GALATEO, Girolamo
Nato a Venezia attorno al 1490, entrò nell'Ordine dei francescani conventuali all'interno del quale trascorse un periodo dedicato allo studio - avrebbe conseguito il grado di maestro in teologia - e alla predicazione.
La vita del G. resta priva di riscontri documentari sino al 9 maggio 1530, quando una lettera di Clemente VII sollecitava il vescovo Gian Pietro Carafa a proseguire il processo, da lui già istruito per incarico del nunzio a Venezia, per le opinioni eterodosse che il G. aveva diffuso in pubblico e in privato nella città di Padova. Qualche giorno dopo, il 15 maggio, il ben informato cronista veneziano Marin Sanuto annunciava infatti la partenza del Carafa da Venezia per Padova con l'obiettivo di cassare la blanda sentenza già pronunciata dal canonista Paolo Borgasio e per formare un nuovo processo, che alla fine del novembre 1530 era ancora in corso, con il G. in carcere già da tempo. Il 16 genn. 1531 si giunse a una prima soluzione: la sentenza del Carafa - che condannava il G. a essere pubblicamente "desgradato" in S. Marco a opera del patriarca -, dopo una prima approvazione del doge, incontrò notevoli resistenze e, dopo un'accesa discussione, il 18 gennaio il Consiglio dei dieci e la zonta ne deliberarono la sospensione con una netta maggioranza. Si decise altresì il trasferimento del G. in una prigione "serata et ben secura" nonché la convocazione del Carafa per informarlo della delibera assunta "per convenienti respecti". Il significativo commento che diede il cronista Sanuto ("et fo optima deliberatione per esser materia di Stado") è indicativo sia delle protezioni di cui godeva il G. nel ceto politico veneziano sia dell'orientamento della Repubblica volto a non cedere all'autorità ecclesiastica una delega esplicita sul controllo del dissenso ereticale. Se il Carafa mostrava formalmente un assenso alla decisione, il papa invece espresse il suo disappunto all'oratore veneziano. L'autentica opinione del Carafa è però documentata dal suo memoriale De Lutheranorum haeresi reprimenda et Ecclesia reformanda, inviato al papa nell'ottobre 1532; tra i religiosi pericolosi indicava appunto il G., il cui processo era concluso ma la sentenza non era stata eseguita con motivazioni analoghe a quelle già esposte di fronte a Clemente VII: se il papa non ha ancora fatto "dimostratione alcuna contra queste heresie", a buon diritto Venezia ritiene di non dover essere in materia più zelante del papa (Concilium Tridentinum, XII, 68).
Negli anni successivi i periodici dispacci inviati alla Curia romana dai nunzi residenti a Venezia non tralasciarono accenni alla questione del G., segnalando, fra il dicembre 1533 e il gennaio 1534, gli ostacoli all'inchiesta mossi dall'inquisitore bresciano - un minorita come il G. - e le ostilità veneziane a una esecuzione della sentenza nel timore di un riflesso negativo sui rapporti commerciali con il mondo tedesco. Il 21 luglio 1535 il nunzio Girolamo Aleandro venne convocato dai Dieci e consultato sui modi opportuni per sollecitare a Roma un intervento sul caso. La scelta di una pressione sulla Curia romana, condivisa da 18 voti favorevoli e con 4 contrari e 6 astenuti, suscitò la reazione negativa dell'Aleandro che, quattro giorni più tardi, anticipava a Roma che eventuali sue lettere a favore del "pessimo lutherano" non dovevano essere accolte perché sollecitate. La protezione accordata al religioso portò nel settembre 1536 a un conflitto aperto con il nuovo nunzio, Girolamo Verallo: questi lamentava che il G. fosse stato dimesso dal carcere perché si potesse - come si esprimevano i Dieci nella delibera del 25 ag. 1536 - "curar della grave infermità sua, acciò non mora in preson cusì miseramente". Il G. fu accolto nella casa del "prudente citadin" Antonio Paulucci che si fece garante per la somma di 1000 ducati. Come traspare anche dal testo della delibera, non doveva mancare un orientamento favorevole al G. che, come osservava sdegnato il Verallo, poco tempo dopo la concessione degli arresti domiciliari andava liberamente "per le piazze et lochi più celebri di questa città" in abito laicale; il nunzio aveva sollecitato una sua pronta carcerazione, ma un anziano patrizio gli obiettò che il verdetto del Carafa era molto ingiusto, destando la vibrata protesta del Verallo. Le pressioni sul caso del G. continuarono a farsi sentire: il minore conventuale Martino da Treviso - lodato nel 1532 dal Carafa per la diligenza con cui seguiva l'attività dei "ribaldi heretici" - informò, il 22 febbr. 1538, il medesimo prelato che due patrizi veneziani, Francesco Contarini e in particolare Andrea Pasqualigo, nipote del cardinale Gasparo Contarini, erano intervenuti su di lui, ma precisò di aver ribadito nell'occasione "l'ingani et la obstination" del frate incarcerato.
L'unico scritto conservato del G. è l'Apologia, cioè Defensione di Hieronymo Galateo la quale ei scrisse a lo illustrissimo Senato di Vinegia, ne la quale si contengono gli principali articoli del Christianesimo, stampata a Bologna presso Luca Fiorano e fratelli con la data del 2 febbr. 1541. Il nome del tipografo è del tutto ignoto, e non è escluso che la stampa sia invece avvenuta a Venezia. Un elemento a favore di questa ipotesi è anche il fatto che la copia dell'Apologia conservata presso la Staatsbibliothek di Monaco di Baviera è rilegata assieme a un'anonima Opera divina della christiana vita nuovamente stampata che è in realtà la traduzione del De libertate christiana di Lutero, probabilmente uscita a Venezia all'inizio degli anni '40.
Il testo del G. è preceduto da una prefazione e da una breve biografia dell'autore, stese da un Eusebio Salarino bolognese, non altrimenti noto. La dedica al Senato di Venezia fa riferimento ai sette anni trascorsi "con inenarrabili miserie et incurabile infirmitade in oscurissimo carcere, in vita solitaria, a pan d'angustia et acqua di tribulatione" (che potrebbero far datare l'Apologia agli anni 1537-38) e che il G. riuscì a sopportare con la speranza di poter presentare alle autorità veneziane le sue vere opinioni attraverso uno scritto, poiché gli era precluso esprimerle a viva voce. La scelta del destinatario della dedica si deve alla nascita veneziana del G., convinto che la giustizia divina "mirabilissimamente la riluce et splende" nei dominii della Serenissima. Segue una prima professione di fede in Dio come creatore dell'Universo in antitesi a quei "falsi Philosophi anchor che pochi" che ne hanno negato l'esistenza; nella Trinità, in Dio Padre, in Gesù Cristo nella duplice natura divina e umana e nello Spirito Santo. Il seguito dell'operetta è articolato in paragrafi che costituiscono, evidentemente, la confutazione dei 13 articoli ereticali imputatigli.
I punti in discussione toccano in particolare la predestinazione e il libero arbitrio, i sacramenti (battesimo, confessione, eucaristia), l'esistenza del purgatorio, i miracoli, le immagini sacre, il culto dei santi, il valore dei voti e l'autorità papale. In generale il G. proclama la sua volontà di non discostarsi dai testi biblici e dalla tradizione patristica, oltre che dall'insegnamento della Chiesa, ora qualificata come "Santa" ora come "Catholica". I rinvii prevalenti nel testo sono alla Scrittura - il Vangelo di Giovanni e, soprattutto, le lettere di Paolo - e, tra i padri della Chiesa, ad Agostino, mentre il richiamo alla tradizione ecclesiastica appare spesso generico se non esornativo. Densa di richiami ad Agostino è la discussione sui predestinati alla salvezza eterna che il G. ritiene siano indicati "avanti la constitutione del mondo", anche se ricorda di aver esortato, quando predicava, "che niuno non vogli esser tanto temerario che vogli dire: questo è predestinato questo non". Ancora impregnate di citazioni agostiniane sono le pagine sul libero arbitrio in cui il G. afferma di credere, purché si riconosca il ruolo della grazia divina che lo rende operante. Analogamente non nega il valore delle opere nell'economia della salvezza, anche se scrive che esse senza la fede sono "una radice sterile senza frutto". Per quanto attiene l'eucaristia, il G. insiste sul suo significato di commemorazione della morte di Cristo. Su un tema controverso come le indulgenze, il G. dichiara in termini generali di ammetterle nella funzione di perdono e remissione dei peccati, riconoscendo però di averne forse parlato in termini critici. In materia di autorità del papa, il G. replica di non averne mai parlato e di riconoscerne comunque il ruolo di guida dei sacerdoti e di vicario di Cristo e, in modo elusivo, ammette di rispettarne il potere. Esplicito è invece il discorso sulle immagini sacre: non dovrebbero essere oggetto di culto per gli atti di superstizione che ne derivano e per l'erronea opinione che tele, tavole, muri, pilastri e sassi siano di per sé in grado di produrre miracoli. Nel paragrafo conclusivo si ribadisce il valore fondamentale della parola divina che deve essere annunciata costantemente come antidoto alla malvagità dell'uomo e alla miseria dei tempi, ai quali il G. contrappone la Chiesa primitiva dove si viveva in conformità alle Sacre Scritture. Riteneva invece che al suo tempo nel campo dei cristiani dominavano le discordie, i vizi, le crudeltà e l'ambizione politica al punto che la religione "è raffredata et quasi dirò estinta che niun vestigio di quella da niuna parte appare". Il G. esortava dunque i Veneziani a sostenere Cristo Crocifisso e l'Evangelo come strumento di grazia, quell'Evangelo che egli stesso aveva esposto nella sua purezza e che ora le autorità politiche dovevano consentire che fosse letto, predicato e insegnato. A proposito il G. ricorda che teneva sempre la Bibbia sul pulpito, in contrasto con quei predicatori che, anziché il Verbo del Signore, esponevano "vana Philosophia, fabule et opinione d'homini".
Sul piano dottrinale lo scritto si sofferma ripetutamente sulla figura del Cristo come elemento essenziale della salvezza dell'uomo peccatore; l'esposizione, intessuta di citazioni neotestamentarie, mentre percorre tematiche anche condivise in ambienti religiosi non schierati in senso ereticale, appare meno insistita e più evasiva su questioni controverse come l'autorità del pontefice e il ruolo della Chiesa. È certo comprensibile la cautela e la misura da parte del G. poiché si trattava non di un testo anonimo di propaganda ma di un'autodifesa di fronte a quel potere politico che a Venezia condivideva con quello ecclesiastico una funzione di controllo sulle forme del dissenso religioso.
Il 7 genn. 1541 il G., ancora detenuto in Venezia, si spense poche settimane prima che venisse data alle stampe la sua Apologia, che circolava ampiamente a Modena, come attestano il cronista Lancillotti nell'aprile 1541 e Giovanni Morone, che ne informava il cardinale Alessandro Farnese nell'agosto 1542; anche a Venezia l'opera non era ignota, essendo nella biblioteca dell'eterodosso Lucio Paolo Rosello. Il G. fu sepolto nel cimitero per ebrei ed eretici del Lido.
Un'eco della tormentata vicenda del G. e del conflitto che aveva destato fra potere politico e potere ecclesiastico risulta da un dispaccio inviato da Roma a Venezia dall'oratore Bernardo Navagero il 23 ott. 1557, il quale riferiva che Paolo IV Carafa aveva rievocato il processo da lui istruito contro quel frate G. che, liberato una prima volta dal carcere, "facea peggio che mai […] andando nelle botteghe de librari, spetiali e calzolari a seminare il suo veneno"; e ancora ricordava compiaciuto di aver cacciato un membro del Consiglio dei dieci, ribadendo che la difesa dell'integrità della fede rientrava nelle competenze dell'autorità religiosa.
Fonti e Bibl.: R. Freschi, G. G. e la sua Apologia al Senato veneto, in Studi e materiali di storia delle religioni, XI (1935), pp. 41-109; il G. avrebbe composto, teste il Salarino, uno scritto sulla verginità di Maria, un manuale sulla confessione e una silloge di passi scritturali, dei quali però non sono rimaste tracce. Dell'Apologia che risultava nota al Freschi solo attraverso la copia della Universitätsbibliothek di Monaco esistono anche altri due esemplari, presso la Staatsbibliothek di Monaco e la Bibliothèque nationale di Parigi.
Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci, Parti Segrete, reg. 3, cc. 85v-86r, e ivi, filza 4, 21 luglio 1535 e 25 ag. 1536. E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, V, Venezia 1842, pp. 399, 571; T. de' Bianchi detto Lancillotti, Cronaca modenese, VII, Parma 1869, p. 42; B. Fontana, Documenti vaticani contro l'eresia luterana in Italia, in Arch. della R. Soc. romana di storia, XV (1892), p. 111; M. Sanuto, I diarii, LIII, Venezia 1899, col. 212; LIV, ibid. 1899, coll. 138, 239, 241, 245, 284; Concilium Tridentinum, ed. Soc. Goerresiana, XII, Friburgi Br. 1930, pp. 67 s.; Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, a cura di M. Firpo - D. Marcatto, III, Roma 1985, pp. 154 s. e V, ibid. 1989, pp. 311 s.; K. Benrath, Geschichte der Reformation in Venedig, Halle 1886, pp. 8-12, 114 s.; E. Comba, I nostri protestanti, II, Firenze 1897, pp. 53-81; A. Battistella, Il S. Officio e la riforma religiosa in Bologna, Bologna 1905, p. 130; P. Tacchi Venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, I, Roma-Milano 1910, pp. 327, 331 s., 504 s.; Nunziature di Venezia, a cura di F. Gaeta, I, Roma 1958, pp. 141, 160 s., 207, 328; II, ibid. 1960, pp. 76-78; F. Gaeta, Un nunzio pontificio a Venezia nel Cinquecento (Girolamo Aleandro), Venezia-Roma 1960, ad ind.; A. Stella, Dall'anabattismo al socinianesimo nel Cinquecento veneto, Padova 1967, p. 47; Id., Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo, Padova 1969, pp. 107 s.; S. Cavazza, Libri in volgare e propaganda eterodossa: Venezia 1543-1547, in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, Modena 1987, p. 20; M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell'Italia del Cinquecento…, Roma-Bari 1993, pp. 16-18.