DE CARO, Giulia (detta Ciulla)
Nacque a Vieste (Foggia) il 13 luglio del 1646, da Tommasino, che era cuoco o taverniere. Dopo una infanzia infelice nel paese natale, trascorsa tra privazioni e umiliazioni di ogni genere e una precoce adolescenza, visse una giovinezza estremamente squallida. Ben presto approdò a Foggia e di lì a poco, partì alla conquista della capitale del Regno che era allora una meta insostituibile per chiunque volesse in qualche modo affermarsi.
Giunta a Napoli, fu dapprima al servizio di un negoziante di ventagli, certo G. Pesce, che per cento doppie di Spagna la cedette a Cappello d'oro, romano, buffone. di piazza, che la D. poi sposò e con cui cominciò a esibirsi in una compagnia di comici e di saltimbanchi di infimo ordine in piazza Castello, cuore della Napoli popolare. Fu così che la D. - conosciuta con il nome di Ciulla d'a Pignasecca dal nome di porta Petruccia al ponte Liccardo al Lavinaro, nei cui vicoli conduceva la sua vita dissoluta - su palchi improvvisati, diventò canterina e cominciò ad accentrare su di sé l'attenzione del pubblico interpretando canzoni sguaiate, come "la sfacciata" e "la varchetta", con voce intonata e di buon timbro. Servendosi della sua grande bellezza e delle sue doti di intelligenza, riuscì perfino in breve tempo a rendere le sue interpretazioni non prive di una certa raffinatezza.
A Napoli, in quel periodo, si era venuto diffondendo da Venezia il teatro in musica e si venivano costituendo anche le prime compagnie d'opera. La D. si rese subito conto che il teatro le avrebbe potuto offrire la possibilità di entrare a far parte di una sfera sociale ben diversa da quella da lei fino ad allora frequentata. A quel tempo era viceré di Napoli don Antonio Albarez, marchese di Astorga, il quale - diversamente dal suo predecessore Pedro Antonio d'Aragona, non ben disposto verso i musicisti ed avverso anche agli stessi musici di corte - favorì le compagnie teatrali che si andavano costituendo e contribuì al successo della prima canterina napoletana, della cui bellezza - come ribadisce il Viviani - si favoleggiava più che della sua arte.
Dopo aver abbandonato il marito, la D. cominciò a frequentare ambienti più raffinati e, intenzionata a dare la scalata al mondo dell'arte, cominciò a studiare musica, a perfezionarsi nell'arte del canto e, divenuta virtuosa, entrò a far parte della prima compagnia di cantanti d'opera napoletani, i Febi Armonici. Fu scritturata da Cecilia Sirj Chigi, una vecchia commediante, impresaria del teatro S. Bartolomeo. che, costruito nel 1620 alle spalle della chiesa dell'Ospedaletto in via Medina, era a quel tempo il massimo teatro napoletano e tale rimase fino alla inaugurazione del S. Carlo. La D. esordì probabilmente nell'Annibale in Capua di P. A. Ziani o nel Demetrio di C. Pallavicini ma fu un fiasco (venne infatti accolta da un pubblico ostile ed ironico che la coprì di fischi e di volgari insulti).
Ciò nonostante la D. non si diede per vinta: continuò a studiare con molta tenacia, ma soprattutto a cercare protezione e amicizie negli ambienti aristocratici della città; nel 1673, grazie al denaro e alla protezione d'un suo amante, don Prospero Barisani. marchese di Caggiano, assunse l'appalto del teatro S. Bartolomeo e formò e diresse una compagnia di Armonici con cui esordì sulle scene del teatro napoletano. Fermamente decisa a conquistare il pubblico, non lesinò alcuna spesa: chiamò a Napoli le più belle voci d'Italia, tra le quali il cantante Sonetto, la cantatrice Marinetta e la famosa canterina romana Caterina Porri, che ospitò nella sua casa; fece rifare con grande sfarzo le scene e i costumi dell'opera che aveva scelto per l'inaugurazione della stagione. La compagnia debuttò nel novembre dello stesso anno con il Marcello in Siracusa, opera su libretto di M. Noris e musica di G. A. Boretti e P. A. Ziani, con un prologo di don Giovanni Cicinello, duca di Grottaglie e principe di Cursi, che fu uno dei suoi molti amanti.
L'opera, così come era costume dei tempo, fu dedicata al viceré che - secondo quanto riferito dal Viviani - il 27 novembre, durante un intermezzo, sedette accanto alla D. e, senza ritegno, rivelò pubblicamente il suo legame con la cortigiana canterina. L'interpretazione della D. non fu delle più esaltanti (addirittura alle prime battute le venne a mancare la voce), tuttavia l'opera ottenne ugualmente un buon successo tanto da consentire alla compagnia di mettere in scena, qualche settimana dopo, la seconda opera della stagione: l'Eraclio di P. A. Ziani.
Seguì un periodo durante il quale la D. riuscì a conquistare la incondizionata ammirazione del pubblico napoletano, che la elesse a sua beniamina; presto le si aprirono i salotti delle famiglie aristocratiche e il principe Cicinello l'invitò più volte nel suo palazzo di Mergellina, dal balcone del quale la D. cantò, anche in compagnia di altre canterine, nell'ora del passeggio com'era usanza del tempo. Tra lo stupore ammirato di molti ascoltatori assiepati lungo la via Caracciolo, si esibì servendosi, per "stendere" la sua voce, di una nuova invenzione appena giunta dalla Germania: il megafono. Tuttavia l'impudenza della D., divenuta troppo sicura della posizione raggiunta negli ambienti aristocratici, compromise il suo prestigio e la sua fortuna. Amante ufficiale del viceré, si legò anche al nipote di lui, Pietro Guzman; coinvolta nell'inevitabile scandalo, fu esiliata dalla città e segregata per punizione in un monastero, dal quale però fu ben presto cacciata a causa di un ulteriore scandalo. Nel 1674, tuttavia, poté far ritorno a Napoli e fu vista in compagnia dell'Astorga mentre cantava sul mare di Mergellina. Riconquistato dunque il favore perduto, la D. decise di dare la scalata al teatro di corte; e il 6 nov. 1674, con i suoi Armonici, rappresentò il Genserico, correntemente attribuito a P. Cesti, seguito dalla Stellidaura vendicata di F. Provenzale. Il compositore napoletano si ispirò a lei nel comporre l'opera Schiavo di sua moglie, in un secondo tempo rappresentata con buon successo al teatro S. Bartolomeo. La carriera della D. si concluse nella stagione del 1675 con una trionfale rappresentazione della Dori di P. Cesti nello stesso teatro.
L'ascesa della D. s'interruppe quando cominciò a circolare per Napoli, manoscritto, un poemetto satirico sulla sua vita scandalosa del poeta Antonio Muscettola, duca di Spezzano, intitolato La Carilda (cfr. Viviani, p. 200). La popolarità della virtuosa si trasformò addirittura in dileggio quando essa non poté più usufruire della protezione del viceré marchese d'Astorga, sostituito dal marchese di Los Velez. La D. cercò di ingraziarsi il nuovo viceré offrendogli, a proprie spese, uno spettacolo per l'incoronazione del re di Spagna Carlo II, ma non riuscì nel suo intento a causa dell'opposizione dei musici della cappella reale. Il comportamento licenzioso, fino ad allora tollerato, non fu più ammesso e, dandosi particolare credito a tutte le voci diffamanti, intervennero contro di lei, per la salvaguardia della morale pubblica, le autorità del capitano della guardia vicereale e dell'uditore del regio esercito. La D. questa volta fu sopraffatta dagli eventi, non riuscì a trovare cantanti disposti a formare compagnia con lei e fu costretta a ritirarsi per sempre dalle scene. Fatta poi arrestare dal viceré, fu rinchiusa nel "conservatorio delle Pentite" alla Pignasecca.
Liberata e rimasta vedova, si risposò con un facoltoso giovane napoletano con il quale visse, senza far più parlare di sé, per altri vent'anni.
La D. morì a Napoli il 17 nov. 1697 nel casale di Capodimonte.
Lo stesso giorno della morte Domenico Conforto scriveva nel suo Diario: "... È morta nel casale di Capodimonte... la famosa un tempo puttana e canterina Giulia De Caro, che pria di maritarsi fu il sostegno del Bordello di Napoli... ed è stata seppellita miseramente nella Parrocchia del suddetto casale, solo con quattro preti, una che al tempo del suo puttanesimo dominava Napoli et sic transit gloria mundi". (cit. in Viviani, p. 203).
Personaggio indubbiamente singolare, quello della D. si impose, oltre che per le doti artistiche, per la forte personalità: nella storia del teatro musicale, non solo napoletano ma italiano in genere, sopravvive quale simbolo del costume di un'epoca.
Bibl.: M. Vocino, Curiosità pugliesi - La Ciulla di Viesti, in Gazzetta di Puglia (Bari), 12 ott. 1927; G. Malcangi, Volti e figure del passato in Puglia, Roma 1956, pp. 222 55.; P. Sorrenti, I musicisti di Puglia, Roma 1956, pp. 72 s.; B. Croce, I teatri di Napoli, Bari 1966, pp. 84-90; V. Viviani, Storia del teatro napol., Napoli 1969, pp. 200-203; La Musica, Diz., I, p. 495-