PASCALI, Giulio Cesare
PASCALI (Paschali), Giulio Cesare. – Nacque a Messina nel 1527 da Giovanni, esponente di rilievo della nobiltà cittadina.
Di alcuni esponenti della famiglia Pascali è nota l’identità: Orlando, ricordato nel 1528 come giudice della Corte dello Stradicò di Messina; Tommaso, senatore di Messina nel biennio 1535-1536; nel Sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori (Venezia 1553), allestita da Girolamo Ruscelli, risultano rime della nobildonna messinese Nicoletta Pasquale. Certa l’identità dell’unico fratello noto, Giovan Battista, il cui nome è presente nelle lista dei genovesi rifugiatisi a Ginevra nel 1578 per sfuggire alle massicce campagne di repressione condotte contro i protestanti italiani (Pascal, 1935, p. 58).
A Messina Pascali assimilò i primi rudimenti di una cultura umanistica vasta e complessa, delineata in forma enciclopedica, capace di alternare allo studio della poesia, della filosofia e della teologia, l’apprendimento di nozioni di archeologia, matematica, geometria e scienze naturali. In questo intenso periodo di formazione, durante il quale si trasferì per brevi periodi a Palermo, maturarono anche le sue idee riformate grazie alle relazioni instaurate con esponenti di punta del protestantesimo siciliano. A quegli anni risalgono i contatti con alcune personalità del circolo valdesiano di Napoli, insieme alle quali operò per la diffusione delle nuove dottrine luterane. Per tali ragioni gli strali del S. Uffizio non tardarono a colpirlo: accusato di eresia dovette fuggire a Ginevra con la prima moglie (la cui identità è ignota) nel 1554.
Degli anni trascorsi a Ginevra non si hanno molte notizie, tranne che vi stabilì un legame di stretta amicizia con Francesco Micheli, nominato di frequente gonfaloniere della Repubblica di Lucca, e soprattutto con Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, principale organizzatore di una Chiesa riformata italiana a Ginevra, al quale dedicò nel 1557 la sua prima opera a stampa, la Institutione della religion christiana di messer Giovanni Calvino in volgare italiano tradotta (Ginevra), prima traduzione in lingua italiana della Institutio christianae religionis di Calvino.
Composta entro una manciata di mesi con una prosa sobria ed elegante, la versione in volgare del trattato calviniano, sollecitata dagli esuli italiani attivi nell’ambiente ginevrino, fu condotta principalmente sul testo in lingua francese, ritenuto dall’autore più chiaro e accessibile rispetto all’originale latino (Croce, 1932, p. 388).
Morta la prima moglie, nel 1559 passò a seconde nozze con Cecilia Campagnola, una nobildonna veronese dalla quale nel giro di pochi anni ebbe quattro figli: Giovan Giacomo, Alessandro, Marcantonio e Laura.
Dal giugno 1559 si aprì per Pascali una stagione fitta di ombre e intrighi politici. Accusato di aderire alle dottrine antitrinitarie del calabrese Giovanni Valentino Gentile e di essersi legato in amicizia con il teologo francese Sébastien Castellion, acceso delatore dell’intolleranza calvinista, Pascali fu costretto a ritirarsi a Basilea, dove il 3 marzo 1560 indirizzò proprio a Calvino una risentita lettera in latino nella quale si discolpava da tutte le accuse mossegli, a suo dire, da un servitore, compiendo un’accorata professione di fede calvinista. A Basilea, vittima di una compatta schiera di calunniatori, Pascali venne accusato di paillardise e fu obbligato, nel novembre 1564, a tornare a Ginevra, dove fu escluso dal Concistoro e costretto, in un secondo momento, a lasciare la città. Nel 1566, sempre a Ginevra, divenne bersaglio di un nuovo processo causato da motivi poco chiari, a causa del quale dovette rifugiarsi nelle vicine terre sabaude fino al 1571. Grazie a una revisione sommaria del processo, Pascali poté rientrare nel 1572 a Ginevra, dove però quattro anni più tardi fu accusato di appoggiare Giacomo di Savoia duca di Nemours e di tramare ai danni della Repubblica di Ginevra. Nel 1576 il cognato Giovan Francesco Campagnola, accusato di congiura politica, fu arrestato: il processo coinvolse anche Pascali, il quale, minato da bandi e proscrizioni, si avvicinò con sempre maggiore convinzione al partito del duca di Nemours. Di sicuro Pascali ricoprì un ruolo di primo piano nell’organizzazione di un complotto progettato nel 1578 dal duca contro Ginevra che giunse a coinvolgere anche il figlio primogenito, Giovan Giacomo, al quale fu interdetto l’accesso nella città.
Nel corso di quegli anni difficili e densi di traversie l’attività di traduttore non si era comunque arrestata e nel 1582 Pascali licenziò la traduzione dal latino all’italiano di una celebre opera di matematica, il Theatrum instrumentorum et machinarum (Ginevra) di Jacques Besson, firmandone la dedicatoria all’abate d’Amborné, Claudio della Cous.
A questi eventi seguirono alcuni anni quasi del tutto privi di testimonianze. Nel 1589 perorò la causa del figlio Giovan Giacomo, accusato di aver usato violenza nei confronti di una nobildonnna locale, Jaquemod Roletta di Farges. Contemporaneamente fu coinvolto nell’azione giudiziaria nei confronti di un rifugiato calabrese a Ginevra, Battista Sapona, accusato dallo stesso Pascali di favorire le mire sulla città del duca Carlo Emanuele I di Savoia. Nello stesso anno si trasferì a Bessinges, dimora della figlia Laura, e dal febbraio 1590 iniziò a rivolgere una serie di suppliche alla Signoria di Ginevra per ottenere appoggi e sussidi finanziari.
Nel 1592 uscì a Ginevra, per i tipi di Jacopo Stoer, il volume delle versioni poetiche dei Salmi (De’ Sacri Salmi di Davide dall’Hebreo tradotti, poetica religiosissima Parafrase) dedicato a Elisabetta I d’Inghilterra, «defenditrice della fede», e corredato da una lunga nota «al lettore» occupata in gran parte da una dotta dissertazione rivolta a giustificare l’uso dell’appellativo Giova al posto di Dio.
In essa trovava luogo anche una riflessione sulla prassi seguita per la traduzione biblica; dopo aver dichiarato la necessità di adoperarsi nei volgarizzamenti dei Salmi, ancora scarsamente diffusi in Italia a fronte dell’abbondanza delle traduzioni in altre lingue straniere, Pascali celebrava un tipo di riscrittura scrupolosamente fedele al dettato biblico, caratterizzata da uno stile lineare e intellegibile, esprimendo dubbi e riserve nei confronti di quelle parafrasi poetiche che, al contrario, tendevano ad amplificare e stravolgere i significati dell’originale. Sensibile alla poetica del teologo calvinista Théodore de Beze, caratterizzata da un’idea di letteratura religiosa contraria all’uso di immagini mitologiche e di eccessi retorici, Pascali si mostra in tutto fedele alla tradizione delle versioni calvinistiche dei Salmi, accuratamente conformi alla lettera, convertendo gli inni sacri in brevi canzoni costruite con una sintassi piana e con un lessico concreto ed essenziale ricavato dal modello davidico.
Congiunto alla traduzione poetica dei Sacri Salmi di Davide apparve nello stesso anno anche un volume di Rime spirituali.
La raccolta, dedicata a Orazio Micheli, è strutturata nella forma di un esile canzoniere ordinato per generi metrici: 19 sonetti, 12 canzoni e tre componimenti in ottave. In essa si segnalano versi ispirati direttamente alle Sacre Scritture (si leggono versioni poetiche del Cantico di Zaccaria e di Simeone), oppure legati alle celebrazioni liturgiche (come una versione poetica del Padre Nostro o un’Orazione per la mattina e la sera), ma soprattutto testi di matrice strettamente devozionale, dove prevale la componente intimistica e autobiografica e l’elemento del peccato e della sofferenza individuale si concretizza in sonetti dalle tonalità gravi e severe (Rime spirituali, pp. 10 s., 29), cui si alternano rime più aperte alla speranza, segnate dalla certezza di un soccorso divino (pp. 21 s., 25 s.). Dal punto di vista formale, Pascali intende sostituire agli «affettati pii sacri concetti» propri della tradizione spirituale del petrarchismo cinquecentesco lo stile aspro e rude dei testi sacri, componendo «umili rime» (p. 7) prossime alle prove di quei poeti ginevrini (tra cui Théodore de Bèze) che polemizzarono apertamente con gli estenuati formalismi del petrarchismo ronsardiano in nome di una scrittura governata dalla semplicità del modello biblico. Nell’insieme, nella successione di testi dai toni penitenziali o di innesti di carattere drammatico (si vedano i sonetti incentrati sul dialogo e lo scontro tra la carne e lo spirito, pp. 24, 29), la lirica di Pascali intreccia gli esempi forniti dalla tradizione petrarchistica con le soluzioni stilistiche dei poeti calvinisti francesi, presentandosi come il risultato di un’attività durata probabilmente molti anni, forse occasionale ma sensibile alle novità che offriva lo scenario poetico d’Oltralpe.
In coda al volume delle rime Pascali collocò il primo canto dell’Universo, o creation di tutto il mondo, origine e progressi in quello della Chiesa del Signore, che nella prefazione ai Sacri Salmi aveva definito «Poema […] in ottava rima steso et in trentadue canti, comprendente tutta l’historia di Mosè dalla creation del mondo insino all’entrar del popolo di Dio nella terra di Chanaan, a quella promessa» (De’ Sacri Salmi, pp. n.n.). Se ne evince un progetto ambizioso, dalle ampie dimensioni, che dalla creazione del mondo cantata nel primo libro, composto tenendo a mente il precedente della Sepmaine ou Creation du monde di Guillaume de Salluste du Bartas, doveva giungere a narrare l’esodo e l’ingresso degli ebrei in Terra Santa. L’opera, cui Pascali lavorò probabilmente dal 1588 al 1596, non fu mai stampata, ma se ne conserva una versione integrale autografa in trentuno canti e con diverso titolo (un più esplicito Moseida) nella Bibliothèque nationale de France (Ital. 564) comprendente due volumi che accolgono, oltre alla stesura del poema, le annotazioni esegetiche dell’autore a chiarimento della propria parafrasi biblica e a dimostrazione della vasta e raffinata cultura teologica impiegata.
Adottando uno stile «puro, casto, grave» e rifiutando l’uso di «metafore e traslationi e favole e simili altre cose» (De’ Sacri Salmi, pp. n.n.), Pascali allestisce un poema scrupolosamente fedele al dettato scritturale, povero di digressioni e tessere descrittive (eccezion fatta per alcuni spunti naturalistici del canto I) e stretto nelle maglie di una narrazione intenzionalmente neutra e impersonale.
Pascali trascorse gli ultimi anni di vita godendo dei finanziamenti elargiti dalla Signoria di Ginevra per i servizi resi alla città; nel 1597 si trasferì alcuni mesi, per motivi d’affari, a Genova, in compagnia del figlio Marcantonio, e un anno più tardi rientrò stabilmente in Svizzera, oppresso dai debiti e da condizioni fisiche sempre più precarie.
Morì a Ginevra tra il luglio 1601 e il febbraio 1602.
Fonti e Bibl.: B. Croce, Aneddoti di storia civilie e letteraria. G.C. P., in La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia, XXX (1932), pp. 387-397; A. Pascal, La colonia messinese di Ginevra e il suo poeta G.C. Paschali, in Bollettino della Società di studi valdesi, 1934, n. 62, pp. 118-134; 1935, n. 63, pp. 36-64; 1935, n. 64, pp. 7-35; 1936, n. 65, pp. 38-73; 1936, n. 66, pp. 21-54; T.R. Castiglione, Un poeta siciliano riformato: G.C. P., in Religio. Rivista di studi religiosi, XII (1936), pp. 29-61; M. Richter, G.C. P.: attività e problemi di un poeta italiano nella Ginevra di Calvino e di Beza, in Rivista di storia e letteratura religiosa, I (1965), 2, pp. 228-257; S. Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino 1992, ad ind.; C. Leri, Sull’arpa a dieci corde. Traduzioni letterarie del Salmi (1641-1780), Firenze 1994, pp. 40-42; D. Colussi, G.C. P. traduttore dell’Institution de la religion chrétienne, in Calvin insolite. Actes du colloque de Florence… 2009, Paris 2012, pp. 45-66.