GAROPOLI, Girolamo
Nacque a Corigliano Calabro nel Cosentino probabilmente nel 1605. Non abbiamo notizie riguardanti la sua formazione e gli studi seguiti. In politica fu un convinto oppositore della Spagna, certamente influenzato dall'antispagnolismo ampiamente diffuso in Calabria tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo.
Trasferitosi ancora molto giovane a Roma, fu segretario di Filippo Colonna, principe di Paliano e gran connestabile del Regno di Napoli. Tale mansione gli offrì l'opportunità di stringere una duratura amicizia con Pietro Mazzarino, intendente nell'amministrazione del principe, e col figlio di questo, Giulio, futuro cardinale e artefice della politica francese. In questi anni, essendo il suo operato piuttosto accreditato presso papa Urbano VIII (Maffeo Barberini), il G. svolse numerosi incarichi per conto della S. Sede.
Piuttosto attivo nell'ambito dei circoli culturali romani, il G. fu ascritto all'Accademia degli Infecondi. Nel 1638, in occasione dei festeggiamenti organizzati dal cardinale Antonio Barberini per la nascita del delfino di Francia, il futuro Luigi XIV, egli compose il sonetto "E quali, o grand'Antonio, ardono il mondo", inserito in seguito in una raccolta di Poesie de' signori accademici Infecondi di Roma (Venezia 1678).
Alla morte di Filippo Colonna (1639) il G. chiese e ottenne una parrocchia a Corigliano. Così, dopo un soggiorno a Bologna durante il quale pubblicò il poema eroico L'Aurena (Bologna 1640), il G. fu sino al 1650 di nuovo in patria, in qualità di arciprete della chiesa di S. Maria della Platea.
L'Aurena è un poema in venti canti composto dal G. almeno dieci anni prima della pubblicazione, e dedicato a Ferdinando II de' Medici granduca di Toscana. Nell'Allegoria et argomento del poema l'autore indica in Torquato Tasso il proprio maestro e la guida di un viaggio allegorico verso la gloria letteraria. La trama dell'opera, sulla scia della tradizione cinquecentesca, è collocata sullo sfondo di un immaginario cavalleresco caratterizzato da amori contrastati, storie di incantesimi e rivalità.
Dopo il 1650 il G., pare a causa di dissapori alimentati in patria da alcuni maldicenti, tornò a Roma questa volta sotto la protezione del cardinale Rinaldo d'Este. Sono questi gli anni della composizione della sua opera più famosa, Il Carlo Magno, o vero La Chiesa vendicata (Roma 1655; 2ª ed. ibid. 1660), poema eroico nel quale il G. manifestò le proprie aspettative in ambito politico.
Nel Carlo Magno il G. espose il proprio ideale politico, quello cioè di un'Italia retta da una monarchia teocratica su cui la Francia avrebbe dovuto esercitare una sorta di imparziale e disinteressato protettorato. Il primo ostacolo alla realizzazione dell'obiettivo politico prospettato dal G. era rappresentato dalla soggezione italiana al dominio spagnolo. La dedica è dunque un'esortazione al monarca francese affinché emuli le imprese di Carlo Magno: come quest'ultimo aveva distrutto il regno longobardo in Italia, così ora il suo discendente avrebbe dovuto liberare l'Italia dal dominio spagnolo. Coerentemente con tali premesse, il poema rievoca in 21 canti e 1977 stanze (divenute 1997 nella seconda edizione) le vicende della guerra di Carlo Magno contro i Longobardi ricalcando pedissequamente l'esempio dell'Orlando furioso di L. Ariosto, del quale utilizza modalità e tecniche narrative. È marcatamente autobiografico il canto XIII, in cui l'autore ricorda il proprio giovanile servizio presso le "Corti inique" (in cerca di gratificazioni che non arrivarono mai) e lo spiacevole rientro in patria, dove "l'invidia" e "i maligni ingegni" lo costrinsero a una definitiva partenza per Roma. Alla fine l'esercito di Carlo Magno, anacronisticamente guidato da Pietro Mazzarino (padre del cardinale Giulio, anch'egli lodato nel canto XIV) sconfigge l'esercito di Desiderio e depone "l'acquistato Impero" nelle mani del papa.
La pubblicazione del Carlo Magno non mancò di suscitare polemiche, tanto che nel 1660, in margine alla seconda edizione dell'opera, il G. pubblicò una Apologia della Censura fatta dall'accademico Partenio contro il Carlo Magno, ove in venti punti rispondeva alle accuse mosse al suo poema da un ignoto accademico in una Censura, a noi non pervenuta, apparsa subito dopo la sua prima edizione. Qualche dubbio è stato sollevato riguardo l'estraneità del G. a tutta l'operazione. Il Crescimbeni ipotizzò infatti che l'autore della Censura fosse lo stesso G. in cerca di notorietà; da altri biografi l'accademico Partenio fu invece identificato con G.F. Savaro (autore, in realtà, di due sonetti in lode del Carlo Magno).
Negli anni successivi il G. continuò a dedicarsi ai propri interessi letterari. Nel 1665 pubblicò a Bologna Ondimare, o vero La Costanza espugnata, tragicommedia in tre atti (ristampata nel 1670) in cui si narrano le disavventure di un giovane schiavo che, scopertosi di stirpe reale, sposerà la principessa che gli ha salvato la vita.
Il G. morì nel 1678, probabilmente a Roma.
Al G. è stata inoltre attribuita la tragicommedia Alceste, o sia La Costanza fatale (Bologna s.d.). Il poeta Girolamo Baruffaldi compose in sua memoria il sonetto "Il Carlo Magno a te mi manda…" (I cenotaffi, in Rime serie e giocose, I, Ferrara 1786, p. 313).
Fonti e Bibl.: N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, pp. 158, 337; G.M. Crescimbeni, Comentarj… intorno a Della istoria della volgar poesia, III, Venezia 1730, pp. 216 s.; G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, I, Milano 1848, p. 11; A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano 1912, p. 289; F. Grillo, G. G. poeta civile del secolo XVII, New York 1945 (con appendice bibliografica); L. Aliquò Lenzi - F. Aliquò Taverriti, Gli scrittori calabresi, II, Reggio Calabria 1955, p. 20 (che attribuisce al G. anche un'opera dal titolo La regina statista d'Inghilterra e il conte d'Essese).