglio principe della Repubblica di San Marino lo chiamò nel marzo del 1862 a svolgere le funzioni di giudice di prima istanza nel criminale, di giudice di appello per le cause civili e di precettore delle leggi per la gioventù. Gli anni di San Marino, però, non trascorsero tutti in quelle tre pur importanti occupazioni. L'11 ott. 1862 il Consiglio principe lo incaricò di rivedere il progetto di codice penale preparato nel 1859 dal penalista napoletano L. Zuppetta (che reagì con qualche scompostezza alle rilevanti modificazioni apportate dal G. alla sua bozza), per arrivare a dare alla Repubblica la sua prima legge penale moderna. Finalmente, dopo tre anni di lavoro, il G. conosceva per la prima volta la soddisfazione di vedere in vigore un codice penale approntato da lui, anche se a partire da una traccia preesistente.
Si trattava di un codice all'altezza dei tempi. Valgano, su tutte, le lodi che F. Carrara rivolse sia all'opera sia all'autore, con argomenti capaci di cogliere il senso più ampio di quell'impresa, che aveva un rilevante significato scientifico prima ancora che un valore puramente legislativo. Vi si aboliva la pena di morte, fatto di grande rilevanza simbolica allora, in area italiana, mentre nel Regno il partito abolizionista, tanto vigoroso all'indomani dell'Unità, retrocedeva zittito dall'insurrezione meridionale, appena spenta da una brutale repressione. Vi si instaurava una tripartizione dei reati (misfatti, delitti, contravvenzioni) che però non seguiva pedissequamente il difettoso modello francese, ponendo le contravvenzioni nel loro giusto ambito e distinguendo i misfatti dai delitti in ragione della quantità di colpevolezza. La recidiva vi era disciplinata secondo le peculiari convinzioni del G., "conformi al bisogno di una proporzionata repressione". Corrette le norme sulla complicità, saggio il regime della prescrizione, lodevole il tentativo di frenare, regolando il gioco delle aggravanti e delle attenuanti, l'arbitrio del giudice nella determinazione della pena.
L'attività del G. nella riforma della legislazione sammarinese non si era peraltro, né si sarebbe, limitata al codice penale. Alla fine del 1862 aveva presentato, con breve relazione, uno schema di legge sui giudizi criminali contumaciali, particolarmente ricorrenti, come ben si può capire, in una realtà come quella di San Marino; e negli anni successivi altri incarichi, piccoli e grandi, continuarono a essergli conferiti: tra questi, quello di dirigere il breve lavoro che condusse alla nascita di un succinto codice di commercio e quello, molto impegnativo, di scrivere il primo codice di procedura penale della Repubblica.
Scaturì da qui un processo solido, di stampo prettamente inquisitorio, come piaceva a lui, ma di un inquisitorio "moderato dalle regole", come da lui ci si doveva aspettare. Tuttavia il codice di procedura nacque tra grandi difficoltà, tutte riferibili alla tradizione giuridica in cui per secoli aveva vissuto la Repubblica e che aveva prodotto cultura profonda e mentalità radicata nella classe dirigente sammarinese. Il G. si batté per garantire un grado di appello e un giudizio di revisione, il divieto di reformatio in peius unito al divieto di appello per il fisco nel caso di condanna dell'imputato, una fase inquisitoria regolata e resa il più possibile certa. Non erano cose da poco, specie se si guarda alla tenace resistenza che ciascuno di questi punti incontrò nella Commissione revisionatrice istituita a San Marino per "moderare" le sue proposte. Il codice, tuttavia, divenne legge, e somigliava molto a chi lo aveva concepito e fatto nascere.
Ragioni di salute spinsero poi il G. a lasciare San Marino, ma la Repubblica gli conservò i suoi incarichi più importanti. A Pisa, dove si stabilì nell'autunno del 1865, continuò dunque a esercitare le funzioni giudiziarie (le cause gli arrivavano con la posta) e la consulenza legislativa. Ma gli restava, evidentemente, un po' di tempo per gli studi.
Sul finire degli anni Sessanta il G. diede alle stampe un nuovo saggio Sull'istituzione dei giurati (Pisa 1869), che è un aggiornamento del primo suo Discorso critico, quello del 1846, con alcune integrazioni dei vecchi argomenti e con una seconda parte dedicata alla presenza dell'istituto dei giurati nell'ordinamento giudiziario del Regno d'Italia. Insistendo nelle sue critiche, ne valorizzava alcune già avanzate da G. Pisanelli ma contestava recisamente i nuclei forti delle sue argomentazioni. La conclusione confermava una sua antica opinione: la giuria mette a rischio la giustizia, non ha nulla a che fare con la libertà, serve a confondere il fatto col diritto, ed è un albero che, rigoglioso in Inghilterra, "degenera, aduggia e rende frutti aspri e malsani" se trapiantato altrove.
Fu però nel 1874 che egli pubblicò a Pisa lo studio più impegnativo del periodo pisano. Lo intitolò La mente di Giovanni Carmignani, ma ne fece in sostanza una sorta di manifesto del proprio pensiero penalistico (e pubblicistico), mediandolo con l'esposizione e il commento di questo o quel passaggio dell'opera del maestro pisano. Uno scritto nel complesso debole, privo di limpidezza, percorso da una vena di rivendicazione dottrinale che non gli giova, e imperniato su di uno dei motivi conduttori della sua vita di scienziato: la sua vicinanza teorica e personale ai grandi maestri, che sarebbe prova del suo valore e garanzia della qualità del suo pensiero. Il saggio non ebbe molta fortuna. Nella letteratura critica sul Carmignani ottenne un posto marginale, non produsse discussioni, non fece opinione.
Il G. morì a Pisa il 7 marzo 1878.
Altri scritti del G.: Elogio di Niccola Piccinini Giannelli, Macerata 1834; Abolizione del confronto personale dei testimoni e guarentige da istituirsi a pro degli inquisiti. Progetto di legge, ibid. s.n.t. [probabilmente 1839]; Progetto di economia di giustizia sulla amministrazione del magistero penale, ibid. s.n.t. [probabilmente 1839]; Scelte orazioni criminali, raccolte da N. Casini, I-II, Loreto 1841-43; Das neue Militärstrafgesetzbuch für die päpstlischen Staaten dargestellt, in Kritische Zeitschrift für Rechtswissenschaft und Gesetzgebung des Auslandes, XV [1842], Bd. 2, II, 20, pp. 274-285; Della vera indole, ovvero dei giusti confini del giudizio di revisione. Discorso, Macerata 1843; Delle vicende a cui soggiacquero le prove ne' criminali giudizi, dall'epoca delle prime leggi scritte di Roma fino ad oggi. Dissertazione storico-critica, Loreto 1843; Della ragione legislativa degli artt. 15, 16, 193 e 194 del Regolamento penale. Discorso, Macerata 1844; Sui giurati. Discorso critico, ibid. 1846; Osservazioni sopra alcuni punti del progetto di codice di polizia, ibid. 1847; Progetto di codice di polizia preventiva e correzionale, ibid. 1847; Rapporto concernente le ragioni legislative seguite dal compilatore del Regolamento intorno al modo di procedere contro i delitti in materia di stampa, ibid. 1848; Dei caratteri di verità che col solo naturale buon senso si ravvisano nella religione cattolica. Discorso, ibid. 1859; Difese, Orazioni, Allegazioni, Memorie, in grande numero, stampate ad Ancona, Loreto, Macerata, Rimini, Roma, tra il 1835 e il 1870.
Fonti e Bibl.: Le numerose lettere del G. a C.J.A. Mittermaier sono conservate nell'Archivio della Alte Universität di Heidelberg; altre lettere si trovano nell'Archivio di Stato di Macerata, fondo Delegazione apostolica, ma il grosso del suo carteggio è sparso, ed è in corso di raccolta presso l'istituto di studi storici della facoltà di giurisprudenza dell'Università di Macerata.
Oltre a M. Sbriccoli, G. G. criminalista. Elementi per una biografia, in I Regolamenti penali di papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), a cura di S. Vinciguerra, Padova 1998, pp. CCXCII s., soltanto due sono gli scritti espressamente dedicati alla sua figura o alla sua opera: F. Tribolati, Ricordo funebre di G. G., Pisa 1878, con molte notizie biografiche; A. Manassero, Il giusnaturalismo di G. G. e il suo insegnamento nell'Università di Macerata, in Riv. penale, LXVII (1941), pp. 646-656, che però quasi nulla dice del G. e dell'opera sua. Il Tribolati fa cenno a due scritti di cui non si è però avuto riscontro: G.B. di Crollalanza, Cenni biografici del comm. avv. G. G., Borgomanero 1873; G. Cefaratti, Degli scritti del comm. avv. prof. G. G., Campobasso 1876.
Notizie sul G. si trovano in P. Pantaleoni, Istoria fedele del modo con cui seguì la rivoluzione in Macerata nel dì 17 febbr. 1831 e dell'esito che ebbe (Bibl. comunale di Macerata, ms. 960, IV, c. 5, col. 3 pr.); G. Fracassetti, Intorno al discorso critico del professore G. G. sui giurati. Osservazioni, Roma 1847 (estr. da L'Astrea, I [1847], pp. 49-52, 58-63); F. Carrara, Codice penale della Repubblica di San Marino: studi legislativi, in Opuscoli di diritto criminale, II, Lucca 1870, pp. 503-512; T. Bonacci, Considerazioni a sostegno del reclamo del prof. avv. G. G., ed in risposta alle conclusioni della procura generale, Firenze 1873; I. Fanti, De la législation pénale de la République de St Marino, Imola 1878, p. 4; D. Spadoni, L'Università di Macerata nel Risorgimento italiano, Fano 1902, p. 4; G. Arangio-Ruiz, L'Università di Macerata nell'epoca moderna (1808-1905), Macerata 1905, p. 39; G. Spadoni, Il moto rivoluzionario del 1831 nelle città e nei piccoli comuni della Delegazione di Macerata, in Le Marche nella rivoluzione del 1831, Macerata 1935, p. 183; C. Lodolini Tupputi, Ricerche sul Consiglio di Stato pontificio (1848-1849), in Arch. della Soc. romana di storia patria, XCV (1974), p. 250; M. Castracane Mombelli, Le fonti archivistiche per la storia delle codificazioni pontificie (1816-1870), in Società e storia, 1979, n. 6, pp. 856-860; I. Rosoni, Criminalità e giustizia penale nello Stato pontificio del sec. XIX. Un caso di banditismo rurale, Milano 1988, pp. 216-219; L. Fioravanti, Un codice penale tra Restaurazione e suggestioni liberali. Il Regolamento Gregoriano del 1832, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XXIII (1993), pp. 105-127 (ma con imprecisioni a proposito del G. alle pp. 110 e 127); P. Pittaro, La struttura del processo criminale gregoriano, in I Regolamenti penali di papa Gregorio XVI…, 1998, cit., pp. LXXIII-LXXXIX.