GIULIANO da Maiano (Giuliano di Leonardo d'Antonio)
Nacque a Maiano, sulle colline a nord di Firenze, intorno al 1432. Questa data, accettata dalla maggior parte degli studiosi, si ricava dalle portate al Catasto della famiglia.
Nei documenti catastali, dove l'indicazione degli anni dei dichiaranti è spesso approssimativa, G. è registrato a partire dal 1435, all'età di tre anni, fino al 1480 quando si dichiara quarantottenne; in altri atti intermedi la data di nascita oscilla fra il 1429 e il '32; cfr. in particolare: Fabriczy, 1903; e Quinterio, 1996, pp. 21 ss., con bibl. precedente, che sposta la nascita al 1431; nel Poligrafo Gargani (Biblioteca naz. di Firenze, 1183, c. 105), la data 1422 è un refuso. Da queste fonti si ricavano anche i nomi delle componenti femminili della famiglia, come la madre, Diana e le tre sorelle, Costanza, Angelica e Mechera, cioè Domenica, di cui null'altro sappiamo.
G. apparteneva a una delle tipiche famiglie di artigiani, tradizionalmente insediati a Maiano e nelle località circostanti, tra Settignano e Fiesole, dove si concentrano le cave di pietra di cui sono costruiti i monumenti fiorentini, e dove si formarono vere e proprie dinastie di scalpellini e intagliatori di pietra e legname, operanti in consorterie professionali. Il nonno, Antonio di Leonardo e il padre Leonardo o Nardo d'Antonio, esercitarono l'arte del legnaiuolo. Il fratello del padre, Ottaviano d'Antonio, nella prima metà del Quattrocento teneva un'avviata bottega di scalpellino e riforniva di "pietre lavorate" importanti cantieri fiorentini, in stretta collaborazione con la bottega di legnaiuolo del fratello Nardo, secondo la prassi consueta di collaborazione, scambi e divisione del lavoro, caratteristica delle botteghe fiorentine del Quattrocento (sull'"impresa fraterna" dei da Maiano e sui rapporti professionali tra i vari membri della famiglia è fondamentale il saggio di M. Haines, 1991). I tre fratelli Giovanni, Ottaviano e Leonardo, figli di Antonio di Nardo, abitavano nel "popolo" di S. Martino a Maiano, piviere di Fiesole ma podesteria di Firenze, quartiere di S. Giovanni e popolo di S. Pier Maggiore fuori delle mura (Quinterio, 1996, p. 22).
Non sappiamo quando la famiglia si inurbò a Firenze. La prima casa abitata all'interno delle mura cittadine, denunciata al Catasto del 1460, risulta comprata dal padre in via dell'Ariento, nel popolo di S. Lorenzo. Nel 1465 una nuova casa venne acquistata in via S. Gallo, nello stesso popolo; i vari membri della famiglia vi abitarono agiatamente fino alla morte (vedi Fabriczy, 1903, p. 157; Haines, 1991, pp. 139 s.). Sia G., primogenito di Leonardo sia i fratelli, Giovanni (1439-78), una figura d'artista di secondo piano, rimasta in ombra anche per la morte precoce, e Benedetto (1442-97) il celebre scultore, più giovane di dieci anni e confuso dal Vasari con il nipote (Brunetti), appresero il mestiere presso la bottega paterna. Nardo d'Antonio, "legnaiuolo fuori porta Pinti", immatricolato nell'arte dei legnaiuoli nel 1439 (Haines, 1983, p. 196 n. 50), eseguiva lavori d'intaglio d'ogni tipo, costruiva mobili, arredi e oggetti liturgici, ma anche strutture lignee, macchine o ingegni meccanici per i cantieri o per l'allestimento di spettacoli. Negli anni Quaranta del Quattrocento, Nardo in collaborazione con Ottaviano, aveva lavorato per cantieri importanti come il convento della Ss. Annunziata, il complesso di S. Lorenzo e l'Opera del duomo. È appunto in un pagamento dell'Opera di S. Maria del Fiore del 1446 che viene per la prima volta menzionato il giovanissimo G., incaricato dal padre di ritirare il denaro destinato all'acquisto del legname per la fattura del tabernacolo del Ss. Sacramento (Haines, 1991, p. 132).
Se dobbiamo prestar fede alla testimonianza della Vita che Vasari dedica a G., una biografia per altro lacunosa e romanzata in entrambe le edizioni, il padre Nardo avrebbe voluto dare al suo primogenito un'educazione tale da consentirgli di non esercitare il pesante mestiere di famiglia. Lo aveva pertanto avviato agli studi per diventare notaio, ma egli: "sebbene andò un pezzo alla scuola di grammatica, non vi ebbe mai capo, e per conseguenza non vi fece frutto nessuno; anzi fuggendosene più volte, mostrò d'avere tutto l'animo volto alla scultura, sebbene da principio si mise all'arte del legnajuolo, e diede opera al disegno" (Vasari, II, p. 468). Al di là della figura retorica dell'artista-genio-ribelle, che non può piegarsi all'arido indottrinamento ma deve seguire la sua indomita natura, e al fatto che non può essere considerato uno scultore, l'annotazione biografica di Vasari, sempre che sia veritiera, è indicativa del fatto che G. doveva possedere buoni fondamenti nella conoscenza delle discipline scolastiche di base. Conoscenze che, sommate all'apprendistato in famiglia, al tirocinio giovanile e alla fitta rete di rapporti di collaborazione con gli artisti coevi, gli permisero di emergere precocemente sulla scena artistica fiorentina del pieno Rinascimento e rendersi indipendente dalla bottega paterna, divenendo nel giro di pochi anni un solido e stimato capobottega e imprenditore, al servizio della più ambita committenza pubblica e privata di Firenze. Nella sua carriera densissima di incarichi e sistematicamente in ascesa da legnaiuolo ad architetto, G., che morì cinquantottenne, come dice Vasari (II, p. 470), da un giorno all'altro, "trasportato dal lavoro", accumulò onori, prestigio sociale e ricchezze per sé e per i suoi.
Malgrado la recente fortuna critica, giunta a colmare la scarsità di studi che aveva caratterizzato in passato il personaggio, i suoi lavori, che non sono stati ancora totalmente identificati e si caratterizzano più per i dubbi, anche stilistici, che sollevano che per le poche documentabili certezze, sono opere prestigiose e di grande respiro, che spaziano dall'arte alla tecnica, dall'architettura all'ingegneria. Nelle vesti di legnaiuolo, infatti, G. fu uno dei più grandi maestri della tarsia prospettica rinascimentale e un famoso artefice, soprattutto in collaborazione col fratello Benedetto, di eleganti e celebrati mobili intarsiati, stalli per cori, armadi, palchi e porte monumentali. In quelle di architetto, un abile imprenditore e un costruttore, ma prima ancora un interprete e diffusore del linguaggio brunelleschiano, articolato in forme più ornate, che adeguava con spirito imprenditoriale i modelli emergenti ai gusti dei diversi committenti e alle necessità ambientali (particolarmente lusinghiero è il giudizio del Geymüller, che sottolinea l'eleganza formale e la finezza disegnativa che presiede ogni opera di G. architetto; cfr. Stegmann - Geymüller, IV, pp. 6 ss.). Accanto ad altri grandi del suo tempo, da Michelozzo a Giuliano da Sangallo, suo diretto antagonista, G. fu responsabile della trasmigrazione del gusto fiorentino all'estero, in particolare nelle aree periferiche dello Stato, come il Pisano e la Lunigiana, nella Repubblica di Siena, nella Romagna e nelle Marche pontificie e soprattutto a Napoli. Come ingegnere, infine (e questa competenza, che in passato è stata del tutto trascurata, nella carriera di G. si è rivelata invece di particolare importanza, cfr. Lamberini), G. fu un tecnico stimato nella direzione dei cantieri, nell'ideazione e nell'esecuzione di ardite carpenterie, nell'affrontare problemi e dissesti statici, nella stima e taratura dei lavori, ma soprattutto, fu un ingegnere all'avanguardia nel risolvere i problemi legati all'idraulica e alla costruzione delle nuove fortificazioni.
L'ascesa professionale di G. cominciò negli anni Cinquanta: l'emancipazione dalla bottega paterna e l'avviamento di un suo proprio atelier fu in effetti alquanto precoce. Nel 1451 quando ricevette la sua prima importante commissione, G. risultava "l'intestatario degli affari della bottega di legname, già nel 1456 citata in via dei Servi" (Haines, 1991, p. 132. Sulla bottega di via dei Servi, angolo via del Castellaccio, che il primogenito possedeva e gestiva con i fratelli minori, Giovanni e Benedetto, cfr. Quinterio, 1996, p. 72 n. 14). Si tratta della fattura di un tabernacolo di legname "all'antica" che doveva contenere una Vergine dipinta da Giovanni di Ser Giovanni, detto lo Scheggia, fratello di Masaccio (Fabriczy, 1903, pp. 137 n. 2, 147; Quinterio, 1996, pp. 25 s.). Un classico esempio di collaborazione tra botteghe per un'opera d'arte destinata al corredo di nozze di un committente giovane ma importante, come il mercante di seta fiorentino Marco di Parente Parenti, il quale sposando Caterina, figlia di Alessandra Macinghi e Matteo di Simone Strozzi diveniva cognato del giovane Filippo Strozzi, futuro costruttore del palazzo e uno dei personaggi chiave nella carriera dei da Maiano. Fu infatti per l'intermediazione di questo banchiere fiorentino esiliato a Napoli, che G. entrò in contatto con l'ambiente di corte napoletano, divenendo nell'ultimo segmento della sua vita laboriosa, l'architetto ufficiale degli Aragona. Nel 1467 lo Strozzi aveva ordinato alla bottega di G. un lettuccio intarsiato, destinato a Diomede Carafa, consigliere di re Ferdinando d'Aragona, per il suo palazzo napoletano da poco costruito in stile fiorentino. Questo primo celebratissimo mobile era stato seguito da altri due, costruiti da G. e Benedetto, uno per Ferdinando stesso nel 1473 e un altro, ancora più costoso, ordinato nel 1476 dallo Strozzi per il figlio del re, Alfonso duca di Calabria (Borsook, 1970 e 1981; Donatone, 1995; Quinterio, 1996, pp. 138-146).
Sempre in giovane età, nel 1454, G. sposò la quattordicenne Maddalena, figlia di Antonio di Tommaso (Maso) Finiguerra, e quindi sorella del celebre orafo Maso (Carl, 1983), una parentela preziosa sul piano professionale. La collaborazione col cognato, che forniva a G. disegni e cartoni per le tarsie, è documentata infatti fino al 1464, quando fu interrotta dalla morte prematura dell'artista (Haines, 1983, pp. 165 ss.). Dal matrimonio con Lena nacquero negli anni Sessanta del Quattrocento tre figlie, Francesca, Ginevra e Lucrezia, oltre a un bambino morto in fasce nel 1481. Le ragazze furono provviste dal padre di doti cospicue e i loro matrimoni con artigiani fiorentini, in particolare quello della terzogenita con Lorenzo, figlio del capomastro Giovanni da Montaguto, rinforzarono gli interessi di consorteria dei da Maiano (Quinterio, 1996, p. 46).
Dal 1455 e per quasi 18 anni, G., "legnaiuolo di via dei Servi" collaborò con la bottega di pittore che Neri di Bicci aveva ereditato dal padre, Bicci di Lorenzo, fornendogli le parti lignee e lavorate di tavole, pale d'altare, cornici intagliate, candelabri, crocifissi, cassoni e reliquari: oggetti d'arredo e di devozione che venivano poi dipinti e terminati dal pittore e dalla sua bottega.
Destinate a un prospero commercio, queste opere d'arte sono ben documentate dal Libro di ricordanze tenuto dal pittore, un misto tra il registro di cassa e la cronaca domestica, che è giunto fino a noi (Santi, 1991). Dalla prima opera eseguita in collaborazione, una tavola d'altare "all'antica", commissionata dagli Spini per la loro cappella in S. Trinita a Firenze, nel 1455 (oggi alla National Gallery di Ottawa, privata però del supporto ligneo originario, dovuto a G.), fino all'ultima, consegnata nel 1472 alla pieve di Ruoti a Bucine in provincia di Arezzo, una grande pala dell'Incoronazione della Vergine, ancora oggi al suo posto con la cornice originale intagliata da G. (sulla cornice cfr. anche A. Cecchi, in La cornice fiorentina e senese. Storia e tecniche di restauro, Firenze 1992, p. 14), l'elenco dei lavori eseguiti in collaborazione dalle due botteghe fiorentine è importante soprattutto per i nomi e i ruoli dei committenti. Neri di Bicci infatti, pur essendo un pittore mediocre, intratteneva solidi rapporti professionali e di scambio con artisti dai nomi prestigiosi, da Desiderio da Settignano a Filippo Lippi; dalla sua bottega transitavano apprendisti di valore e suoi lavori erano destinati a importanti ordini religiosi, in particolare i camaldolesi, i vallombrosani e i carmelitani, e a prestigiosi esponenti della gerarchia ecclesiastica e dei diversi settori della borghesia mercantile, fino ai vertici dell'aristocrazia. Molti di questi personaggi, legati tra loro da intrecci di amicizia, di parentela o d'interesse, li troveremo in contemporanea e soprattutto negli anni Sessanta fra i committenti privati dei da Maiano. Se all'inizio Neri, più anziano di dodici anni, è infatti un assiduo cliente della bottega di G. "e frategli legnaiuoli", col nuovo decennio la situazione va gradualmente ribaltandosi: "nel 1461 Giuliano si fa aiutare da Neri e da un suo garzone per dipingere gli edifici processionali per la festa di San Giovanni e dal 1467 in poi il da Maiano figura come tramite per alcune commissioni che pervengono al pittore" (Haines, 1991, p. 132).
Negli stessi anni in cui fu impegnato con Neri, G. eseguì importanti commesse per suo conto, sempre collaborando con altre botteghe di pittori. Come quella di Alesso Baldovinetti, anche lui redattore di un Libro di ricordi (G. Poggi, I ricordi di Alesso Baldovinetti, nuovamente pubblicati e illustrati, Firenze 1909), cui fornì vari supporti per pale e cornici di tavole e con cui lavorò, insieme con il fratello Benedetto, alla decorazione della cappella del cardinale di Portogallo nella chiesa di S. Miniato al Monte. Per G. invece, Baldovinetti disegnò le figure che dovevano ornare il letto nuziale intarsiato, ordinatogli dal ventenne Piero di Daniello Alberti, nel 1463, per il suo matrimonio con Ginevra di Piero di Andrea de' Pazzi, nipote di Jacopo, uno dei principali committenti di Giuliano. Per un altro importante mecenate, Bernardo di Giovanni di Paolo Rucellai, G. eseguì nello stesso anno un pannello, preparato da Alesso e destinato al nuovo palazzo di via della Vigna Nuova (Quinterio, 1996, pp. 37-40).
Fra le opere che possono essere ascritte unicamente alla bottega fraterna di via de' Servi, documentabili a partire dagli anni Cinquanta, possiamo annoverare i lavori alla badia fiesolana, rinnovata dal mecenatismo di Cosimo de' Medici, per la quale dal 1457 G. costruì preziosi arredi in noce, come banchi e armadi per la sagrestia e la sala capitolare, porte e finestre. Il tutto fu purtroppo smembrato e perduto nell'Ottocento ai tempi della soppressione, a eccezione della porta del Capitolo rimasta in opera; due ante intarsiate, su probabile disegno di Maso Finiguerra, comprate dal Kaiser Friederich Museum nel 1894 sono oggi conservate al Kunstgewerbemuseum di Berlino; (Fabriczy, 1891; Quinterio, 1996, pp. 54-56). Un'altra serie di commesse importanti - con molta probabilità forniture d'arredo e opere di carpenteria - gli derivarono dalla potente famiglia dei Pazzi, come si ricava dalla denuncia che G., come capobottega, inoltrò agli Ufficiali dei ribelli, nel giugno 1478, all'indomani della tragica congiura, per farsi saldare i lavori eseguiti e rimasti insoluti. Questi riguardano palazzo Pazzi, poi Quaratesi, costruito da Jacopo de' Pazzi, la cappella del primo chiostro di S. Croce, per cui fu ultimato il portico negli anni Sessanta e la villa di Montughi. Oltre a imprecisati arredi e lavori di carpenteria, per questi edifici vari studiosi indicano il nome di G. anche come architetto. In particolare gli è attribuito il palazzo posto dai Pazzi all'angolo tra via del Proconsolo e Borgo degli Albizzi, caratterizzato dall'elegante bugnato in pietra forte della parte basamentale e da una fitta serie di bifore finemente ornate, con i caratteristici capitelli scanalati maianeschi, che si aprono sui due piani superiori intonacati (Moscato, 1963; e le non condivisibili obiezioni di H. Saalman, The authorship of Palazzo Pazzi, in The Art Bulletin, XLVI [1964], pp. 388-394; convincente per l'attribuzione del palazzo a G., la sua raffigurazione nella tarsia dell'Annunciazione della sagrestia delle Messe, vedi Haines, 1983 e oltre. Per l'intera vicenda della committenza dei Pazzi, cfr. Quinterio, 1996, pp. 312-330). Tradizionalmente attribuiti a G., ma senza una base documentaria, sono anche, a Firenze, due palazzi molto diversi fra loro come quello dello Strozzino in piazza Strozzi e il palazzo Boni, poi Antinori, sulla piazza omonima, in fondo alla via Tornabuoni.
Il primo, voluto da Agnolo e Carlo di messer Palla Strozzi e lasciato incompiuto da Michelozzo fino alla parte basamentale, potentemente bugnata, nel 1456 potrebbe essere stato affidato a Giuliano (il palazzo ci è giunto molto rimaneggiato e distrutto all'interno dai restauri degli anni Venti del Novecento; cfr. Fabriczy, 1904; M. Ferrara - F. Quinterio, Michelozzo di Bartolomeo, Firenze 1984, p. 368; G. Belli, Il palazzo dello Strozzino, in Michelozzo, scultore e architetto (1396-1472), a cura di G. Morolli, Firenze 1998, pp. 35-44). La costruzione del palazzo di Giovanni di Bono Boni, ipotizzata intorno al 1463-65, venne interrotta nel 1474 a causa del fallimento del banco di famiglia. La facciata principale, dal bugnato piatto, regolare e delicatissimo, riferibile alla pratica di intagliatore di G. (Trionfi Honorati, 1968), col suo austero classicismo esprime la volontà politica del committente, un ricco banchiere appartenente a una famiglia considerata ancora negli anni Sessanta come "nuova", di integrarsi fra i membri di più antico lignaggio del ceto dirigente fiorentino (Preyer).
Negli anni Sessanta fama e solidità economica della bottega dei da Maiano si affermarono con il completamento della sagrestia delle Messe nel duomo di Firenze e l'ampliamento della pieve di S. Maria Assunta, l'attuale collegiata di San Gimignano, completata dalla cappella di S. Fina. Gli intarsi lignei dei pannelli che rivestono la parete orientale della sagrestia delle Messe, i più famosi e ammirati esempi di prospettiva illusionistica rinascimentale, che, come scrisse Vasari (II, p. 469) "furono tenuti in quel tempo mirabili", coronati dalle ghirlande in legno con spiritelli e festoni, furono realizzati fra il luglio 1463 e il giugno 1468, mantenendo lo stesso schema dei rivestimenti eseguiti trent'anni prima, ai tempi del Brunelleschi. G., che usò per le tarsie della sacrestia delle Messe cartoni di Maso Finiguerra e Alesso Baldovinetti, lavorò col giovane fratello Benedetto e col vecchio socio del padre Giovanni da Gaiole (Haines, 1983). Negli stessi anni 1466-68 G. era impegnato anche nel cantiere edile della collegiata di San Gimignano, dove Benozzo Gozzoli aveva appena portato a termine il celebre ciclo d'affreschi.
La chiesa fu ampliata e sopraelevata, aggiungendo un transetto a cappelle e l'abside rettangolare; nel transetto di destra, inquadrata da un ampio elegantissimo fornice di marmo, venne ricavata la cappella di S. Fina, che nello schema ricorda quella del cardinale di Portogallo. L'urna marmorea della santa bambina fu realizzata nel 1475 da Benedetto (Quinterio, 1996, pp. 186-206. A San Gimignano, Benedetto realizzò anche, nel 1491, il monumento sepolcrale nella cappella del B. Bartolo, in S. Agostino, progettata e non realizzata dal fratello nel 1488; Id., pp. 408-417).
Sempre in quegli anni, G. rafforzò i rapporti di collaborazione con altre qualificate botteghe di legnaiuoli-architetti. Fra queste particolarmente proficuo fu il sodalizio col fiorentino Francesco di Giovanni, detto Francione, legnaiuolo e intarsiatore, che operava anche come architetto e ingegnere militare. Fu maestro dei Sangallo e dei Pontelli ed ebbe molta influenza su G., di poco più giovane. Chiamato per costruire il grande palco ligneo della crociera del duomo di Pisa, una committenza strettamente controllata dalla famiglia Medici, alla quale lavorò fra il 1462 e il 1466, Francione volle al suo fianco G. per eseguire le sedie intarsiate del coro, che secondo il contratto firmato nel febbraio 1470, dovevano essere "con fighure di prospettiva come quelle à fatto [il da Maiano] nella Sagrestia di Santa Liparata [il Duomo di Firenze] o meglio" (cit. da Supino, 1893, p. 160. L'incendio del 1595 che distrusse gran parte dell'arredo ligneo della primaziale, fu seguito da smembramenti e ricomposizioni che rendono particolarmente complicata l'attribuzione delle parti superstiti: Novello, 1989 e 1995). Nella primavera dello stesso anno, quando fu chiamato ad Arezzo da Girolamo Aleotti, abate benedettino di Ss. Flora e Lucilla, ad ampliare quel monastero, G., oramai "famoso architettore" (Fabriczy, 1903, p. 164), "menò seco" il Francione e Francesco di Domenico, detto Monciatto, un giovane socio del Gaiuole, e "aiutato da loro" produsse un modello "tanto migliore" di quello del Baccellino, precedentemente rifiutato, "che l'abate rimastone pienamente sodisfatto, volle che il detto monastero fosse inalzato in tutto secondo l'ordine di quello" (Quinterio, 1996, pp. 214-223, 492 s.). Il terzetto G., Francione, Monciatto lo ritroviamo alle prese con il rifacimento del coro ligneo posto sotto la cupola del Brunelleschi, nel duomo fiorentino; deliberato nel 1471 il progetto non fu mai eseguito (Poggi - Haines, 1988, I, pp. CCXX-CCXXV, 234-248). Alla stessa collaudata squadra di raffinati e sperimentati maestri, la Signoria fiorentina affidò il rinnovo degli appartamenti dei priori in palazzo Vecchio, un impegno civile e una sfida sul piano artistico e ingegneristico di prim'ordine.
Andavano rifatte tre grandi sale centrali: due al secondo piano, quella dell'Udienza e dei Gigli o dell'Oriuolo, e una sottostante, il salone del Consiglio o dei Dugento, al primo piano. La bottega di G. insieme con quelle di Francione, Giovanni da Gaiuole e Monciatto, affiancati per la parte decorativa dai fratelli Del Tasso, risolsero il problema con grande perizia ed eleganza. Fra il 1475 e l'81 costruirono infatti solai a travi reticolari e soffitti lignei cassettonati, dotati d'ingegnosi sistemi d'ancoraggio, incorniciati da monumentali fregi lignei scolpiti con armi ed emblemi della città, oltre alla famosa parete divisoria fra le sale del secondo piano posta "in falso", per non gravare sul palco del sottostante salone dei Dugento. Il portale marmoreo fra le due sale venne realizzato da Benedetto da Maiano, mentre le ante lignee intarsiate raffiguranti Dante e Petrarca sono opera congiunta di G. e Francione (cfr. Cecchi; Quinterio, 1996, pp. 273-284).
Assonanze stilistiche tra i cassettonati ottagoni messi in opera a palazzo Vecchio e il soffitto dello studiolo del palazzo ducale d'Urbino hanno suggerito l'attribuzione di quest'ultimo alla bottega di G., che lo avrebbe eseguito nel 1476. A G. e a Benedetto spetterebbe anche l'esecuzione delle tarsie prospettiche dello studiolo del palazzo ducale di Gubbio, costruito da Francesco di Giorgio fra il 1476 e il 1480 per lo stesso Federico da Montefeltro. Allogate dal duca nel 1477-78, sospese per le conseguenze militari della congiura dei Pazzi, le splendide tarsie lignee sarebbero state eseguite a Firenze agli inizi degli anni Ottanta e montate nel 1483. La paternità appare confermata dagli attenti studi che hanno preceduto i restauri e l'allestimento dello studiolo nel Metropolitan Museum of art di New York, nel 1996 (Raggio; Wilmering). La serie delle tarsie lignee attribuibili alla bottega dei da Maiano sarà chiusa nel 1490 dagli stalli del duomo di Perugia, conclusi, dopo la morte di G., da Francione e Domenico Del Tasso (Haines, 1991, pp. 131-142, che assegna alla bottega dei da Maiano solo una piccola parte dell'opera).
Il 2 apr. 1477, all'apice della carriera, G. fu chiamato dall'Opera di S. Maria del Fiore a ricoprire l'incarico di capomastro, un ruolo di grande prestigio che esigeva alta professionalità e solide competenze nei campi dell'architettura e delle varie branche dell'ingegneria. Mantenne la carica fino alla morte, non senza problemi e con un breve intervallo nel 1488; durante la sua direzione fu realizzato fra l'altro il rivestimento marmoreo del tamburo della cupola. Quest'ambito riconoscimento pubblico andava a coronare il salto di qualità da lui compiuto negli anni Settanta e rinforzava le connotazioni politiche di molte importanti commesse, sia in patria sia fuori. Nell'estate del 1471, G. era stato inviato dalla Signoria ai confini della Repubblica per costruire la rocca di Montepoggiolo, avamposto militare nella Romagna toscana. Il modernissimo rombo quadrilobato che mise in piedi in pochi mesi, oggi in deplorevole abbandono, è un prototipo dell'architettura militare del Rinascimento, sul piano sia ingegneristico sia estetico, e precorre le più importanti fortificazioni dell'ultimo trentennio del secolo. In Lunigiana, altro avamposto di frontiera, fra il novembre 1472 e il 1473 G. progettò il palazzo del Capitano di Sarzana, che lasciato incompiuto nel 1479, sarà in seguito pesantemente manomesso (Neri; Quinterio, 1996, pp. 237-243). A Siena, dal 1473 al 1475, costruiva nella centralissima via de' Banchi un palazzo per Ambrogio di Nanni Spannocchi, senese, tesoriere di papa Pio II Piccolomini e legato al banco strozziano di Napoli.
L'evento creò non poco scandalo in città: erano infatti fiorentini l'architetto, le forme, i materiali e le maestranze del palazzo, che col suo bugnato e i cinque grandi fornici del piano terra entrava in contrasto col tradizionalismo dell'architettura senese (Quinterio, 1996, pp. 243-258, che dà conto anche del restauro in stile dell'Ottocento). La fortuna del modello edilizio del palazzo fu a Siena immediata: nel 1474 venne costruito il palazzo di S. Galgano o del Rifugio, "quasi in quella forma che è il palazzo di Ambrogio Spannocchi" (ibid., pp. 473 ss.).
A Firenze, dal 1470 al 1478, i padri serviti della Ss. Annunziata avevano eletto G. "maestro di legname", per provvedere a vari lavori nel loro convento (Vasari, II, p. 468; e Fabriczy, 1903, p. 140). Significativamente ritroviamo il 3 genn. 1478 G. e Francione in un atto di vendita di terreni dei religiosi a Lorenzo il Magnifico, vi testimoniano che il prezzo è giusto e che l'intervento previsto dall'illustre compratore avrebbe migliorato la piazza (C. Elam, Lorenzo de' Medici and the urban development of Renaissance Florence, in Art History, I, 1978, p. 62 n. 46).
Come gli studi più recenti hanno ben messo in evidenza, a partire dai tardi anni Settanta, il rapporto fiduciario e la committenza diretta o mediata di Lorenzo de' Medici condizionarono pesantemente l'operato di G., divenuto ben presto, secondo l'espressione di Luca Pacioli, "suo grandissimo domestico". È innegabile infatti che, negli operosi anni che lo separano dalla morte, i principali impegni professionali svolti da G. fuori dei confini della Repubblica siano legati all'appoggio palese od occulto di Lorenzo, arbitro della cultura nazionale, e alle relazioni politico-diplomatiche da lui intessute con alleati e avversari degli Stati confinanti. Come altri artefici gravitanti nell'orbita del Magnifico, dai Sangallo a Francione, dai Pontelli a La Cecca, è evidente che a Faenza come a Recanati, a Loreto come a Macerata, a Urbino e infine a Napoli, alla corte di Alfonso duca di Calabria, G. impersona "non solo l'artefice che esporta all'estero l'arte della sua patria: "dov'è - secondo la felice espressione del duca d'Urbino - la fontana degli architettori", ma è soprattutto l'artista-manager, il professionista affermato e ufficialmente riconosciuto come tale in patria che, divenuto portavoce della politica, non solo artistica, di Firenze, indossa le vesti tipicamente laurenziane dell'artista-diplomatico" (Lamberini, 1991, p. 53). In tale ottica vanno letti incarichi importanti, come la costruzione del duomo di Faenza, voluto da Federico Manfredi, alleato di Firenze. Una commistione fra pianta centrale e impianto basilicale, che iniziato il 26 maggio 1474 fu portato avanti da G. con alterne vicende fino al 1481. La costruzione del palazzo per il cardinale Anton Giacomo Venieri - il cardinale Conchese - a Recanati; di questo cardinale, legato alla costruzione della basilica lauretana, sono note le lettere del 1477-78, dove ringrazia Lorenzo il Magnifico per aver permesso a G., occupato a Faenza, di recarsi a Recanati per lavorare al suo palazzo, rimasto incompiuto (secondo Quinterio, 1996, pp. 503-510, l'attribuzione a G. dei portali delle chiese di S. Domenico e S. Agostino a Recanati, sarebbe da escludere). Alla basilica della S. Casa di Loreto G., nominato dal Consiglio di Recanati "ingegnere della fabbrica", lavorò fra il 1480 e il 1490 nelle vesti di architetto militare: si deve a lui "la responsabilità della trasformazione della parte alta dell'edificio in una vera e propria fortezza", munita, per rispondere alle incursioni dei Turchi, di un elegante cammino di ronda coperto, su mensole e fregio scanalato, realizzato dopo il 1486 sotto la direzione di Baccio di Fino Pontelli (sui rapporti tra G., B. Pontelli e il Magnifico, cfr. la nota lettera da Urbino del 1481, in Gaye, pp. 274-277). A G. è attribuito anche l'arredo ligneo della sagrestia di Loreto, secondo Haines limitato ai pannelli intarsiati degli armadi, eseguiti dalla bottega sul modello largamente sfruttato della sagrestia delle Messe (Haines, 1991, p. 138).
In quegli anni le acquisite competenze ingegneristiche gli erano ampiamente riconosciute. Nel 1486, G. si recò nella basilica di S. Francesco ad Arezzo per proporre rimedi ai cedimenti statici in corso. Nel maggio dello stesso anno, mentre era impegnato nella vicina Loreto, fu chiamato ufficialmente dal Consiglio a Macerata come "ottimo e provato maestro in tale esercizio" (Gianuizzi, pp. 416 s.) per la "riparazione" del palazzo dei Legati e la costruzione della loggia dei Mercanti.
In patria, dove la presenza dominante del Magnifico condizionava ogni decisione riguardante opere pubbliche o commesse private di vasto respiro, G., forte del suo ruolo di capomastro dell'Opera del duomo, doveva pur sempre spartirsi il posto di favorito col suo più diretto antagonista: l'omonimo e più giovane legnaiuolo-architetto Giuliano da Sangallo (Giuliano Giamberti). Sono noti l'arbitrio laurenziano e la censura esercitati sul "grandissimo domestico" in vari burrascosi episodi, come nel caso dei disegni prodotti nel febbraio 1490 per completare la facciata della cattedrale, un progetto che venne bloccato dal veto di Lorenzo (Vasic Vatovec, pp. 72 s., 83). Nel 1485, l'incarico affidatogli dal Comune di Prato per progettare l'oratorio di S. Maria delle Carceri gli era stato tolto ed era stato assegnato al Sangallo (cfr. anche P. Davies, The early history of S. Maria delle Carceri in Prato, in Journal of the Society of architectural historians, LIV [1995], 3, pp. 326-335; che relativizza la censura di Lorenzo nella scelta dell'architetto e suggerisce che il disegno di G. fu abbandonato perché trasgrediva le restrizioni imposte dai Dieci di balia. A Prato G. e i fratelli avevano comprato vari terreni agricoli e vi avevano eretto un tabernacolo votivo, unica opera congiunta dei tre da Maiano, autori e committenti di se stessi; cfr. Haines, 1991). Come gonfaloniere della Repubblica e finanziatore dell'opera, Lorenzo giuocò un ruolo importante anche in un'altra opera coeva, attribuita a G., la chiesa di S. Maria del Sasso, presso Bibbiena, dove l'architetto figurava come supervisore e arbitro del collaudo (Borgo; C. Cecchi - A. Mariotti, in L'età di Savonarola. Arte e devozione in Casentino tra '400 e '500, a cura di L. Borri Cristinelli, Venezia 1998, pp. 19-35). Nello stesso 1486, quando G. e Giuliano da Sangallo, insieme con altri autorevoli cittadini furono interpellati per decidere quante porte dovessero essere aperte sulla facciata della chiesa di S. Spirito, il contrasto fra i due era palese. Vinse il partito di G. che prevedeva tre porte, contro le quattro che probabilmente avrebbe voluto il Brunelleschi e che sosteneva il Sangallo. Questi nel comunicare al Magnifico il risultato della votazione sottolineava "la gran boria che mena el Majano, che dice a'uto questa vittoria" (Pini - Milanesi, 1876). Né va dimenticato il licenziamento di G. dall'Opera del duomo. Il capomastro, impegnato contemporaneamente in più luoghi portò "detrimento maximo" al cantiere per le troppo frequenti assenze e il 2 maggio 1488 ne fu deliberato l'allontanamento; contemporaneamente venne eletto il successore: Giuliano da Sangallo; ma l'Opera poco dopo reintegrò G., con delibera del 15 dicembre (Fabriczy, 1903, pp. 145, 153).
Dietro esplicita richiesta di Alfonso, duca di Calabria, di avere presso di sé un architetto militare, Lorenzo il Magnifico nel 1485 inviò a Napoli G., piuttosto che il Sangallo, altrettanto esperto ma impegnato in quegli anni in importanti progetti laurenziani, primo fra tutti la villa di Poggio a Caiano.
A tale proposito, va sottolineato come, date le competenze militari e idrauliche di G. e i primi rapporti intercorsi fra lui, Francione e Lorenzo, si può supporre che le cascine di Poggio a Caiano, la fattoria modello eretta in forma di castelletto di pianura nella primavera 1477, come preludio al progetto laurenziano della villa, siano opera idraulico-architettonica di G. (D. Lamberini, Le cascine di Poggio a Caiano, in L'architettura di Lorenzo il Magnifico [catal., Firenze], a cura di G. Morolli - C. Acidini - L. Marchetti, Milano 1992, pp. 101 s.). Opere squisitamente militari sono i principali incarichi di G., che "portò Firenze a Napoli" (Pane, 1977); come la splendida porta Capuana, del 1485, fiancheggiata da due torri cilindriche e finemente ornata, l'ammodernamento delle mura della cinta aragonese, con i suoi torrioni, in buona parte perduti e le relative opere idriche. La cronaca del Leostello ci parla anche di una visita d'ispezione alle fortificazioni del Regno e della progettazione di alcune fortezze, come il castelletto di Marcianise, in provincia di Caserta, che gli è attribuito (Di Resta, 1991).
Dal febbraio 1487 quando, dopo la sanguinosa congiura dei baroni, i rapporti col duca ripresero, fino alla morte, G. lavorò a Napoli ufficialmente per Alfonso duca di Calabria. Per questo costruì la residenza reale di Castel Capuano e le celebratissime ville suburbane di Poggioreale e della Duchesca, per le quali è comprovata l'influenza del Magnifico, tutte purtroppo scomparse, fagocitate dall'espansione della città. Sia le cronache coeve sia la testimonianza postuma del Vasari, sottolineano con aperta ammirazione la modernità e la raffinata eleganza di queste dimore, "del magnifico palazzo di Poggio Reale", soprattutto, reso celebre dalla nota rappresentazione del trattato del Serlio, vero luogo di celebrazione delle glorie aragonesi, con le sue caratteristiche torri, i portici con arcate e l'amenità dei giardini, ricchi di fontane, un bagno all'antica e un cortile con giuochi d'acqua; è lodata anche la perizia ingegneristica di G. nel bonificare il territorio e condurre le acque agli edifici (Vasari, II, p. 470, il quale aggiunge che a Napoli "per le case dei gentiluomini e per le piazze, fece disegni di molte fontane con belle e capricciose inventioni").
La morte sopraggiunse a Napoli a 58 anni il 17 ott. 1490, a interrompere tante virtuose realizzazioni tecniche, oltre che artistiche. Lorenzo apprendendone la notizia, rispose ad Alfonso con la famosa replica: "intendo la morte di Giuliano da Maiano, la quale ha portato al lanimo mio dipiacere e molestia assai, perché era molto mio" (Gaye, pp. 300-302). Ma alla richiesta di inviare a Napoli un sostituto, il Magnifico si schernisce; è costretto, dice, a cercare tra i fiorentini che lavorano fuori Firenze "non trovando ne' ci essendo alcuno che io giudichi della sufficientia di Giuliano predetto" (ibid.). Fu così che, per non privarsi del prezioso Sangallo, a Napoli fu lasciato il campo a un senese: il grande Francesco di Giorgio Martini.
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