giudizio
La definizione classica di giudizio si deve ad Aristotele, che così chiamò l’atto intellettuale di porre in relazione un soggetto (generalmente, ma non necessariamente, un termine singolare) con un predicato (attributo, essenza, qualità), atto espresso linguisticamente dall’uso copulativo del verbo essere in un enunciato dichiarativo (per es., Socrate è uomo). Dal punto di vista della ‘qualità’, Aristotele distingueva il g. in affermativo e negativo; dal punto di vista della ‘quantità’, in universale e particolare, a seconda che il predicato fosse affermato (o negato) di tutti o soltanto di alcuni dei componenti la molteplicità espressa dal soggetto. Dal vario combinarsi di queste forme del g. prendeva le mosse la sillogistica. Una ulteriore distinzione aristotelica tra i g. (che affonda le radici nelle dottrine della sostanza e della definizione) dipendeva inoltre dal particolare tipo di relazione intercorrente tra soggetto e predicato, che può essere per Aristotele di semplice inerenza, di possibilità o di necessità. Kant riprendeva questa tripartizione aristotelica, liberandola tuttavia dai suoi presupposti ontologici, allorché, nella sua sistematica classificazione, distingueva, sotto il titolo della modalità, i g. in assertori, problematici e apodittici, a seconda che la relazione tra soggetto e predicato fosse di realtà (enunciazione di uno stato di fatto contingente), di possibilità o di necessità. Per quanto in una mutata prospettiva gnoseologica, Kant doveva perpetuare la tradizione del formalismo aristotelico, la cui teorizzazione dei tipi di conoscenza in deduzione e induzione tenne presente nel distinguere i g. in analitici e sintetici: distinzione da cui muoveva poi tutta la sua indagine gnoseologica, concepita come ricerca della possibilità di g. sintetici che fossero però a priori come gli analitici. Il concreto conoscere, costituito di senso e intelletto e capace di g. sintetici a priori, gli si conformò così nell’aspetto di un g. che, per mezzo delle categorie, sintetizzasse, nell’unità dell’appercezione, gli elementi di un’esperienza possibile; e nelle categorie si traducevano le forme dei g. distinte dalla logica aristotelica. Diverso da questo giudizio era d’altronde quello a cui nella Critica del giudizio (➔) (1790) Kant attribuiva l’interpretazione estetica e teleologica della realtà, giudizio «riflettente» e non «determinante» come quello conoscitivo. In seguito, in una prospettiva antipsicologistica e platonista, la nozione di g. è stata al centro delle riflessioni di Frege e Meinong. Nell’ambito della sua teoria del significato Frege ha distinto tra il contenuto concettuale (o proposizionale) di un enunciato (il Gedanke), esprimibile linguisticamente da un enunciato interrogativo, e l’atto del g., che equivale ad asserire la verità di quel contenuto. Una distinzione analoga è presente anche nella teoria degli oggetti di Meinong, che considera il g. come il riconoscimento o il disconoscimento di un ‘obiettivo’, ossia di un contenuto di pensiero che ne è l’oggetto.