GIOVANNI
Fu vescovo di Arezzo dall'868. Il nome del padre, Trasone, è noto attraverso un documento dell'877 con cui G. faceva donazione al monastero di Farfa di alcuni beni lasciatigli in eredità. Già "archicancellarius et secretarius" dell'imperatore Ludovico II, come si legge nel Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma, divenne alla morte di questo (875) uomo di fiducia anche del candidato del papa Giovanni VIII alla successione imperiale, Carlo il Calvo: insieme con Gauderico vescovo di Velletri e Formoso vescovo di Porto (futuro papa Formoso) fece infatti parte dell'ambasceria che, a nome del papa Giovanni VIII, invitò Carlo a Roma. G. lo accompagnò in Italia e il 29 sett. 875 era al suo fianco a Pavia. In questa occasione Carlo gli concesse la curtis di Arialta (dove in seguito fu costruito il castrum di Monte San Savino), quella di Biforco (nell'attuale Casentino) e quella urbana di Turris.
G. senza dubbio assistette all'incoronazione imperiale (25 dic. 875). Al neoimperatore, ospitato ad Arezzo, non piacque che la sede dell'episcopium fosse in una chiesa, S. Donato, situata fuori dalla cinta muraria cittadina. Pertanto l'anno successivo (4 marzo 876) offrì al vescovo l'area dell'antico foro perché vi fossero trasferite la cattedrale e la casa dei canonici, benché nessun altro documento ricordi in quest'epoca una chiesa qui edificata; forse G. non acconsentì ad allontanare il clero dall'antica basilica paleocristiana extra muros. Nel febbraio 876 G. fu, a Pavia, tra i sottoscrittori, subito dopo l'arcivescovo di Milano, del giuramento di fedeltà dell'aristocrazia italiana a Carlo, in questa occasione incoronato re d'Italia. Di lì a poco, insieme con Giovanni vescovo di Tuscania, G. fu mandato da Giovanni VIII come legato al concilio di Ponthion, indetto per discutere e risolvere i contrasti tra il nuovo sovrano e Ludovico il Germanico. In tre lettere il papa esortò i vescovi fedeli a Carlo il Calvo ad appoggiare i due inviati all'assemblea che, convocata il 14 marzo 876, si svolse tra il 21 giugno e il 16 luglio. A settembre G. raggiunse con Carlo Colonia, dove fu emesso un documento con cui l'imperatore cedette al vescovo aretino il monastero di S. Antimo, perché vi si insediassero 40 monaci benedettini.
Nel luglio dell'877 G. partecipò al grande concilio convocato a Ravenna da Giovanni VIII. Anche dopo la morte di Carlo il Calvo (6 ott. 877), il pontefice romano continuò ad avvalersi di G. come intermediario per eventuali negoziazioni con Carlo III il Grosso. Costui a sua volta favorì il vescovo d'Arezzo: fin dall'879 gli accordò la conferma dei beni e delle immunità della sua Chiesa. Nel marzo 881 Carlo, di ritorno dalla sua incoronazione a Roma, tenne a Siena un placito, attorniato da una numerosa rappresentanza dell'alta nobiltà italiana, in cui diede piena soddisfazione ad Arezzo, a scapito di Siena, sulla controversia detta convenzionalmente "delle 18 parrocchie" (ma nei numerosi documenti che la riguardano il nome e il numero variano in continuazione).
Si tratta di un episodio di quella contesa, durata non meno di cinque secoli, che vide in contrasto Siena e Arezzo per l'attribuzione alle rispettive diocesi di alcune pievi e parrocchie di confine. Già nell'agosto dell'877 G. aveva ottenuto da papa Giovanni VIII una conferma dei possedimenti della Chiesa d'Arezzo, ma la Chiesa senese aveva approfittato della morte di Carlo il Calvo per lanciare una nuova offensiva, rintuzzata dagli Aretini grazie alla riconferma dei privilegi sottoscritta nell'879 da Carlo il Grosso.
Nell'anno seguente (882), un documento emesso dalla Cancelleria del Grosso rivela per la Chiesa aretina una situazione di crisi insospettabile a confronto con i successi e la fortunata carriera del suo vescovo. Infatti, da Ravenna il 15 febbraio l'imperatore emanò un diploma che, con la severa imposizione del rispetto delle immunità ecclesiastiche, costituiva di fatto un'esplicita denuncia dei numerosi abusi di cui la diocesi era fatta vittima.
G. partecipò, nell'898, al concilio ravennate indetto dal papa Giovanni IX che riabilitò definitivamente papa Formoso. Proprio l'atteggiamento filoformosiano dovette ingraziargli il partito spoletino. Per intercessione della vedova dell'imperatore Guido, Ageltrude di Benevento, e dell'arcicancelliere, il vescovo di Torino Amolo, G. ricevette da Lamberto di Spoleto la curtis di Cacciano nella Val d'Ambra, a nordovest di Civitella in Valdichiana (2 sett. 898).
G. morì senza dubbio nel corso dell'estate del 900. A partire dal 12 ottobre è già nominato il suo successore Pietro (III).
G. aveva buone conoscenze teologiche ed era in grado di padroneggiare la lingua greca. Fu autore di un sermone sull'Assunzione copiato nello scriptorium di Reichenau e forse di una traduzione dal greco di un testo sull'Ascensione che costituì lo spunto per un poema di Rosvita di Gandersheim. Secondo Pier Damiani G. avrebbe sollecitato dal papa Benedetto IV le reliquie delle vergini martiri Fiora e Lucilla. Egli narra che il cavallo che le trasportava si rifiutò di procedere alla volta di Arezzo e si diresse invece, condotto da un angelo, in un luogo situato a 2000 passi dalla città, ove furono subito costruiti una basilica e un cenobio. Malgrado l'evidente stereotipia agiografica del racconto, è plausibile che G. abbia ottenuto quelle reliquie e che i monaci siano stati insediati a Ss. Fiora e Lucilla per sua iniziativa. G. sembra aver avuto un interesse vivo per il monachesimo. Era certamente informato delle tradizioni monastiche celtiche, diffuse in Norditalia attraverso la predicazione dei monaci irlandesi; ciò spiega perché intorno all'880 abbia accolto quasi filii e amorevolmente ospitato due monaci, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, provenienti da Landévennec, l'abbazia bretone fondata da s. Guénolé (Vinvaleo), che la tradizione irlandese voleva discepolo di s. Patrizio. Molto riconoscente, l'abate Wrdisten fece recapitare a G. alcune reliquie di Guénolé, accompagnate anche da una Vita Winwaloei che intendeva confutare quella tradizione e di conseguenza l'origine irlandese dell'abbazia. A ulteriore dimostrazione dell'attenzione rivolta da G. all'esperienza monastica, si possono citare altri due episodi. Nell'871 o nell'872 il vescovo chiese a papa Adriano II di concedergli la chiesa battesimale di S. Maria di Bagno di Romagna, per costruirvi un monastero. La fondazione di Bagno prefigura quella cluniacense: l'abbazia, sottoposta a G. per la durata della sua vita, sarebbe, alla sua morte, ritornata alle dipendenze di Roma; eletto dai monaci, l'abate avrebbe dovuto ricevere la consacrazione dalle mani del papa. Nell'880 G. donò a Nonantola un sacramentario romano (ora a Parigi, Bibliothèque nationale, Fonds latin 2292), in ringraziamento della cessione alla chiesa di Arezzo dell'importante pieve di S. Stefano alla Chiassa.
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