GAGLIOFFI, Girolamo
Nacque a L'Aquila intorno al 1470, figlio del nobile Filippo Angelo e di Isabella Porcinari. Ebbe un'educazione raffinata e si fece chierico.
Successore designato dello zio Vespasiano, arcidiacono dell'Aquila, e capo della parte filopontificia durante la congiura dei baroni, ucciso con molti altri famigliari dopo la sconfitta della sua fazione nel 1486, il G. fu costretto a rifugiarsi, in data non nota, in Francia, ospite del principe di Salerno Antonello Sanseverino, alla corte di Carlo VIII.
Desideroso di vendicarsi sugli Aragonesi, fu tra i fautori della discesa in Italia del re francese; quando, il 4 febbr. 1495, L'Aquila alzò le bandiere francesi, il G. entrò solennemente in città, accolto da una folla plaudente e dai rappresentanti della Municipalità. Il 25 marzo il governatore francese Claude de Lenoncourt lo nominò sindaco e procuratore.
Il G. negoziò e ottenne da Carlo VIII il diritto a battere moneta, condiviso solo con Napoli, e, per disporre di un congruo bilancio, recuperò una parte del credito di 12.000 ducati, vantato dall'Aquila nei confronti di Venezia per una condotta militare dei Camponeschi. A Venezia il G. rimase da aprile a settembre, cercando anche, ma senza esito, di trattare un'alleanza con la Repubblica. Ritornato all'Aquila, trovò la cittadinanza impaurita dalla repressione di un tentativo di rivolta filoaragonese e dalle notizie sulla ritirata di Carlo VIII. Nel solco della tradizione familiare, il G. si schierò per la difesa delle libertà comunali contro la provincia feudale, politica che gli permise di conservare il controllo dell'Aquila, pur allontanandosene per seguire l'esercito francese in Terra di Lavoro e in Puglia, fino all'agosto del 1496. Il giorno 15 Alfonso di Quarati concluse, in nome del re Ferdinando II, un accordo con i capi delle fazioni aquilane, che permise la restaurazione del governo aragonese, obbligando all'esilio il G., Giacomo Odoardi, Giacomo Antonio e Renato Caselli.
Secondo la tradizione il G. si sarebbe accordato con il suo parente Ludovico Franchi, che gli sarebbe subentrato nella guida della città in nome degli Aragonesi, mentre egli stesso preparava il proprio ritorno. Per quanto non provato, l'accordo è probabile, perché il G. non tornò in Francia, ma rimase fino al 1497 poco distante dall'Aquila, muovendosi tra i territori abruzzesi degli Orsini, Roma, Ascoli e Fermo. È certo però che il Franchi, convintosi del definitivo ritiro dei Francesi, decise infine di schierarsi con gli Aragonesi, abbandonando al suo destino il G., che trovò rifugio a Venezia, seguendo per conto di Bartolomeo d'Alviano le trattative sull'ingaggio del condottiero nell'esercito di S. Marco.
Tra il 1498 e il 1499 il G. accompagnò l'Alviano nella campagna in Casentino e si recò più volte a Venezia per rappresentarlo e per incontrare l'ambasciatore francese A. Maineri, dal quale seppe dell'imminente arrivo in Italia dell'esercito di Luigi XII, con la possibilità, quindi, di un suo ritorno all'Aquila. L'11 nov. 1500 Luigi XII e il re spagnolo Ferdinando il Cattolico si accordarono per la divisione del Regno di Napoli col trattato segreto di Granata. Prima della prevista cessione dell'Abruzzo alla Francia il G. scese nel Cicolano, formando una banda di esuli e montanari locali. Un primo tentativo di entrare in L'Aquila di sorpresa, forse contando ancora sul Franchi, fallì. Ritiratosi tra Cascia e Leonessa, il G. decise di disimpegnarsi e di mettere in atto, nel frattempo, alcune vendette, la prima delle quali fu l'uccisione a Roma, il 23 giugno 1501, per mano di sicari, dell'arcidiacono dell'Aquila F. Lucentini, colpevole di aver preso il posto dello zio Vespasiano.
L'8 agosto, costretto il Franchi alla fuga, il G. entrò nuovamente in L'Aquila e, pur trovandola impoverita dalle lotte intestine e da focolai di peste, scatenò i suoi uomini al saccheggio delle case dei filoaragonesi, o presunti tali, e riprese la sua politica municipalistica. Il 14 settembre si recò a Napoli dal viceré francese Louis de Nemours, chiedendogli la conferma del governo e per fare rivendicazioni territoriali, inviando contemporaneamente un'ambasceria in Francia, capeggiata da T. Casella, per rendere omaggio a Luigi XII. A causa del peggiorare dei rapporti tra Francesi e Spagnoli, il Nemours accolse le richieste del G., nominandolo conte di Montorio e Popoli - titoli che venivano tradizionalmente concessi a chi avesse assunto una posizione di primazia sull'Aquila - e consigliere regio. Inoltre, i confini del comitatus dell'Aquila si estesero a un raggio di 70 km dalla città, mai raggiunto prima. Il G. non riuscì invece a ottenere un'uguale legittimazione dal papa Alessandro VI, che rifiutò di nominare vescovo dell'Aquila un suo parente, nè un francese; ma ciò non impedì al G. di reggere saldamente la città per tutto il 1502.
Nel 1503 il G. tornò a Napoli dal Nemours e, riaccesesi le ostilità tra la Francia e la Spagna, partecipò alle operazioni militari dell'esercito francese in Puglia. Il 16 aprile rientrò in L'Aquila, dove fu sorpreso dalla notizia della sconfitta dei Francesi a Cerignola, il 28 aprile. Timoroso di una rivolta della fazione nemica, diede mano libera ai suoi seguaci che, il 4 maggio, massacrarono per le strade della città sedici persone sospettate di complotto.
L'eccidio si risolse in una vendetta perpetrata non tanto dal G., che se ne assunse la responsabilità, quanto dal ceto degli uomini di legge aquilani organizzatosi per impadronirsi dei patrimoni - nonché dei titoli - di antiche e ricche famiglie come gli Antonelli, i Santucci, i Castiglioni.
L'ultimo periodo della signoria del G. fu sempre più convulso: vittima dell'ingenuità e della lentezza con cui le notizie arrivavano all'Aquila, il G. confidò troppo sull'esito delle trattative di pace tra i Francesi e gli Spagnoli - che fallirono - e sulle sue capacità di assoldare milizie. Legatosi a G. Orsini, riuscì ad arruolare la compagnia di G. Sanseverino e armare milizie cittadine solo con un prestito di 2000 ducati, negoziato a Roma con l'esoso interesse del 30% per sei mesi. Per due mesi resistette alla pressione delle forze di F. Colonna e del Franchi e il 3 luglio chiese soccorsi alla Repubblica di Firenze; il 10, con le truppe del Sanseverino e circa trecento cittadini del suo partito, abbandonò L'Aquila indisturbato e si ritirò a Cittaducale, dove il gruppo si disperse.
Il G. seguì i Francesi sul Garigliano. Tra settembre e novembre progettò con loro una spedizione in Abruzzo, non portata a termine, per distogliere dal fronte parte delle truppe di Gonzalo de Cordoba, che di lì a poco sarebbe divenuto viceré. Dopo la resa di Gaeta, insieme con quanto restava dei suoi uomini, riparò in Francia, dove, in data imprecisata ma pochi anni più tardi, morì.
Il G. non ebbe eredi diretti; i suoi cospicui beni furono confiscati dal Franchi e, morto costui, recuperati dalle ultime discendenti della famiglia, le nipoti Dianora e Diamante, tramite le quali, per diritto matrimoniale, passarono ai conti di Marsciano. Il ricordo del G., invece, si conservò a lungo. I contemporanei gli riconobbero "molte buone qualità… che gli le oscurarse l'aver seguito le parti" (Cirillo, 1570, c. 106r); solo in epoca romantica la sua immagine divenne quella di un tiranno sanguinario, mentre oggi è stata posta nella giusta dimensione dagli studi di R. Colapietra.
Fonti e Bibl.: L'Aquila, Bibl. provinciale, Antico Archivio Aquilano, Riformagioni, T 10, cc. 72 s., 75, 77, 80 s., 85-87, 90; I. Burchardi Liber notarum, a cura di E. Celani, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXXII, 2, p. 289; B. Cirillo, Annali della città dell'Aquila, Roma 1570, cc. 90 s., 95v, 97v-99v, 101v, 103v s., 106r; A.L. Antinori, Raccolta di memorie istoriche delle tre provincie degli Abruzzi, IV, Napoli 1783, pp. 93 s., 103, 121, 129-135, 137, 142-149; A. Dragonetti, Le vite degli illustri aquilani, L'Aquila 1847, pp. 263, 266-268; Dispacci di A. Giustinian, a cura di P. Villari, II, Firenze 1876, pp. 9 s.; M. Sanuto, I diarii, II, Venezia 1879, coll. 260, 286, 546, 571, 723, 973, 994 s.; IV, ibid. 1880, coll. 65, 750; La spedizione di Carlo VIII in Italia, a cura di G. Berchet, Venezia 1883, p. 293; M. Oddo Bonafede, Storia popolare della città dell'Aquila, Lanciano 1889, pp. 190-196; Documenti inediti sullo Stato dell'Aquila intorno al 1503, a cura di P. Santini, in Bull. della Società di storia patria "A.L. Antinori" negli Abruzzi, III (1891), 6, pp. 163, 166-168, 170-173, 175 s., 181-183, 185, 190, 200 s.; IV (1892), 8, pp. 52 s., 55 s., 59, 62, 69, 72-74, 76, 81-83, 153-157, 164, 166, 175, 179, 183 s., 192-194, 206 s.; Catalogo delle scritture appartenenti alla Confraternita di s. Maria della Pietà nell'Aquila, a cura di G. Rivera, ibid., s. 2, XVII (1905), 10, pp. 6 s.; Q. Bernardi, Toponomastica storica dell'Aquila, Sulmona 1961, p. 136; R. Colapietra, Dal Magnanimo a Masaniello. Studi di storia meridionale nell'età moderna, I, Salerno 1972, pp. 260, 267 s., 273, 277 s., 280 s., 286 s., 289, 292, 297 s., 301, 303, 313, 356, 359, 382, 387 s., 390-392, 412, 466, 530; Id., Spiritualità, coscienza civile e mentalità collettiva nella storia dell'Aquila, L'Aquila 1984, pp. 249, 258, 267 s., 273, 341, 393, 741, 745.