MASINA, Giulia (Giulietta). – Nacque a San Giorgio di Piano, non lontano da Bologna, il 22 febbr. 1921, prima dei quattro figli (la sorella, Eugenia, e i gemelli Mario e Maria)
di Gaetano e di Flavia Pasqualin.
Il padre, professore di violino, aveva suonato in orchestra fino al matrimonio, quando si era stabilito a San Giorgio di Piano, paese di origine della sua famiglia, impiegandosi come cassiere in uno stabilimento chimico della Montecatini attivo nella zona; la madre, veneta di San Donà di Piave, era maestra. La M. fin dalla prima infanzia visse durante l’estate a San Giorgio, con i genitori e i fratelli, mentre il resto dell’anno lo trascorreva a Roma, presso la zia acquisita Giulia Sardi (precocemente vedova di Eugenio Pasqualin, fratello della madre), appartenente a una ricca famiglia di industriali lombardi proprietari del Calzaturificio di Varese, la quale abitava nell’elegante quartiere dei Parioli e amava frequentare l’ambiente intellettuale e artistico della capitale. Questa giovinezza divisa fra due famiglie e due stili di vita, non in contrasto ma diversi fra loro, fu recepita dalla M., carattere fondamentalmente ottimista e positivo, come una fonte di arricchimento affettivo e culturale.
Studiò in casa per tutte le elementari – la mamma maestra nel periodo estivo la preparava agli esami – iscrivendosi a scuole regolari solo al ginnasio-liceo che frequentò presso l’istituto delle orsoline di Roma, all’epoca considerato fra i più aggiornati e moderni nella didattica.
Sembra che dimostrasse precoci interessi artistici, orientati comunque al mondo dello spettacolo, e le fu offerta ogni possibilità di individuare la disciplina a lei più congeniale, che arrivò a definire quasi per esclusione dopo avere studiato musica e ballo: eccessivamente minuta per la danza, poca la voce per la lirica, mani troppo piccole per il piano, la M., non bella ma con un viso gradevole ed espressivo, un po’ androgina ma aggraziata, decise di diventare attrice. Al momento, nello stile di un’educazione borghese che non rinnegò mai e che rimase poi sempre come elemento fondativo del suo «privato» di donna solida ed equilibrata, cominciò a prodursi intensamente nel teatrino della scuola.
Al termine degli studi secondari si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Roma e, contestualmente, si presentò a un provino del Gruppo universitario fascista (GUF)-Teatro, che a livello amatoriale svolgeva attività teatrale nell’ateneo romano. Di fronte a una commissione di nomi che già erano, o sarebbero diventati, importanti – R. Jacobbi, G. Guerrieri, E. Fulchignoni – presentò un brano da La famiglia dell’antiquario di C. Goldoni e venne scritturata.
Al suo esordio fece colpo, dando prova di un notevole eclettismo: in un unico spettacolo, composto di tre atti unici, interpretò tre personaggi totalmente diversi: una donna di mezza età (Felice viaggio, di Th. Wilder), un ragazzo di quattordici anni (L’ufficio postale, di R. Tagore), e la prima delle molte prostitute che costelleranno la sua carriera (All’uscita, di L. Pirandello). Proseguì, nel 1941, il suo apprendistato comparendo, fra l’altro, ne La pentolina di Plauto; Il gatto con gli stivali di L. Tieck; Tutti hanno ragione di F. Pasinetti. La partecipazione a Le trombe d’Eustachio, di V. Brancati, la mise in contatto con l’autore che le procurò una supplenza di tre mesi sulla cattedra di materie letterarie presso il liceo Regina Margherita, consentendole di raggiungere la definitiva convinzione che l’insegnamento non faceva per lei. Più interessanti le proposte di G. Gherardi, autore legato alla compagnia Cervi - Pagnani, che le offrì una scrittura, e di S. D’Amico, il quale le avrebbe consentito di iscriversi all’Accademia d’arte drammatica saltando il primo anno; la zia, però, le vietò ogni serio impegno di lavoro prima del conseguimento della laurea.
Nel corso di quell’anno e del successivo 1942, la M., pur continuando a recitare al teatro dell’Università, apparve anche su altri palcoscenici romani: impersonò la dea Minerva nell’Ettorre di Valentini al teatro delle Arti di A.G. Bragaglia, comparve all’Argentina con V. Caprioli e A. Bonucci in un «fiasco» di E. Caballo, Autostrada; soprattutto iniziò a guadagnare qualcosa lavorando all’Ente italiano audizioni radiofoniche (EIAR), sia nella compagnia del teatro comico-musicale dell’Ente, sia in quella di prosa. Nell’ambito di questa nuova collaborazione partecipò, dal giugno 1941, a una trasmissione di notevole successo basata su «originali» scritti appositamente per la radio, Terziglio, ideata e prodotta da C. Cavallotti. La M. venne chiamata a interpretare alcune brevi scene incentrate sulle disavventure di due sposini, Federico e Bianchina, detti Cico e Pallina, e ne conobbe l’autore, un giovane giornalista del Marc’Aurelio, Federico Fellini. Il primo incontro con Fellini avvenne nell’autunno 1942, neppure un anno dopo, il 30 ott. 1943, i due si sposarono in via Lutezia, abitazione della zia della M., nella casa di un coinquilino prelato, monsignor Cornaggia, che aveva dispensa per celebrare messa nel proprio domicilio.
Nel travagliato periodo storico che allora si viveva a Roma c’era poco spazio per qualsivoglia attività lavorativa; inoltre la M., poco dopo il matrimonio, abortì per una caduta dalle scale; quindi, nel marzo 1945, partorì un bambino, Federico come il padre, che morì dopo quindici giorni. La sua salute risentì a lungo di questi eventi traumatici che le procurarono una lunga serie di febbri puerperali e di complicazioni infiammatorie.
Riuscì, comunque, a laurearsi nel 1945, con una tesi in archeologia cristiana, e nel 1946 riprese la collaborazione con la radio per un ciclo di trasmissioni nuovamente dedicate a Cicco [sic!] e Pallina, autore sempre Fellini, che andò in onda, per circa 19 puntate, dal 17 novembre e nei primi mesi del 1947 (la domenica sera tra le otto e le nove, regia di G. Barbarisio); ancora a questi anni risale – e si dovette a Fellini – l’assunzione del vezzeggiativo Giulietta come nome d’arte. Di fatto, dopo il matrimonio, la M. abbandonò la scena per il cinema anche se, nel 1948, fu protagonista – al teatro dell’Università (teatro Ateneo), per poche repliche e al fianco di M. Mastroianni – di Angelica, una pièce sull’Italia durante il fascismo scritta, in chiave paradossale e metaforica, da un giovane intellettuale antifascista, Leo Ferrero, morto negli Stati Uniti nel 1933; quindi, per l’ultima volta, nel 1951, partecipò a Gli innamorati di Goldoni. Più tardi, negli anni Sessanta, oramai famosa attrice cinematografica, rifiutò senza rimpianti offerte prestigiose come quella di G. Strehler per la S.Giovanna dei macelli di B. Brecht e quella di G. Testori per L’Arialda.
In realtà la M., pur avendo iniziato la carriera e costruito la sua recitazione sul palcoscenico, affermò ripetutamente di non trovarcisi veramente a suo agio: non aveva grande memoria, detestava gli spostamenti continui previsti dalle tournée, soffriva molto il «trauma» dell’entrata in scena, ma soprattutto in lei la matrice della recitazione non era indissolubilmente legata alla parola («Gelsomina parla poco, anche Ginger parla poco. Mi piace il cinema muto, l’avrei fatto più volentieri»; cfr. Kezich, 1991, p. 57), né era stimolata dal contatto diretto con lo spettatore ma veniva meglio sollecitata dal rapporto con la macchina da presa.
La prima apparizione sullo schermo fu quasi meno di una comparsata ma si verificò all’interno di un film, come Paisà (1946) di R. Rossellini, di cui, in quegli anni, Fellini era amico e sceneggiatore: la scena, infatti, legata all’episodio «fiorentino», fu girata sulle scale dell’appartamento di via Lutezia a Roma, dove all’epoca vivevano i coniugi Fellini. Il debutto vero e proprio si ebbe in un film di A. Lattuada (ma il futuro «classico» set felliniano vi è già presente quasi al completo: sceneggiatura di Fellini e di T. Pinelli, musiche di N. Rota, costumi e scenografie di P. Gherardi), Senza pietà, del 1948.
La M., nel ruolo di spalla della piccola prostituta Marcella – ricco di quel tenero patetismo che sarebbe stato una delle sue chiavi interpretative –, la quale si butta in un matrimonio sconsiderato e pieno di incognite per uscire dal girone infernale di disgraziati e scellerati che abitano la pineta del Tombolo presso Livorno, dove è ambientata la storia, strappò un applauso a scena aperta al festival di Venezia e ottenne, nell’agosto 1949, il Nastro d’argento come attrice non protagonista.
A dimostrazione delle difficoltà che spesso la M. incontrò nel trovare ruoli a lei, o da lei considerati, adatti, ma anche per persistenti motivi di salute, passarono due anni prima di imbattersi in un altro dei «caratteri» ricorrenti nel suo curriculum attoriale – questa volta quello della moglie, o compagna, fedele, disponibile, spesso tradita e maltrattata – in Luci del varietà dove Fellini passava per la prima volta ufficialmente alla regia, insieme con Lattuada, per raccontare quel mondo di guitti, a metà tra il teatro e il circo, che tanto lo affascinava: la M. (Melina Amour, una soubrette non più giovane abbandonata e poi ripescata per motivi di interesse dal capocomico Peppino De Filippo che in realtà spasima per la più fiorente Carla Del Poggio) ottenne un secondo Nastro d’argento come non protagonista. Seguirono, fra il 1951 e il 1952, filmetti di scarso peso (da ricordarsi forse il comico Sette ore di guai di V. Metz e M. Marchesi, in cui la M., che non aveva alcuna esperienza dell’estemporaneità abituale nel teatro di rivista, si trovò in grande imbarazzo al fianco di un Totò [A. De Curtis] che ricorreva ripetutamente all’improvvisazione); e due ruoli, piccoli ma significativi, uno in Europa ’51, di Rossellini, come «il passerotto», una misera donna di borgata beneficata dalla protagonista (Ingrid Bergman), altoborghese e in crisi esistenziale; minimo il secondo (soprattutto per chi, come la M., si aspettava di essere la protagonista) in Lo sceicco bianco, prima regia autonoma di Fellini, dove è la prostituta Cabiria, un nome ricco di futuro.
Nel biennio successivo la M. continuò a lavorare in linea con i due «caratteri» che le venivano prevalentemente proposti: la prostituta (Donne proibite, di G. Amato; Via Padova 46 [Lo scocciatore], di G. Bianchi) e la moglie infelice (Ai margini della metropoli, di C. Lizzani), ma disegnò anche la prima figura dell’«accoppiata» felliniana che l’avrebbe consacrata ai vertici del mondo cinematografico: la girovaga Gelsomina in La strada (1954) cui seguì la prostituta Cabiria in Le notti di Cabiria (1957), intervallata dalla figura minore della ignara moglie del bidonista Picasso ne Il bidone (1955, sempre di Fellini).
Ambedue questi ruoli, che possono ben definirsi mitici nell’ambito dell’immaginario cinematografico, nascono dal mondo poetico e dalla fantasia del primo Fellini, ma gli furono indubbiamente suggeriti dalla M. e furono costruiti espressamente su di lei, sul suo fisico, sulle sue capacità espressive; è significativo che il regista incontrasse forti difficoltà a realizzare La strada (di cui aveva scritto il soggetto prima de I vitelloni) e soprattutto che dovesse combattere strenuamente per avere la M. come Gelsomina (i produttori, in quanto «caratterista», non la vedevano protagonista ma solo comprimaria; in quell’occasione G. Marotta, critico cinematografico del settimanale L’Europeo, scrisse a Fellini della M., spingendolo a non cedere: «Un volto e un’arte non acquisita al cinema bensì naturalmente imparentata con il cinema»; cfr. Kezich, 1991, p. 50). Altrettanto significativo che dovesse imporsi alla stessa M., la quale riconobbe più tardi di non aver amato né compreso il personaggio fino in fondo nella dizione prevista da Fellini: l’aveva commossa e lo aveva accolto inizialmente, e previsto una recitazione, in chiave intimista e psicologica, quasi fosse una Cenerentola degli zingari, laddove per Fellini Gelsomina è un archetipo e la sua evoluzione umana avviene «a quella profondità dell’essere in cui la coscienza non ha più che scarse radici» (Bazin, p. 326). Il regista riuscì come sempre a prevalere: ne costruì personalmente l’immagine fin nei minimi particolari fisici, pretese un’interpretazione tutta giocata sulla mimica di sentimenti assoluti, forti ma quasi inarticolati, e per il risultato finale vennero scomodati dalla critica, soprattutto internazionale, i nomi di J.-L. Barrault, del mimo M. Marceau, di H. Langdon, addirittura di Charlie Chaplin. Più vicina e più sua la M. sentì, tre anni più tardi, la piccola prostituta Cabiria ricca di ingenua credulità, di una sua radicata innocenza, che le procurano infiniti dolori e delusioni, ma forte e combattiva, capace sempre di sopravvivere alla crudeltà del mondo: sostenuta da una sorta di inesauribile vitalismo, senza alcuna scivolata sentimentale («Federico mi vuole aggressiva, clownesca, spiritata, ironica, arrabbiata, sentimentale mai»; cfr. Kezich, 1991, p. 51), la recitazione della M., appoggiata al romanesco – dialetto che amava e definì «crudo pulito e violento» (ibid.) –, raggiunge qui forse il vertice delle sue possibilità. Per Cabiria la M. ebbe il Nastro d’argento come attrice protagonista e il Palmarès a Cannes; le due pellicole ottennero eccezionalmente, in progressione ravvicinata (1956 e 1958), l’Oscar come miglior film straniero.
Dagli anni Sessanta in poi se la M. rimase compagna di vita dell’uomo Fellini, uscì però sostanzialmente dal suo immaginario creativo. Dei non molti titoli della successiva filmografia vale la pena di ricordare lo scontro, non solo artistico ma anche concretamente caratteriale con Anna Magnani – le due attrici interruppero i rapporti per un certo periodo – sul set di Nella città l’inferno di R. Castellani, del 1958 e il successivo Das kunstseidene Mädchen (La gran vita), di J. Duvivier, del 1960.
Il primo – ambientato in un carcere femminile in cui la M. arriva ingenua e innocente servetta raggirata dal fidanzato ed esce incanaglita e peggiore della compagna (la Magnani) che le ha «spiegato» la realtà del mondo – sembra fosse originariamente pensato in funzione della M. che invece ne uscì se non sconfitta – perché si tratta un’ottima interpretazione che dà la misura delle sue capacità anche quando sia lontana dal suo Pigmalione –, quanto meno fortemente ridimensionata nell’economia generale del film rispetto alla rivale. Il secondo è assai mediocre, girato in Germania da un Duvivier oramai vecchio, il quale ebbe tuttavia quantomeno il merito di tentare, caso più unico che raro, di liberare la M. dai clichés che le avevano cucito addosso, marito compreso, utilizzandola in una commedia brillante in cui la volle platinata ed elegante.
Nel 1965 Fellini si ripresentò al fianco della M. protagonista in Giulietta degli spiriti.
Storia della profonda crisi esistenziale di una borghese cui il tradimento del marito toglie ogni certezza, il film, immaginifico e barocco sul piano visivo come altre pellicole del Fellini di quegli anni, è esso stesso espressione di un momento di crisi creativa, ma del regista, e non contentò nessuno a cominciare dalla M., la quale iniziò la lavorazione avendo scarsa idea di ciò cui andava incontro e fece appello a tutta la sua professionalità per corrispondere a un personaggio che non gradiva in sé («Non mi piace il tipo della donna mediterranea succube dei genitori e parassitaria nei confronti del marito»; cfr. Kezich, 1991) e per sé, detestando e respingendo la facile identificazione fra il ruolo cinematografico e la donna M., effettivamente moglie di una personalità «domestica» molto ondivaga e particolare (la M., che peraltro nel 1960 aveva rifiutato – e di questo si pentì – il ruolo per certi versi analogo di Livia, ne La notte di M. Antonioni, proprio perché il suo caratteriale riserbo era disturbato da possibili approfondimenti e analogie, sostenne che l’identificazione era sì possibile ma con Fellini: che, cioè, le fobie, l’insicurezza, i timori, gli interessi psicoanalitici, la passione per il magico non erano di Giulietta bensì di Federico).
Lontana per parecchi anni dal cinema (furono poco più di partecipazioni le sue presenze in Scusi lei è favorevole o contrario?, di A. Sordi, 1966; Non stuzzicate la zanzara, di Lina Wertmüller, del 1967; La pazza di Chaillot di B. Forbes del 1969), la M. tenne per un settennio (dal 1960 al 1967) una rubrica molto seguita di piccola posta ne La Stampa; quindi, negli anni Settanta, passò al piccolo schermo come protagonista di due sceneggiati televisivi di successo: Eleonora (in 5 puntate), nel 1973 e Camilla (in 4 puntate), nel 1976.
Come sua abitudine la M. ponderò a lungo prima di assumere questi impegni, infine accettò, rassicurata dalla presenza di Pinelli come sceneggiatore per Eleonora (regia di S. Blasi; storia di una ragazza della buona borghesia lombarda la quale nella seconda metà dell’Ottocento, abbandona una tranquilla e confortevole routine per amore di un mediocre pittore che le offrirà una vita abbastanza difficile); e confortata, per Camilla, sia dalla vicenda, a lei sicuramente congeniale (dal romanzo Un inverno freddissimo di Fausta Cialente: storia di una madre impoverita e sola che cerca di sopravvivere, con i suoi figli, nel primo terribile inverno del secondo dopoguerra), sia dal nome di S. Bolchi, il più blasonato regista di sceneggiati dell’epoca. Priva dell’ingombrante presenza del marito, offrì un’ottima interpretazione in due ruoli a tutto tondo, di donne «normali», più vari e, in certo modo, più completi dei suoi tradizionali, in cui, afferrando acutamente la sostanziale differenza tra recitazione cinematografica e recitazione televisiva, si riappropriò anche della antica esperienza di palcoscenico, utile in questo diverso contesto.
La distanza acquisita sul piano professionale da Fellini nel lungo intervallo, venti anni, in cui non avevano più lavorato insieme, si avverte in Ginger e Fred, girato al fianco di Mastroianni, alter ego per eccellenza del regista (1985; breve incontro alla «Fellini» tra due ex ballerini di tip tap che avevano fatto coppia con successo nel passato, nell’occasione di uno spettacolo televisivo che è l’epitome della volgarità raggiunta dal medium TV), in cui il ruolo della M., più realistico e concreto, si avvale pienamente del carisma dell’attrice e non di quello della «maschera».
L’ultimo film interpretato dalla M. fu Aujourd’hui peut-être (Un giorno forse) di J.-L. Bertuccelli, del 1991. Nella primavera 1993, a Hollywood, partecipò, commossa e probabilmente già sofferente di una neoplasia polmonare, alla cerimonia in cui venne consegnato a Fellini l’Oscar alla carriera.
La M. morì a Roma, il 23 marzo 1994, neppure cinque mesi dopo la scomparsa di Fellini.
La carriera cinematografica della M., per le circostanze della vita privata ma anche per motivazioni più profonde, fu, e resta, fondamentalmente legata all’attività del marito: per un verso Fellini – il quale si avvicinò sempre agli attori, moglie compresa, mirando esclusivamente alla perfetta corrispondenza con le sue personali necessità narrative – vide in lei, soprattutto per un determinato periodo, «un tipo di attrice molto congeniale alle mie intenzioni, al mio gusto; il viso, l’atteggiamento, le espressioni, i toni. Giulietta è un’attrice dalla mimica, dalla cadenza, dai modi clowneschi. Ma è anche un personaggio abbastanza misterioso che può incarnare, nel rapporto con me, una struggente nostalgia di innocenza, di perfezione» (Kezich, 1991, p. 14). D’altro canto la M. possedeva una personalità decisamente strutturata e un carattere dotato di grande autoconsapevolezza che pretendevano, da scrittori e registi, qualcosa che le corrispondesse «personalmente»; grande professionista, di quasi maniacale perfezionismo – come Fellini del resto –, non possedeva la facilità degli attori istintivamente versatili di arrendersi al ruolo, lo discuteva piuttosto, si poneva con questo in atteggiamento dialettico e qualche volta polemico, quasi mai vi aderiva fino in fondo, partorendo spesso una recitazione leggermente estraniata che dava una coloritura surreale anche al più concreto dei personaggi, quindi potenzialmente inadatta alla preminente deriva neorealista degli anni del suo debutto. Di conseguenza in un cinema come quello italiano, pigro al di fuori dei vertici rappresentati dai «maestri», strutturalmente approssimativo, scarso di una produzione di «genere» di buon livello, che dalle attrici fondamentalmente pretendeva un fisico cosiddetto da «maggiorata», la M., quando l’ispirazione felliniana non si prestò a cucirle addosso un personaggio a lei consono, si trovò confinata in ruoli ripetitivi di caratterista e raramente vide posto in evidenza e sfruttato fino in fondo il suo indubbio potenziale artistico.
Fonti e Bibl.: Una completa e accurata filmografia della M. si trova in T. Kezich, Giulietta M., Bologna 1991, che contiene anche una lunga intervista con l’attrice e le fondamentali notizie biografiche. Vedi pure: Necr., in La Repubblica e Corriere della sera, ambedue 24 marzo 1994; G. Masina, Un personaggio attivo: Gelsomina sente la vita degli alberi, in Cinema, s. 3, 10 ag. 1954, n. 139; La strada, un film de Federico Fellini, a cura di F.-R. Bastide - J. Caputo - Ch. Merker, Paris 1955, passim; L. Del Fra, A proposito di Fellini, in Bianco e nero, XVIII (1957), 6, pp. 1-41; Le notti di Cabiria, a cura di L. Del Fra, Rocca San Casciano 1957, passim; T. Kezich, Fellini, Milano 1988, ad ind.; S. Masi - E. Lancia, Stelle d’Italia. Piccole e grandi dive del cinema italiano dal 1945 al 1968, Roma 1989, ad ind.; A. Bazin, Cos’è il cinema, Milano 1999, ad ind.; B. Scaramucci - C. Ferretti, RicordeRAI, Roma 2003, ad ind.; Enc. dello spettacolo, VII, col. 251, sub voce.