CORTESE, Giulio Cesare
Nacque a Napoli intorno al 1570 da Fabio, conservatore alle farine, e da Giuditta Borrello.
La sua biografia ha rovesci romanzeschi più intuibili che decifrabili: sia perché, in assenza di eloquenti documenti, bisogna accontentarsi dell'autobiografia letteraria dispersa per allusioni e favoleggiamenti nel corpo della produzione in prosa e in versi; sia perché segnata da silenzi che indulgono con complicità alla costruzione d'un mito, rispetto al quale lo stesso C. venne a trovarsi nella condizione paradossale di spettatore (e forse celebratore) postumo. Gli toccò infatti il privilegio di assistere alla propria "morte", e soprattutto alla sistemazione già retrospettiva della sua figura di "grande ingegno" in piccolo corpo e in breve vita, cui sorrideva l'"immortalità del merito" di essere stato iniziatore e dictator della letteratura dialettale napoletana. E il riconoscimento gli veniva autorevolmente dal Basile, suo vecchio compagno di scuola e sodale, nel cappello introduttivo alla dodicesima delle cinquanta Ode del 1627. A questa data il C. era quindi pianto per morto; tanto che l'anno appresso Mattia Basile poteva incitare ilfiglio Domenico a entrare in competizione con l'arte riconosciuta del C., trasportando in dialetto napoletano il Pastor fido: "Canta, Basile figlio,/ che singhe beneditto a braccia stese; / canta, ca sulo si, no' nc'è Cortese" (D. Basile, Pastor fido, Napoli 1628). Del resto come opera pubblicata postuma per interessamento dell'"Accademico napolitano detto lo Sviato" veniva presentata - sempre nel 1628 - la prima edizione del poemetto cortesiano Lo cerriglio 'ncantato. Eppure il poeta, che per tirare avanti esercitava la piccola usura, mentre era dichiarato morto dall'ufficialità letteraria, con stipule varie risultava vivo all'ufficiosità degli atti notarili almeno fino all'altezza del 1640. Né il C., dopo la morte presunta, ebbe più voce nella vita letteraria napoletana come autore vivente. Tacque, e se parlò fu solo per bocca (o nome) altrui.
Questo della morte presunta è l'atto penultimo (considerando ultimo quello relativo alla sopravvivenza nel "silenzio") di un'avventura biografica cominciata molto presto negli anni universitari.
Nel 1597 il C. aveva conseguito la laurea in diritto, con margini di fuoricorso colmati da un viaggio in Spagna oltre che da un trasferimento a Firenze. E in Spagna tornerà ancora nel 1599, in occasione del matrimonio di Filippo III con Margherita d'Austria, per portare - quale "antico et arnatissimo servidore dell'Alt. di Fiorenza", secondo quanto ricorderà Basile - il regalo nuziale del granduca di Toscana Ferdinando. Su queste esperienze foreste, nelle quali ebbe a consumare la meglio gioventù ("Avea già co lo tiempo e co la sciorte / iocato li meglio anne de la vita"), il C. proietterà le frustrazioni di cortigiano deluso; e le tradurrà (nel c. VII del Viaggio di Parnaso del 1621) nei modi di un favolismo popolare educatosi sulla letteratura degli apicarados congeniale alla condizione di "scasato" che non sa dove costruire il proprio "castello": "Devonca vao tento la sciorte mia / pe fare a quarche parte sto castiello, / ma chesta tene ognuno ch'è pazzia / ... / Vago a Spagna e a Sciorenza, e manco cria" / faccio, se be' ne mostro lo modiello" (vv- 36-38; 40-41). Ma ancor peggio, nel miraggio di realizzare il "castello" delle illusioni, ha barattato il magico "stoiavucco" offertogli da Apollo in Parnaso per ritrovarsi infine a Napoli privo di protezioni: Fernandez de Castro conte di Lemos, che pur gli aveva fatto precise promesse, ha lasciato Napoli nel 1616 abbandonandolo alla sua sorte; lo stesso Francisco de Castro, che ha assunto la luogotenenza della città dopo la partenza del fratello, si è scordato del Cortese. Il bilancio è sconfortante. Il poeta aveva ottenuto a Napoli qualche incarico (nel 1599 il conte di Lemos lo aveva nominato assessore di Trani per un anno; nel 1606 il viceré, conte di Benavente, lo aveva mandato a Lagonegro in veste di governatore "pro uno anno integro et deinde in antea ad beneplacitum"), senza però riuscire a migliorare le sue condizioni economiche; per cui dovrà accontentarsi di vivere con i proventi dell'usura, esercitata in società con le sorelle Isabella (vedova Vollaro) e Vittoria (clarissa del conservatorio dello Splendore), e con la riscossione di qualche pigione.
Coinvolto nella secentesca crisi di dignità della funzione del letterato borghese, il C. sperimentò le delusioni del clientelismo (in particolare presso il viceré conte di Lemos) non senza la consapevolezza politica delle deleterie conseguenze della sudditanza straniera denunciate in un sonetto pluricaudato in lingua (per le cui rime si rifece in parte all'egl. IX dell'Arcadia sannazariana) sintetizzato così nel distico conclusivo del poema Lo cerriglio 'ntantato: "È 'n crosione ognuno magna e sberna,/ che de no regno è fatta na taverna". Senonché il sonetto non venne mai dato alle stampe, restando manoscritto nel cod. Vat. Urbinate 754 (f. 23), e Lo cerriglio 'ncantato apparve "postumo" nel 1628 a Messina. Contemporaneamente a Napoli Bartolomeo Zito (attore nella maschera del pedante Graziano e scrittore di teatro per la compagnia stabile della "Stanza della Commedia vecchia", nella quale era prevalentemente impegnato nella riduzione popolare della letteratura cavalleresca) ristampava la prima opera poetica del "morto" amico C., La vaiasseide, con l'accompagnamento di un Defennemiento contra la cenzura dell'Accademmece Scatenate, di un commento e di "allegorie" premesse a ogni singolo canto ("Appresso Ottavio Beltrano 1628").
La "ristampa" è interessante per più motivi. Prima di tutto perché il testo del poemetto risulta notevolmente rifatto rispetto alle edizioni "in vita": con ritocchi formali spinti fino al rifacimento di intere ottave; e con un sistematico castigamento del linguaggio, a partire dalla cancellazione di certa scatologia rabelaisiana (il lazzo "...te 'mprommetto fare pe saluto/ no pìdeto, no sauto e no stornuto" di c. I, 3, 7-8, ricalcato sul "...se levant, fist un pet, un salut et un sublet ..." del cap. XVII del Pantagruel, diventa per esempio nel testo dello Zito "...te 'mprometto fare pe saluto/ quattro cascarde a tempo de liuto"). Inoltre, l'apologia letteraria dell'opera, non "baiata" come pretendevano gli "Accademici Scatenati" ma "poema perfetto e di maraviglioso esempio, conforme gl'insegnamenti d'Aristotele", a stento simulava il più urgente bisogno di esibire un conformismo morale e soprattutto politico che suonasse come smentita dell'oltranza accusatoria all'indirizzo del Regno-taverna. Le "annotazioni" e "dichiarazioni" dello Zito indulgevano infine al pedinamento nei versi della Vaiasseide di un romanzo biografico di ambientazione fiorentina. La Vaiasseide sarebbe infatti la risposta satirica del C. all'umiliazione subita sotto la "'ntosa" o zoccolata di una "segnorazza" della corte granducale per niente incline all'accerchiamento amoroso del poeta. Per cui le "vaiasse" o serve del poemetto sarebbero in effetti cortigiane degradate; o meglio "vaiasse" illustri.
Il prosimetro dello Zito (sul quale lo scrittore e folclorista Serafino Amabile Guastella modellerà nel 1882 il bozzetto in sestine dialettali Vestru. Scene del popolo siciliano) è nel suo complesso un'opera nuova, e comunque diversa, rispetto alla Vaiasseide pubblicata "in vita" dal Cortese. Ma il C. nel 1628 era vivo, e vivrà ancora per molti anni; tuttavia in silenzio, avallando così (indirettamente) l'operazione dello Zito attraverso la cui maschera mimava un C. più accademico, romanzesco e conformista.
Ma lo Zito non era forse la "maschera" teatrale e pedantesca ("Graziano", per l'appunto) del C., che per gioco letterario o per necessità politica continuava a recitare la propria morte? L'interrogativo implicherebbe anche l'ipotesi di un C. cortesiano: di un poeta che scrive "a muodo de lo Cortese", in quella "maniera" dialettale che è della fase post-Cortese nella quale si inserisce stupendamente il "misterioso" Felippo Sgruttendio de Scafato, autore de La tiorba a taccone (Napoli 1646): un canzoniere neobernesco in dieci corde (quante ne ha quella specie di liuto che è la "tiorba", la quale veniva fatta vibrare con un plettro di cuoio chiamato "taccone"), che "rutta" e "spetezza" l'amore per una subumana Cecca cantata in vita e in ipotesi di morte con il virtuosismo linguistico proprio della produzione dell'encomio paradossale. Se Giambattista Basile, a superare "certe freddure napoletane sciute dapò la morte de lo Cortese a la stampa", aveva preso l'"accoppatura", il fior fiore linguistico di "chelle lettere che fecero cammarata co la Vaiasseide"(ovverodi quelle epistole che in coda al poemetto il C. e il Basile si erano scambiate nella finzione di un'accademia e di un'arcadia bernesche), e aveva scritto Le Musa napolitane; anche Filippo Sgruttendio si rifà all'esperienza di quelle epistole che, composte nella maggior parte tra il 1601 e il 1604, costituivano a Napoli il momento di fondazione della letteratura dialettale secentesca. Nella corda VI della Tiorba, rivolgendosi allo Sgruttendio "gioveniello ancora", lo "Smorfia Accademeco Sdellenzato" mette il nuovo poeta in competizione con Basile (morto nel 1632) e col C.: "Tu passe Gian Alesio e lo Cortese! / Ma che dich'io? Tu haie vinto nfi a la Morte, le t'haie fatto 'mmortale a sto paiese!". Attraverso lo sdoppiamento nello "Sdentellenzato", Sgruttendio celebra se stesso come poeta "postumo" che ha vinto la morte facendosi "immortale" in vita! Solo il C. poteva vantare questo privilegio. Anche Sgruttendio era una maschera di Cortese?
Una cosa è sicura: La tiorba a taccone è un'opera in due; strutturalmente doppia. Le corde III e IV del canzoniere portano il titolo Lo calascione (strumento a due sole corde, da cui deriva per esorbitanza la "tiorba"). L'opera cresce su se stessa, per ingrossamento di un nucleo minimo che tiene alla propria autonomia consegnata a una titolazione sua. La Tiorba cresce sul Calascione per aggiunta di corde. Ed è esuberanza che ha un suo significato storico e letterario, a leggere Le Muse napolitane del Basile pubblicate postume nel 1635 e sicuramente note al C. "postumo": "Sia benedetta l'arma a li Spartane,/ ca mpesero na cetola/ perchè se nc'era aggionta n'autra corda,/ ca mo fuorze faria lo pennericolo/ lo mprimo, che ha guastato lo calascione re de li stromiente,/ co tante corde, e tante,/ c'ha perduto lo nomme, e se po dire/ "Quanto mutato, ohimè, da chillo ch'era!" (IX, 140-48). Come la Vaiasseide "postuma" aveva "guastato" la prima Vaiasseide, la Tiorba "guasta" il Calascione: i tempi sono "mutati"; la letteratura dialettale cresce su se stessa e sancisce la propria "maniera". Questa istituzionalizzazione per elefantiasi, in nome di un cambiamento storico-letterario (postcortesiano e postbasiliano), sembra riguardare ancora una volta il C. "postumo"; se si considera che nel 1621 il libraio Fabrizio De Fusco, nella premessa "A' Lettori" delle Opere burlesche in lingua napoletana del C., annoverava tra le opere del poeta ancora "a penna" Lo calascione. Né può meravigliare che il nome Felippo Sgruttendio de Scafato corrispondesse (come nel caso dello Zito) a quello di una persona effettivamente esistita: trattandosi - spiegava il Muscettola all'Aprosio, in una lettera del 16 dic. 1678 (ms. E II 4 bis, f. iv, della Bibl. univ. di Genova) - dell'anagramma di "un tal D. Giuseppe Starace D'Afflitto", soldato di mestiere e autore di "alcuni pochi sonetti, che dissero i Maledici, avergli comprati dal fu Girolamo Fontanella"; e il riferimento è allo scadentissimo canzoniere in lingua Della Musa lirica del 1636.
Non si sa se nel 1646 - data di pubblicazione del canzoniere sgruttendiano - il C. vivesse ancora; in ogni caso potrebbe anche darsi che sia stato il C. a confezionare La tiorba "regalata", "venduta" o lasciata in eredità al soldato Starace d'Afflitto in fama (non a caso) di essere "autore" di versi altrui.
Lo Zito e lo Starace d'Afflitto sono forse i corpi di comodo nei quali si è reincarnato il C. "postumo", per poter parlare oltre la "morte": oltre la conclusione di un programma letterario realizzato con piena consapevolezza critica ed estremo rigore. Nonostante la composizione di un manipolo di rime in lingua, celebrative e d'occasione (alcune inedite nel ms. Vat. Ferrajoli 487 e nel ms. Vat. Urbinate 754; altre pubblicate secondo varie opportunità: ad accompagnamento, nel 1612, della favola marittima Le avventurose disaventure del Basile; in fronte all'edizione italiana del 1614 della Celeste fisonomia di Della Porta; in lode del "canto" della sorella di Basile nel Teatro delle glorie della Signora Adriana Basile del 1623), il C. è autore esclusivamente ed orgogliosamente dialettale. Frequentava sì, insieme a Marino, l'Accademia dei Sileni e si fregiava - nelle composizioni in lingua, e fra l'altro con sospetto di abuso - del titolo di "accademico della Crusca"; ma tutto questo apparteneva all'abito di cerimonia di un borghese mancato che rimpiangeva un'ormai impossibile autonomia dell'intellettuale nello stesso tempo in cui, con malcelato desiderio di successo mondano e d'inserimento cortigiano, celebrava la "vertù lucente e bella" che al più fortunato amico Giambattista Basile aveva procurato "lo titolo di conte e cavaliere". Fu sua ambizione letteraria dare al dialetto napoletano opere che dimostrassero la congenialità del nuovo mezzo linguistico ai tre generi allora più in voga: il poema, il romanzo e la commedia. Scrisse quindi i poemetti eroicomici La vaiasseide (pubblicata nel 1612, dopo una prima stesura parziale quasi sicuramente del 1604) e Micco Passaro 'nnamorato (1619); e ancora la favola "posellepesca che un toscanese decerria favola boscareccia o pastorale", La rosa, e il romanzo Li travagliuse ammure de Ciullo e Perna pubblicati per la prima volta nelle Opere burlesche in lingua napoletana del 1621. Esaurito il programma o "quintana", al C. si presentò spontanea la necessità di una chiarificazione, su un piano di poetica, delle sue scelte artistiche; nacque così l'idea del Viaggio di Parnaso (1621), cui seguì il "postumo" poemetto Lo cerriglio 'ncantato che irrigidiva l'eroicomico cortesiano (gli smargiassi napoletani, guidati da Sarchiapane, danno l'assalto alla taverna-regno del Cerriglio) nell'amido di una storia eziologica.
L'eroicomico cortesiano nasce con La vaiasseide, come discorso antifrastico (poi radicalizzato nel "romanzo" dello Zito) che innova e stravolge la tradizione accademica dei paradossi in vernacolo. Il poemetto racconta, con sufficienza tutta borghese, l'insurrezione delle "vaiasse" o serve napoletane che vogliono sposarsi contro la volontà dei loro padroni. Ma le realistiche scene di vita popolare (le nozze, il parto, la giostra) mimano parodisticamente i "trionfi" in corte delle "sdamme sciorentine", che nell'occasione di nozze e parti contemplavano travestimenti ancillari e rappresentazioni del mondo a capinculo accanto alla pittura di scene di parto per esempio sui deschi portati in regalo. Anche il Micco Passaro 'nnammorato, sulle peripezie amorose del "guitto" Micco e della "guagnastra" Nora dentro la cornice storica della lotta al banditismo, procede sulla "parodia dei comportamenti e dei valori aristocratici" (Vazzoler). Il che non impedisce al C. un recupero alla letteratura di un folclore autentico e di un vissuto popolare.
La rosa, nei canonici cinque atti chiusi da altrettanti brevissimi cori popolarescamente sentenziosi, intrica con travestimenti e agnizioni i "drammi" amorosi di due coppie. La vicenda (complicata in conformità ai modelli dell'Aminta e del Pastor fido) è resa con grazia madrigalesca rivissuta attraverso l'esperienza dialettale e popolaresca delle "villanelle". Li travagliuse ammure de Ciullo e Perna (e il titolo sembra ricalcato su quello di un'opera postuma di Cervantes, Los trabajos de Persiles y Sigismunda del1617) è invece un romanzo in prosa assai spesso manieristica, che si riallaccia alla tradizione della letteratura bizantino-avventurosa in un riadattamento del genere a un racconto per paradossi da equivoci linguistici.
Il viaggio di Parnaso, nei modi tropologici tipici dell'invenzione del Caporali, si apre con il riconoscimento ufficiale della letteratura e si chiude con la bellissima favola autobiografica: entro questa parentesi di attualità polemica e di scottante esperienza autobiografica, è racchiuso il divertentissimo regno d'Apollo con i suoi fantastici giardini, con i banchetti attorno ai quali si discorre per argute freddure, coi "comizi" sulle corna dietro l'esempio de Il mirabile cornucopia consolatorio di Tommaso Garzoni. In essa conta soprattutto l'impegno di poetica a favore di una liberalizzazione linguistica della poesia ("è de laude mmerdevole lo scrivere d'una lengua comme de n'autra"), che giustificasse naturalisticamente la scelta dialettale. Entrato in Parnaso, il C. dopo il "benvenuto" di Apollo è investito da un'ondata di protesta da parte di tanti poeti che si sentono offesi dall'ingresso nel mondo della poesia di un "ommo de Puorto" (uno dei più popolari quartieri di Napoli). In difesa del poeta dialettale intervengono Tasso, Cariteo, Rota, Tansillo e Sannazaro, che impersonano la tradizione letteraria napoletana. La novità dialettale non è infatti per il C. in "rottura" con la tradizione (non a caso dichiaratamente napoletana e in lingua, in un accenno di risentimento regionalistico), ma piuttosto in polemica con la svalutazione semantica di una lingua letteraria inflazionata dall'uso retorico. Come alternativa al consumo accademico della lingua, il C. propone una soluzione: l'adozione del dialetto naturalisticamente intesa come recupero della dignità espressiva attraverso le "vuce chiantute" - piene, robuste - "de la maglia vecchia". Proprio in questo riaggancio alla tradizione, entro la quale è conquistata l'autorizzazione alla deviazione linguistica, è evidente il moderatismo della poetica dialettale del C.: "Chillo che bò de Febo essere ammico / non esca niente da lo stile antico" (VI, 30, 7-8). A difendere il poeta dialettale dalla furia dei poeti "matricolati" intervengono pure Berni e Caporali. Al di là della finzione poetica, il C. ha inteso evidenziare la sua filiazione dalla letteratura bernesca (peraltro di livello "dialettale" in ambito toscano) che aveva minato l'impostazione prevalentemente morale, eroica ed idealizzante in senso aulico della civiltà precedente.
Fonti e Bibl.: Accenna alle "amenissime e giocose compositioni" cortesiane N. Villani, in Ragionamento dello academico Aldeano sopra la poesia giocosa de' Greci, de' Latini e de' Toscani, Venezia 1634, p. 76. Cita più volte la Tiorba, con ammirazione, F. Redi nel Bacco in Toscana (pp. 44, 97 e 98 dell'ed. Venezia 1742). G. Gravina elogiava La rosa, perché in essa il C. aveva saputo "rendere al vivo" i "caratteri contadineschi" (Della ragion poetica, lib. II, cap. XXII, p. 318 degli Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Bari 1973). Al C. dedicò particolare attenzione F. Galiani, in Del dialetto napoletano (cfr. le ediz. a cura di F. Nicolini, Napoli 1923, e di E. Malato, Roma 1970: entrambi importanti per le note sul Cortese). E v. anche G. Ferrari, De la littérature populaire en Italie, in Revue des Deux Mondes, XXI (1840), pp. 509-11. Notizie di repertorio in: J. G. Th. Graesse, Trésor de livres rares et précieux, Paris 1861, II, s. v.; Nouvelle biogr. générale, Paris 1866, II, pp. 2-3; Catalogo di una scelta biblioteca da vendere, Napoli 1873, I, p. 158; G. Mery, Quadro cronologico degli scrittori in dialetto napoletano, Napoli 1879, pp. 24 s. (qui Sgruttendio è identificato con un tal Francesco Balzano, erudito e storico secondo un'ipotesi inaugurata da G. Altobelli, nelle Aggiunte all'opera del Galiani Del dialetto napoletano - pp. 190-193 dell'ed. Napoli 1789 -, e ripetuta da R. Liberatore, Sul dialetto napoletano, in Annali civici del Regno di Napoli, XIV[1837] e da V. De Ritis, Vocabolario napol. lessicografico e storico, Napoli 1845-1851, da G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori ital., Milano 1848-1851, III, p. 64, e da P. Balzano, Di Filippo Sgruttendio e delle sue poesie, in Antologia contemp., 1856, I, pp. 32-47; fino a quando non venne definitivamente smentita da B. Martorana, Notizie biogr. e bibliogr. degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli 1874, pp. 379-86); M. Riccio, Cenno stor. delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Napoli 1879 (a proposito dell'Accademia dei Seleni); F. Nicolini, in Encicl. Italiana, s. v. Cortese e Sgruttendio. Risale al n. IX (nov. 1829) della londinese Foreign Quarterly Review, in una lunga nota anonima sull'uso dei dialetti meridionali nella letteratura italiana, l'erronea notizia di un C. "patrizio". Il primo contributo documentario alla biografia di C. si deve a L. Settembrini: Le carte della scuola di Salerno e gli autografi d'illustri napol. laureati nell'Università di Napoli, in Nuova Antologia, agosto 1874, pp. 951 s. Continuarono U. Prota Giurleo, Vecchie polemiche e nuovi documenti sul poeta dialettale G. C. C., in Nostro Tempo, VI (1957), 29, pp. 15-21 (cfr. F. Nicolini, Il poeta seicentesco C., in Il Mattino, 25 ott. 1957), e A. Altamura nell'Intr. all'ed. da lui curata della Vaiasseide (Napoli 1964). Sconvolgono le vecchie ricostruzioni biografiche, che davano morto il C. all'altezza del 1627, i documenti d'archivio rinvenuti da G. Fulco e anticipati da E. Malato nel fondamentale saggio Nuovi documenti cortese-sgruttendiani, in Filologia e critica, II (1977), pp. 417-43. Si deve al Croce il primo "ritratto" del C. nei Saggi di letter. ital. del Seicento, Bari 1962, pp. 29-36, 119-22, 133 -44 (sul Viaggio di Parnaso). Seguono: A. Ferolla, G. C. C., poeta napol. del sec. XVII, Napoli 1907; S. Nigro, Ritratto di G. C. C. (Problematica bio-bibliografica), in Annali della Fac. di lett. e filos. dell'Univ. degli studi di Bari, XVI (1973), pp. 3-71- Sulla "questione Sgruttendio" v.: E. Du Rêve (pseud. del rev. A. Martini), Un poeta dialettale del Seicento, Napoli 1912; F. Russo, Il gran C., Roma 1913 (e poi Napoli s. d., ma 1920); E. Murolo, G. C. C., in Roma, 18giugno 1938 (quindi come intr. a G. Vecchione, G. C. C. Sintesi corale del primo Seicento napoletano, Napoli 1954); E. Malato, C. e Sgruttendio, in La poesia dialettale napoletana, Napoli 1959: cappello ai vv. di Sgruttendio; C. Bernardi, Un poeta in due, in Paragone, XXI (1970), pp. 45-62; P. Fasano, La questione Sgruttendio, in Giornale storico della letter. italiana, LXXXVIII (1971), pp. 49-91; M. Rak, La tradiz. letter. popolare-dialettale napoletana tra la conquista spagnola e le rivoluzioni del 1647-48, in Storia di Napoli, IV, t. 2, Napoli 1974, pp. 573-747; E. Malato, La scopertadi un poeta: G. C. C., in Filologia e critica, II, (1977), I, pp. 35-117- Ma i documenti scoperti da Fulco hanno rimesso in discussione le varie ipotesi relative a Sgruttendio: cfr. il cit. saggio di Malato, Nuovi docum. cortese-sgruttendiani. Scelte di versi cortesiani si trovano in: E. De Mura, Poeti napoletani dal '600 a oggi, Napoli 1950; E. Malato, La poesia dialettale napoletana, Napoli 1959; C. Muscetta-P. Ferrante, Poesiadel Seicento, Torino 1964; S. Nigro, Dalla lingua al dialetto, in Il Seicento della Lett. ital. Storia e testi, a c. di C. Muscetta, Roma-Bari 1974; D. Astengo, La poesia dialettale, Torino 1976; L. Felici, Poesia ital. del Seicento, Milano 1978. A cura di E. Malato è l'ed. critica delle Operepoetiche (con in app. La tiorba a taccone), I-II, Roma 1967 (cfr. U. Dotti, su Paese sera, 9 febbr. 1969, e M. Pieri, in Lettere ital., XXIII [1971], p. 436). Su questa ed. v.: M. Petrini, La letter. dialettale napoletana del Seicento e Per un vocabolario napoletano, estr. da Riv. abruzzese, XXII (1969), rispettivamente 2-3 e 4; E. Malato, Postilla cortesiana, in Studi e problemi di critica testuale, II (1971), pp. 236-55; B. Porcelli, Alla presa con la lingua di autori napol. del Seicento, ibid., XV (1977), pp. 104-43. Il sonetto in lingua contenuto nel ms. Vat. Urbinate 754 è stato pubbl. per la prima volta da G. M. Monti: Le villanelle alla nalpoletana e l'antica lirica dialettale a Napoli, Città di Castello 1925. M. Petrini ha pubblicato le lettere "che fecero cammarata co la Vaiasseide" nel vol. Basile, Lo cunto de li cunti. Le Muse napolitane e le lettere, Roma-Bari 1976, (dello stesso Petrini cfr. Questioni di letter. dialettale napoletana del Seicento, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. Fubini, Padova 1970, pp. 501-14). Ma contro la paternità panbasiliana delle lettere v.: P. Fasano, Gli incunaboli d. letter. dialettale napol., in Letter. e critica. Studi in on. di N. Sapegno, II, Roma 1975, pp. 443-88. Sulla Vaiasseide e sul Micco Passaro v.: S.Nigro, Genesi della "Vaiasseide" di G. C. C., in Siculorum Gymnasium, XXIII(1970), pp. 129-57; F. Vazzoler, Il carnevale alla rovescia, in L'Immagine riflessa, III (1979), pp. 321-36. Sugli ispanismi nei due poemetti cfr.: G. L. Beccaria, Spagnolo e spagnoli in Italia, Torino 1968. Per lo Zito, nato a Campobasso (cfr. P. Albini, Biblioteca molisana, Campobasso 1865, p. 40), v. U. Prota Giurleo, I teatri di Napoli nel '600, Napoli 1962. Un'ampia attenzione a La rosa ha dedicato V. Viviani, non sempre attendibile, in Storia del teatro napol., Napoli 1969, pp. 129-164. Accenna a Li travagliuse ammure de Ciullo e Perna N. Jonard (Aux origines du roman. Positions et propositions, in Studi secenteschi, XVIII [1977], pp. 59-80), che però inspiegabilmente ascrive il romanzo addirittura al cantastorie G. C. Croce. Sul Viaggio di Parnaso, oltre al cit. saggio di Croce. v.: l'intr. di E. Malato all'ed. Napoli 1968 del poemetto; F. D. Maurino, Cervantes, C., Caporali, and their Journeys to Parnassus, in Modern Language Quarterly, XIX (1958), pp. 44 ss.