PEPOLI, Giovanni
PEPOLI, Giovanni. – Figlio di Filippo e di Elena Fantuzzi, nacque a Bologna il 28 maggio 1521. In gioventù continuò la vocazione militare che aveva caratterizzato buona parte delle famiglie nobili italiane per tradizione secolare: all’età di 30 anni era colonnello al servizio del papa, Giulio III, a capo di 1500 fanti, poi passò al soldo di Venezia. Nel 1555 ottenne il seggio senatorio del padre, anche se l’assimilazione con il patriziato per lui e per altri membri della famiglia non avvenne mai.
Seguendo la tradizione di molti condottieri e piccoli signori dell’Italia rinascimentale, Pepoli ebbe solo figli spuri perché non si adeguò alle regole della politica matrimoniale e delle alleanze tra pari che il patriziato seguiva definendo i confini dell’oligarchia. Da una donna sposata e di bassa estrazione, Vincenza Manzolini, ebbe tre figli maschi e una femmina, la quale fu sposata a un nobile bolognese, mentre i maschi furono addestrati alle arti cavalleresche e ricevettero una raffinata educazione. Essi furono i suoi eredi diretti e dettero origine a un ramo separato, tenuto a distanza, ma installato in un’ala dell’imponente palazzo dei Pepoli, convivenza che, sullo scorcio del Seicento, viene rappresentata come fonte di una minuta conflittualità quasi quotidiana ma temperata dal riconoscimento reciproco del rango di parenti e cavalieri.
Come senatore Pepoli difese le prerogative repubblicane della città e le gloriose istituzioni di origine comunale: i magistrati degli Anziani, i tribuni della Plebe, le corporazioni delle Arti. Fu munifico nei confronti dei poveri, soprattutto dispensando cibo e assistenza ai malati; come membro di numerose confraternite devozionali distribuì doti per favorire matrimoni di fanciulle bisognose con confratelli. La sua fama di generoso elargitore di elemosine, divulgata da molti documenti e accreditata da studi recenti, contrasta con la sua morte violenta per mano dei sicari di Sisto V come spregiudicato fiancheggiatore dei banditi che si concentravano nel contado e minacciavano la stessa autorità del cardinal legato, che governava Bologna per la S. Sede.
Il 5 agosto 1585 il cardinale Antonio Maria Salvati, legato pontificio a Bologna, lo fece arrestare dagli sbirri del Tribunale criminale di Bologna – noto come il Torrone – con l’accusa di aver favorito la ribellione contro il sovrano: si era infatti rifiutato di consegnare un bandito rifugiatosi nel feudo di Castiglione, di giurisdizione dei Pepoli, che ne avevano ricevuto l’investitura dall’imperatore Carlo IV nel 1369. Con l’imputazione di lesa maestà, Pepoli fu processato e torturato, mentre si mobilitavano inutilmente per lui il granduca di Toscana, il duca e il cardinale d’Este, gli ambasciatori della Repubblica di Venezia.
Il feudo era arroccato sull’Appennino tra Bologna e Firenze, città dalle quali era distante quasi 60 chilometri in entrambi i versanti, ed era stato acquistato nel 1340, quando Taddeo Pepoli era signore di Bologna, dai conti Alberti, che ne erano stati investiti nel 1164 da Federico I. Nel 1348, alla morte di Taddeo, i figli avevano rapidamente sperperato il patrimonio di prestigio e gran parte delle ricchezze che il padre aveva lasciato loro, arrivando a vendere Bologna a Giovanni Visconti, vescovo e signore di Milano. Una pacificazione fra la S. Sede e i Visconti nel 1364 restituì Bologna al papa e i Pepoli dovettero ritirarsi a Pavia. Recuperarono il loro feudo di Castiglione solo nel 1369 per concessione dell’imperatore Carlo IV, mentre il ritorno dall’esilio fu concesso loro dal papa nel 1399. Il 15 ottobre 1427 ottennero da Martino V il riconoscimento che Castiglione e gli annessi Sparvo e Baragazza erano «di piena e libera ragione» dei Pepoli, che nel XVI secolo concessero il piazzale antistante al castello come campo franco per le sfide dei duellanti di altri Stati.
Come avrebbe scritto Giovan Paolo, un esponente della famiglia che si trovò alle prese con il passaggio degli eserciti durante la guerra di successione spagnola (1701-1714), dal 1369 i Pepoli avevano ottenuto periodiche conferme dell’investitura e avevano preteso per questo la loro extraterritorialità e le prerogative giurisdizionali come feudatari imperiali. Giovan Paolo doveva però ammettere che non sempre queste prerogative erano state riconosciute dai pontefici, infatti non poteva dire «che il tutto sia quietamente seguito» e che i Pepoli non avessero avute «molte vessazioni dalli legati et infinite ocasioni di inquietudine» (Archivio di Stato di Bologna, Pepoli, Serie IV, vol. 891, c. 74). In quei primi anni del Settecento si riproponevano, a distanza di un secolo e mezzo, le frizioni fra Bologna e i Pepoli, che nel Cinquecento avevano avuto come avversari i numerosi membri della famiglia Malvezzi, a capo della Parte ghibellina. Agli inizi del Settecento la relativa immunità che i Pepoli, come feudatari imperiali, riuscirono a ottenere dai generali tedeschi per sé e per i loro dipendenti suscitò un rigurgito di ostilità nei loro confronti, e una parte di esponenti di famiglie senatorie si spinse fino a insinuare che volessero nuovamente instaurare in città il loro dominio signorile.
L’accusa mirava a presentare i Pepoli come ribelli alla città e al pontefice, ma non ebbe seguito. I ricordi del banditismo nobiliare e della infamante fine di Pepoli all’epoca erano stati rimossi dalla memoria collettiva e anche familiare. Giovan Paolo, che spesso evocò i momenti critici per il suo casato, omise del tutto di ricordare la storia del lontano parente, seguendo in questo l’atteggiamento corrente tra la nobiltà bolognese, agli inizi del Settecento ben lontana dagli atteggiamenti violenti ed eversivi nei confronti dell’autorità legatizia – e quindi del papa – che l’avevano contraddistinta nel XVI e per quasi tutto il XVII secolo. A proposito delle insinuazioni malevole di un tentativo di impadronirsi del potere, circolate durante la guerra di successione spagnola, Giovan Paolo scrisse infatti che alcuni «maligni […] pensavano di render noi da nostri uguali invidiati, et odiosi nell’ordine inferiore, e molto più speravano di renderci sospetti e mal voluti dal principe. A questo però, che è giustissimo […] poco poteva far colpo simile attentato» (vol. 892, c. 27).
La damnatio memoriae delle vicende degli anni Ottanta del Cinquecento era ben precedente a quella di Giovan Paolo – che dei rapporti fra la famiglia e la S. Sede offre un’immagine ricalcata sui clichés dei buoni sudditi e del buon sovrano – e corrispondeva a una intenzionale rimozione degli anni del banditismo e del ribellismo nobiliare della città tutta: da subito, già nel 1586, a un anno dall’esecuzione di Pepoli, sulla vicenda imbarazzante era sceso il silenzio delle fonti (in primo luogo di quel fondo dell’ambasciatore bolognese a Roma che di solito è una miniera preziosa di notizie).
Nel 1586, morto Pepoli, Sisto V restituì agli eredi il seggio senatorio e concesse favori e onori a uno di essi, Guido, promuovendolo poco dopo al cardinalato. Tutti avevano voglia di chiudere in fretta una vicenda che aveva messo in crisi in periferia il potere del papa mentre i senatori, pur continuando ancora per un secolo le loro guerre private e le loro sanguinose vendette, non avevano più osato sfidare apertamente l’autorità del legato.
La sfida sarebbe continuata, tra centro e periferia, a colpi di memoriali e scritture legali, per stornare – e ci riuscirono – minacce dei pontefici a quella libertas repubblicana che i capitoli del 1447 avevano fissato, secondo il Senato bolognese, una volta per sempre, mentre l’esecuzione di Pepoli, e forse più ancora la confisca, avevano offerto una dimostrazione di quanto un sovrano poteva sentirsi absolutus da patti negoziati che riteneva anacronistici. Meglio accontentarsi di navigare a vista, pretendendo, ma sapendo di non ottenere, che i papi accettassero fino in fondo il principio di una pattuizione bilaterale, strappando nel corso dei secoli concessioni più o meno corrispondenti agli obiettivi del Senato, tenendo incessantemente impegnato l’ambasciatore che Bologna, unica città suddita, manteneva a Roma.
È dunque difficile ricostruire il contesto della vicenda che ebbe per protagonista Pepoli. Non che manchino i documenti essenziali: il processo che dovette subire, in primo luogo, e poi note dettagliate dei beni che gli furono confiscati (ibid., Serie III, Miscellanea di atti vari, bb. 5, 6). Quanto a Sisto V, è chiaro che operando, sia pure temporaneamente, la confisca dei suoi beni aveva voluto ricordare all’aristocrazia cittadina da che parte stava il potere e che la facoltà di risolvere contenziosi, di processare e di punire era riservata al suo tribunale criminale e non, come pretendevano i nobili, alle lizze cavalleresche, e che non sarebbero più state accettate le loro scorribande alla testa di contadini e montanari della propria fazione contro la fazione avversa.
L’archivio della famiglia (ibid., b. 8), restituisce inoltre alcuni elementi per valutare quale fosse la posta in gioco per gli eredi quando reclamarono (e ottennero un anno dopo la morte di Pepoli) la restituzione dei beni confiscati. Anche se 30.000 scudi restarono alla Camera apostolica, il patrimonio che toccò ai nipoti, Guido – allora monsignore – e il conte Filippo, raggiungeva quasi 500.000 scudi. Ai figli, illegittimi, furono riconosciute quelle proprietà acquistate in vita dal padre, non enfiteutiche e non soggette al vincolo del fedecommesso. Il loro valore fu stimato 200.000 scudi, e anche questi beni furono incorporati nell’asse degli eredi legittimi: vennero infatti ceduti in cambio di 120.000 scudi pagati da Guido e Filippo, in virtù di un accordo concluso nel 1586 e accettato dalle parti.
Nel XIX secolo gli eruditi locali ripresero la vicenda di Pepoli e ne fissarono la versione tuttora nota, quella cioè del fiero feudatario, geloso della propria giurisdizione, punito dal papa per l’insubordinazione al proprio legato. Uno di questi eruditi, Giovanni Gozzadini, nel 1876 pubblicò un libro sui rapporti tra i Pepoli e Sisto V, che contribuì più di ogni altro a dare una versione definitiva e di parte al racconto della vicenda di Pepoli.
Conte e a sua volta esponente di un antico casato, Gozzadini era incline ad attribuire alla nobiltà di tre secoli prima l’indole generosa e proba che riconosceva nelle antiche tradizioni della nobiltà bolognese.
Non si può sottovalutare la portata del ribellismo nobiliare che, prima ancora del pontificato di Sisto V e durante quello del pur benevolo Gregorio XIII, il bolognese Ugo Boncompagni, aveva assunto proporzioni endemiche.
Nell’opposizione al potere dei legati pontifici i Pepoli non avevano una parte di secondo piano. Il 20 ottobre 1580 era stato dato l’assalto all’edificio nel quale aveva sede il tribunale del Torrone, furono trafugati vari incartamenti processuali relativi ad azioni di faziosi e venne impiccato in effigie lo stesso legato, cardinale Pier Donato Cesi. Questi emanò subito un bando con il quale offriva una ricompensa di 200 scudi per chi avesse contribuito a far identificare i responsabili. Il colpevole fu indicato nella persona di Girolamo Pepoli, che si consegnò il 13 dicembre, fu processato e subì tre anni di prigione. Girolamo era figlio di Sicinio e Laura Contrari ed era cugino di secondo grado di Pepoli. Soprattutto, in quanto marito di Angela Boncompagni, era nipote di Gregorio XIII, che alla fine si indusse a farlo scarcerare nel 1583.
Questa vicenda, che la tradizione degli storici locali interpreta come una macchinazione ai danni di Girolamo (il vero artefice dell’assalto sarebbe stato un gregario), è comunque legata a una situazione di endemico ribellismo. Le masnade che scorrazzavano nelle montagne del Bolognese (grosse compagini di 500-600 uomini) raccoglievano nella Parte guelfa contadini dei Pepoli, ed erano al seguito di Aloisio, ritenuto da Gozzadini figlio illegittimo di Isotta la Baia, moglie di un amministratore dei Pepoli e di Guido, fratello di Giovanni, che lo aveva allevato, mentre altri ne attribuiscono la paternità a Sicinio facendone quindi un fratellastro, e non un cugino, di Girolamo.
Nel 1583, dopo aver ricevuto prima il bando e poi la remissione, Aloisio aveva ripreso le sue scorrerie, insieme con quel Gracino da Scanello che, rifugiandosi a Castiglione, sarebbe stato la causa della prova di forza di Giovanni Pepoli con il legato pontificio. Contro gli uomini di Aloisio, Gregorio XIII inviò un contingente di 800 soldati corsi e Pepoli, all’epoca ultrasessantenne, senatore e capo di tutta la casata, cercò di indurre il nipote ad allontanarsi dalla Legazione di Bologna, ma il ribelle riuscì a sconfiggere le forze inviate dal papa, sembra grazie al tradimento dello stesso auditore del Torrone, Gian Giacomo Panichi.
Nell’agosto del 1585 Gracino da Scanello fu catturato e incarcerato nel feudo di Castiglione, quindi sotto la giurisdizione di Pepoli. I condomini del feudo erano infatti dieci, più Romeo, figlio di Alessandro, con il quale gli altri rifiutavano di condividere l’amministrazione perché illegittimo. Di fatto però il governo del feudo era nelle mani di Pepoli, il più vecchio e autorevole di tutti. L’arresto di Gracino era stato provocato da un suddito del conte per vendetta. Giovanni Pepoli, per non aver ceduto all’intimazione del cardinale Salviati di riconoscere la superiore giurisdizione del legato e del suo Tribunale, fu arrestato mentre Gracino riuscì a sfuggire a entrambi i fori e a rendersi irreperibile. Fu ucciso un anno dopo in Lunigiana. Il conte Aloisio ottenne invece dal papa, grazie alla interposizione del duca di Ferrara, un salvacondotto e l’indulto per sé e per alcuni suoi seguaci, a patto che tutti si allontanassero dalla Legazione di Bologna e non vi mettessero più piede. Aloisio fu graziato nel 1586, lo stesso anno della restituzione agli eredi dei beni confiscati a Pepoli.
Una lettera inviata da un corrispondente del cardinale Alessandro Farnese, riportata da Gozzadini, riferiva di aver udito il vicelegato di Bologna, monsignor Domenico Toschi, ordire una trama con l’auditore del Torrone per incriminare anche Romeo e suo figlio Giulio; si affermava inoltre che anche l’accusa a Pepoli era stata un inganno in odio ai Pepoli e al papa. Fra le varie reazioni alla morte di Pepoli, Gozzadini cita anche quella dell’ambasciatore veneziano Priuli, il quale riconosceva che i signori locali erano stati perseguitati con pugno di ferro, ma che in questo modo se ne sarebbe giovata la pubblica quiete.
Nella notte tra il 30 e il 31 agosto 1585 a Bologna i sicari entrarono nella cella del conte Pepoli e lo strangolarono. L’iter processuale si era compiuto in nemmeno un mese e anche l’esecuzione fu frettolosa e sommaria. Si racconta che a Pepoli non furono concesse neppure la confessione e l’assistenza spirituale dei confortatori, e che persino lo stesso arcivescovo, il cardinale Gabriele Paleotti (con il quale Pepoli era imparentato per il matrimonio di una nipote), non poté recarsi a visitarlo prima della sua morte. Tutto rimase segreto, non ci fu nessun testimone della sua fine. Ai contemporanei premeva liberarsi di una presenza imbarazzante. Solo l’erudizione ottocentesca l’ha fatta riemergere dal passato, soprattutto Gozzadini, che idealizzò Pepoli come eroe generoso, nobile indomito, «benefico patrizio».
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Bologna, Pepoli, Serie III, Miscellanea, Secolo XVI, voll. 1-12; ibid., Serie IV, voll. 891: Libro dove si descriveranno tutte le cose che si farano di contratti rogiti tutti e negozi della Casa, come pure quanto succederà di memorabile a tutti noi, scritto da me Giovan Paolo Pepoli; 892: Racordi delle cose di casa scritte da me Giovan Paolo Pepoli doppo finito altro simile libro che si cominciò l’anno 1691 e terminò per tutto il 1707.
O. Mazzoni Toselli, Racconti storici estratti dall’archivio criminale di Bologna ad illustrazione della storia patria, I, Bologna 1866; G. Gozzadini, G. P. e Sisto V, Bologna 1879; C. Ricci, La prigionia di Hercole Fantuzzi narrata da lui, Bologna 1888; P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti. 1522-1597, I-II, Roma 1959-1967, ad ind.; Id., Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982, 2006, ad ind.; A. Gardi, Lo Stato in provincia. L’amministrazione della Legazione di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Bologna 1994, ad ind.; A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995, ad ind.; C. Casanova, Gentilhuomini ecclesiastici. Ceti e mobilità sociale nelle Legazioni pontificie. Secoli XVI-XVIII, Bologna 1999, ad ind.; G. Angelozzi - C. Casanova, La nobiltà disciplinata: violenza nobiliare, procedure di giustizia e scienza cavalleresca a Bologna nel XVII secolo, Bologna 2003, ad ind.; N. Terpstra, Cultures of charity: women, politics and reform of poor relief in Renaissance Italy, Cambridge (Mass.)-London 2013, ad indicem.