MOCETTO, Girolamo
MOCETTO (Moceto, Mozetto, Mozeto), Girolamo. – Nacque quasi certamente a Murano dal vetraio Andrea, probabilmente nel 1470 o poco dopo.
Questi dati si ricavano da una sentenza emessa dai Giudici del Proprio il 16 genn. 1493, con la quale il M. fu riconosciuto unico erede del defunto bisnonno paterno Antonio (Ludwig, p. 71; Zecchin; Romano, p. 25). Costui nel 1458 aveva disposto per lascito testamentario l'affidamento dei propri beni alla linea maschile della famiglia; pertanto, morti il nonno Nicolò e il padre Andrea, il M. ne divenne legittimo successore. A questo titolo egli si intromette nelle «stride» pubblicate nella primavera del 1494 relativamente alla vendita di metà delle case appartenute al bisnonno, ubicate nella locale parrocchia di S. Stefano, dove risiedeva la famiglia (Romano, pp. 26 s.).
La data di nascita del M., non precedente al 1470, ben si accorda con la cronologia della sua attività di pittore e incisore (ibid., p. 25). Tale professione si discostava dalla tradizione di famiglia, che fin dal Trecento risulta impegnata nella fabbricazione del vetro, principale risorsa dell’industria muranese. La prima attestazione della sua occupazione risale al 1493, quando viene menzionato col titolo di «pictor» in una quietanza relativa alla dote della moglie Angela (Ludwig, p. 71).
Sulla formazione artistica del M. non vi sono notizie certe.
Vasari lo dice «creato» di Giovanni Bellini, attribuendogli l’esecuzione di una Pietà nella chiesa veneziana di S. Francesco della Vigna, in sostituzione di un originale del maestro portato in Francia dal re Luigi XI. Per la diversità del soggetto, il quadro non può essere identificato con quello attualmente conservato in chiesa (una Madonna col Bambino, santi e donatore), recante la firma di Bellini e la data 1507 (va inoltre aggiunto che Vasari si confonde presumibilmente con Luigi XII, re dal 1498 al 1515). Ciò fa cadere ogni possibile relazione tra la congetturata collaborazione del M. in quest’opera, dalla quale oltretutto non traspaiono somiglianze tecnico-formali col suo modus operandi, e la sua identificazione, da taluni suggerita (Baron, p. 64), con uno «Hieronymo depentor» che nel 1507 assisteva Bellini nella realizzazione delle tele per la sala del Maggior Consiglio in palazzo ducale.
Al presunto apprendistato presso Bellini parte della critica (Romano, p. 29) preferisce l’ipotesi di un alunnato nella bottega di Alvise Vivarini, situata a Murano, che spiegherebbe la tendenza al vigore plastico e il segno deciso caratteristici della sua pittura. Un terzo referente solitamente considerato è Andrea Mantegna: nel suo solco infatti si colloca gran parte dell’attività incisoria (condotta a bulino) del M., sia per la scelta dei soggetti sia per le affinità formali. Ne danno testimonianza tre fogli, due dei quali firmati «Hieronimus Mocetus», che compongono il Combattimento tra Israeliti e Amaleciti, in cui tuttavia si manifesta un mantegnismo di riporto che non implica necessariamente una conoscenza diretta del maestro padovano o della sua cerchia stretta, né una frequentazione della corte mantovana.
In particolare, il M. dimostra scarso interesse per la materia antiquaria, privilegiando la fluidità narrativa, che compensa la tendenza a bloccare le figure in pose rigide e ostentate. Sono state in ciò individuate tangenze con artisti attivi a Verona, città per la quale il M. avrebbe in seguito lavorato, in cui la ricezione dell’arte di Mantegna si combina con la lezione di Bellini e Carpaccio (esemplare è la figura di Domenico Morone). Non è da scartare l’ipotesi, formulata da Hind e dallo stesso successivamente rigettata (1910; 1948, p. 146), che tra alcune pieghe del terreno nell’ultimo foglio, proprio accanto alla firma dell’artista, sia celata la data 1496, in un gioco di dissimulazione artificiosa che appare evidente almeno nella seconda cifra e si può agevolmente distinguere anche nelle ultime due. Se così fosse, si tratterebbe di un’opera chiave per la conoscenza degli esordi artistici del M., la cui importanza andrebbe estesa all’ambito pittorico, in quanto la parte centrale della scena è riprodotta in una grande tavola (trasferita su tela), recante la sua firma (Pavia, Pinacoteca Malaspina). Leggere variazioni nei lineamenti, nel vestiario, nelle pose e nella distribuzione dei personaggi, nonché il trattamento dissimile del chiaroscuro e lo spostamento della firma differenziano le due versioni, laddove quella a stampa manifesta una maggiore capacità descrittiva e una migliore tenuta esecutiva, soprattutto nell’articolazione dei movimenti e nella spaziatura delle figure. Anche in campo pittorico il M. manifesta un’attitudine eminentemente grafica, tendente al segno netto e secco, che emerge in superficie. Ciò avviene per esempio nel Ritratto di fanciullo (Modena, Galleria Estense), una piccola tavola di sapore carpaccesco, firmata sul parapetto che separa il piccolo busto dallo spettatore, in cui le indagini tecniche hanno rivelato come gli effetti pittorici di superficie, compreso lo schema chiaroscurale, siano stati previsti già nel disegno della fase preparatoria (Romano).
Gli stessi mezzi espressivi sono impiegati dal M. in due tavolette raffiguranti la Strage degli innocenti (Londra, National Gallery), una delle quali firmata.
Vi ricorrono, per esempio, le medesime tipologie fisionomiche e anatomiche, il medesimo senso delle proporzioni, che allinea isometricamente le teste delle figure e traduce nel linguaggio dell’artista un paio di citazioni esplicite tratte da incisioni di Mantegna (la donna con le braccia aperte verso l’alto, dalla Deposizione di Cristo; i due corpi di bambini distesi uno sopra l’altro, dal Baccanale con vendemmia). Diversa è invece l’ambientazione entro uno scenario architettonico classicheggiante, di gusto tipicamente tardoquattrocentesco, in cui vengono messe in risalto le screziature e le variazioni cromatiche dei marmi.
Per le evidenti analogie, compreso il riutilizzo di una figura di sgherro inginocchiato, questa coppia di tavole può essere messa a confronto con i due fogli che compongono una scena di Sacrificio pagano, firmata, in cui la composizione a fregio – evidentemente ispirata all’antico – viene proiettata contro lo sfondo di piazza S. Marco, a riprova del radicamento dell’artista nel contesto veneziano.
Una soluzione simile viene adottata anche nell’incisione che riproduce la Calunnia di Apelle secondo un disegno attribuito a Mantegna (Londra, British Museum): la scena, copiata nel dettaglio, è riambientata entro una veduta (girata in controparte) di campo Ss. Giovanni e Paolo, laddove la presenza del monumento equestre di Bartolomeo Colleoni permette di fissare al 1496 il termine post quem dell’opera, che può forse essere agganciata al successivo intervento del M. nella decorazione della grande vetrata della chiesa ivi raffigurata. Le due composizioni rivelano una più spiccata tendenza verso il gusto antiquario in voga nell’area padana e forniscono indizi per ulteriori attribuzioni, ormai consolidate nella storiografia moderna. Tra queste si segnalano altre due incisioni raffiguranti rispettivamente un Corteo marino, ispirato ai sarcofagi antichi secondo una moda introdotta a Verona da Giovanni Maria Falconetto, e la Metamorfosi di Amymone, che riprende un disegno attribuito alla bottega di Mantegna (Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe) e che, per la corrispondenza dimensionale, potrebbe essere stata tratta dalla stessa placca della Calunnia. Alla mano del M. sono stati ricondotti anche tre disegni raffiguranti rispettivamente Quattro putti musicanti (già Rotterdam, Museum Boijmans-Van Beuningen), un Tiaso marino (Firenze, Uffizi), caratterizzato da un fine puntinismo e da un effetto di fusione atmosferica, e Bambini che giocano con maschere (Parigi, Musée du Louvre, Cabinet des dessins), che riprende un motivo presente in un rilievo bronzeo della tomba Della Torre di Andrea Riccio (ora al Louvre). Oltre a soggetti di derivazione classica, l’opera grafica del M. annovera anche temi sacri, come il Battista, firmato, che riprende in controparte un’incisione di Giulio Campagnola. La tendenza a trattare la fonte mantegnesca in modo sempre più sciolto si manifesta nella resa delle pieghe, meno angolose e più fitte, caratteristiche ravvisabili anche nella Giuditta con la testa di Oloferne, dove riappare invertito un disegno di Mantegna conservato alla National Gallery di Washington.
Nonostante l’assenza di riferimenti cronologici, è possibile intuire un progressivo avvicinamento del M. all’arte di Giovanni Bellini, filtrata attraverso le rielaborazioni di Alvise Vivarini, Cima da Conegliano (Giovanni Battista Cima) e Bartolomeo Montagna (Bartolomeo Cincani). Affinità formali e analogie nelle strategie di produzione lo assimilano ad artisti come Benedetto Montagna (Benedetto Cincani), a una stampa del quale si ispira l’incisione della Resurrezione, anch’essa firmata, che costituisce un capitolo fondamentale nel percorso artistico del Mocetto.
Nuova è la sensibilità con cui il M. modula la figura di Cristo, che si erge sul sepolcro in un aggraziato contrapposto, senza però rinunciare all’effetto monumentale accentuato dal risalto contro l’ampio sfondo paesistico. Se complessivamente la composizione guarda a modelli come la Resurrezione di Giovanni Bellini a Berlino, un preciso dettaglio estrapolato da quel dipinto dà origine al Bacco ebbro, incisione unanimemente ascritta al Mocetto. In essa il protagonista, seduto per terra con la schiena contro un albero di vite e con una mano portata alla testa, ripropone in controparte uno dei soldati addormentati presenti nella tavola belliniana, mentre l’edificio a destra nello sfondo ricalca – anch’esso invertito – un elemento del paesaggio del S. Girolamo dello stesso Bellini agli Uffizi. Nell’accostarsi ai modelli belliniani, il M. tenta di riprodurne anche gli effetti di luce, con esiti variabili. Nel Battesimo di Cristo, combinazione di due modelli rispettivamente di Bellini e Cima, il luminismo pittorico è brillantemente tradotto mediante un tratteggio finissimo che copre quasi interamente la superficie. Viceversa, nella copia tratta dalla belliniana Madonna con otto santi di Murano si perde la scioltezza con cui, nell’originale, il colore distribuisce gradualmente la luce. Tra le incisioni di tema sacro vanno infine menzionate: la firmata Madonna in trono col Bambino e i ss. Pietro e Giovanni Battista, nota anche in una versione con tre sante; una Vergine col Bambino in trono, probabilmente ripresa dalla pala di S. Giovanni Ilarione dipinta da Bartolomeo Montagna; un’Incoronazione della Vergine, il cui impianto si rifà forse a modelli cimeschi.
Al menzionato gruppo di incisioni si possono accostare alcuni dipinti firmati, in cui si ravvisa una crescente adesione alla koinè linguistica di ascendenza belliniana. Ne offre esempio la tavola trasferita su tela raffigurante Maria tra Gioacchino e Anna (Maastricht, Bonnefantenmuseum; in prestito dall’Aja, Rijksdienst voor Beeldende Kunst), che nelle fisionomie e nell’isometria delle teste reca memoria di prove come il Sacrificio o la Strage degli innocenti, ma se ne distingue in toto sia a livello compositivo che nella resa pittorica.
La struttura spaziale, impostata sulla scansione tra la terrazza in primo piano e lo sfondo paesistico, è funzionale al contenuto allegorico che esalta il ruolo di Maria e dei suoi genitori nel disegno divino, con allusione all’Immacolata Concezione e conseguente risalto dell’importanza della Vergine come corredentrice.
Più semplice l’impianto della Madonna col Bambino (Vicenza, Museo civico), organizzato secondo le consuetudini di immediata fruizione del soggetto proprie della produzione di devozione privata. Ancora una volta il modello belliniano è seguito alla lontana, senza un legame diretto con la produzione del maestro, mentre le volumetrie arrotondate e l’illuminazione tagliente ricordano i modi di Alvise Vivarini.
A questa piccola tavola va affiancato il trittichetto raffigurante la Vergine col Bambino tra i ss. Biagio e Giustina (Verona, Ss. Nazaro e Celso), firmato anch’esso ma non documentato, recante nella predella lo stemma Renier. La parentela formale con la santa del pannello destro legittima la corrente attribuzione al M. di una tavoletta con S. Caterina (Padova, Museo civico), nel cui fondale sono ripresi in controparte gli edifici del già citato S. Girolamo di Bellini agli Uffizi e, per estensione, della S. Elena (Milano, Castello Sforzesco) di dimensioni molto simili.
Le numerose affinità con la coeva generazione di artisti veronesi e l’esistenza del trittico dei Ss. Nazaro e Celso hanno generato la diffusa opinione che il M. avesse lavorato nella città scaligera, sebbene non vi siano prove concrete che possano suffragarla.
Al M. è talvolta ascritta la Madonna col Bambino tra i ss. Caterina e Stefano nella locale chiesa olivetana di S. Maria in Organo (Marinelli), che tuttavia si distingue per caratteristiche che sembrano rimandare a un artista maggiormente addentro alla cultura figurativa veronese di inizio secolo: non solo per una più disinvolta scioltezza pittorica, ma anche per la tendenza a una costruzione prospettico-spaziale monumentale e alla pienezza volumetrica. A partire dal tardo XIX secolo gli si accredita anche la paternità della decorazione ad affresco di una casa sita in Verona al ponte dell’Acqua Morta, di cui sopravvivono frammenti con la Continenza di Scipione, la Giustizia di Traiano e il Leone di s. Marco con gli stemmi Loredan e Gradenigo (ora Museo di Castelvecchio), che celebrano il ripristino del governo veneziano sulla città dopo la conquista imperiale durante la guerra cambraica, nel 1511 (Baron, p. 86). Anche in questo caso, però, le possibili assonanze con talune sue incisioni di soggetto antico, comunque svuotate della consueta curiosità antiquaria, non hanno ancora trovato riscontro sul piano documentale; viceversa, le poche testimonianze a disposizione confermano il consolidarsi della posizione del M. a Venezia.
L’apice della carriera del M. è da individuarsi nell’unica opera di committenza pubblica nota, ovvero la decorazione di parte della vetrata dipinta del transetto destro nella chiesa domenicana dei Ss. Giovanni e Paolo, come attesta la sua firma riportata nel pannello sinistro del registro inferiore. Questo lavoro era già stato messo in opera nel settembre 1510, quando il capitolo del convento decise di pagare il maestro «Johannis Antonii de Laudi» abitante a Murano (Puppi, p. 12), da identificarsi verosimilmente in Giovanni Antonio Licinio de Laude, appartenente a una famiglia di vetrai muranesi (Romano, p. 86). Secondo la ricostruzione più plausibile (La grande vetrata di S. Giovanni e Paolo), la partecipazione del M. all’impresa sarebbe da riferire alla sola fase del completamento, svolta tra il 1510 e il 1515 nell’ambito di un’operazione celebrativa condotta dal patrizio Giorgio Emo in veste di procuratore del convento.
Il grande complesso figurativo si distribuisce su tutta la superficie vetraria, che chiude le aperture di un doppio ordine sovrapposto formato da quattro finestre ogivali, ciascuna delle quali sormontata da una doppia fila di quattro oculi ciascuna, la superiore ridotta al numero di tre nel vertice dell’ogiva. Vi si dispiega un elaborato itinerario cristologico di redenzione ed elevazione a Dio, che parte dalla militanza dei santi guerrieri nel primo registro e ascende verso l’effigie del Padre Eterno fra la luna e il sole, passando per la diffusione del Verbo nel mondo tramite l’operato dei santi domenicani e degli evangelisti, nonché per l’opera di mediazione garantita dalla Chiesa nelle figure della Vergine col Bambino e del Battista affiancati da Paolo e Pietro, e infine per il nodo mariologico dell’Incarnazione che allude e prelude alla Passione di Cristo. L’articolato programma teologico, che inizialmente doveva essere stato concepito come un sistema figurativo esclusivamente dottrinale e di contesto domenicano, viene virato in chiave di commemorazione civile tramite la celebrazione postuma di tre condottieri della Repubblica (Nicolò Orsini, Dionisio Naldi, Leonardo da Prato) morti nella guerra della Lega di Cambrai fra il 1510 e il 1511 e sepolti in prossimità del transetto, ciascuno tumulato prima in un’arca e poi in un monumento equestre. Proprio al M. sono attribuibili le due coppie di santi guerrieri a piedi e a cavallo (questi ultimi identificati in Teodoro e Giorgio) del primo registro, nella cui immagine di milites christiani si consacrano le virtù guerriere degli eroi caduti, inseriti allusivamente nell’itinerario di ascesa e salvezza prestabilito. Dal punto di vista tecnico-formale, permane l’attitudine grafica al tratteggio e all’ombreggiatura, che peraltro si rivela in linea con gli sviluppi della pittura vetraria cinquecentesca, laddove il trattamento riservato alla superficie è analogo a quello usato nella pittura su tela o tavola (Romano, p. 88). Per queste caratteristiche, nonché per la dimestichezza con il repertorio antiquariale, è stata proposta l’attribuzione al M. anche dei trilobi delle cuspidi superiori (ibid., pp. 54-56).
Contigua al cantiere dei Ss. Giovanni e Paolo fu la realizzazione di quattro piante urbane (la prima delle quali firmata) che illustrano il trattato De Nola, pubblicato nel 1514 a Venezia dall’umanista nolano Ambrogio Leone. La relazione con il M. fu presumibilmente legata alla presenza di Leone ai funerali di Nicolò Orsini, conte di Nola, celebrati a Venezia nella chiesa domenicana alla fine di gennaio del 1510. Nella premessa si ricorda che il M. eseguì le incisioni per conto di un certo Franco Orsini, di cui non è accertato il grado di parentela col defunto condottiero. Si tratta dell’ultima opera del M. databile con certezza.
Nello stesso 1514 il M. risulta abitare a S. Aponal, in affitto da Paolo e Piero di Francesco Morosini, ai quali pagava 13 ducati annui. Di lui non si hanno altre notizie fino al 1531, quando in data 21 agosto rogò testamento, nominando commissario Sebastiano dall’Orto e lasciando tutti i beni al figlio Domenico, residente fuori Venezia. Resta così ignoto un quindicennio almeno della sua carriera. L’assenza di ulteriori notizie lascia supporre che morì poco dopo.
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