CONTI, Giovanni Nicola (Giannicolò)
Nacque a Poli (Roma) il 1°giugno 1617 da Lotario, duca di PoliS e dalla sua seconda moglie, Giulia Orsini. Adolescente, fu inviato nel Ferrarese ad esercitarsi nelle arti marziali sotto la guida del fratello Torquato che ricopriva dal 1626 la carica di generale della Chiesa. Egli, tuttavia, non manifestò particolari disposizioni verso tali discipline e si dedicò presto agli studi religiosi, sostenuto e incoraggiato dalla famiglia Farnese. Intrapresa la carriera ecclesiastica, ottenne la nomina a referendario delle due Segnature che gli consentì di godere dei proventi di un canonicato in S. Pietro a Roma.
Le nozioni di arte militare apprese nel periodo giovanile si dimostrarono preziose nell'assolvere i primi incarichi che gli vennero affidati dalla Curia romana: infatti, allo scoppio della contesa per il ducato di Castro tra i Barberini e il duca Odoardo Farnese, fu nominato commissario delle armate pontificie impegnate nel Parmense; assieme al cardinale Antonio Barberini coordinò le scarse operazioni militari sino al raggiungimento nel marzo 1644 della pace definitiva. Tornato a Roma alla morte di Innocenzo X, una congregazione di cardinali formata da Carlo de' Medici, Luigi Capponi e Teodoro Trivulzio lo elesse (13 genn. 1655) alla carica di commissario generale delle milizie e provveditore alle fortezze delle province di Bologna, Ferrara e Romagna con particolari raccomandazioni circa la cura e la conservazione del forte Urbano. Il C. in questo ufficio rimase ben poco tempo poiché il 23 dicembre dello stesso anno Alessandro VII lo destinò alla vicelegazione di Avignone in sostituzione di Agostino Franciotti.
Il C. capitò in Avignone in un momento indubbiamente difficile: la città era stata teatro di una violenta sommossa di origine antinobiliare. Il suo predecessore, pur avendo ricevuto dalla segreteria di Stato precisi ordini per reprimere i responsabili della "scandalosa seditione con incendi, rapine et altri delitti" (Arch. Segr. Vat., Avignone 163, f. 37) e pur avendo fatto giustiziare alcuni rivoltosi non era riuscito a fronteggiare pienamente la situazione che all'arrivo del C. era ancora caratterizzata da una tensione notevole.
Primo suo compito fu dunque di ristabilire la quiete pubblica e di far rientrare i nobili in città senza che tale ritorno provocasse tumulti e violente proteste: perciò egli mise in condizione di non nuocere il movimento antinobiliare ordinando l'espulsione dei principali esponenti della fazione "popolare".
Di fronte a questi provvedimenti gran parte degli artigiani avignonesi abbandonarono la città in segno di solidarietà con gli esiliati; e il C. stesso fu oggetto di tentativi di corruzione e, in seguito, di aperte minacce da parte di cittadini che volevano impedire ad ogni costo il ritorno in città di alcuni dei nobili più detestati. Egli divenne così più cauto e si pose, più nell'apparenza che nella sostanza, come mediatore tra le parti. Mentre da un lato convocava gli elementi più intransigenti della cittadinanza, dall'altro iniziava prudentemente alcuni processi per indennizzare coloro che avevano subito danni materiali durante la ribellione popolare; inoltre, applicò rigidamente le disposizioni di coprifuoco e di proibizione degli assembramenti. Il risultato concreto di tale attività fu il rientro in Avignone delle famiglie nobili nel febbraio del 1656 e l'operato del C. incontrò il plauso della Curia e dello stesso papa. Nel mese seguente l'azione repressiva divenne più sistematica: il C. istruì nuovi processi con il fine di attaccare gli elementi più decisamente anticuriali, giudicando e perseguendo, come si consigliava da Roma, "secondo la qualità delle persone e delli fatti e indicij" (Ibid., Avignone, 163, f. 60): nel giugno fece eseguire due condanne a morte e nello stesso tempo si mostrò magnanimo nell'accogliere alcune domande di grazia, cercando così di offrire un'immagine di se stesso il più possibile vicina a quella di un giudice sensibile alle istanze popolari, ma non certo disposto ad agire con permissività nei confronti di coloro che avevano perturbato l'ordine sociale.
Tale strategia ebbe successo e verso la fine del 1656 l'atteggiamento repressivo del C. andò attenuandosi: molti fuorusciti avevano implorato il perdono del papa e non attendevano altro che un'indulgente amnistia. Inoltre, la pericolosa attrattiva che esercitavano i centri ugonotti circostanti presso gli artigiani cattolici e la depressione in cui versava l'industria serica avignonese convinsero il C. a favorire il ritorno in città di costoro, facendosi personalmente garante dei loro diritti e della loro incolumità.
Un altro ordine di problemi si sovrappose alle preoccupazioni legate alle vicende della ribellione: infatti, durante l'anno si erano verificati aspri dissidi tra il vicelegato e l'autorità regia da tempo apertamente insofferente della giurisdizione pontificia nei territori di Avignone e del Contado Venassino: egli si trovò ad affrontare vertenze con gli "arcieri" del re di Francia che tentavano di esercitare la loro autorità anche nei territori della legazione e a sostenere una dura disputa con il "fermiero regio" che esigeva l'abolizione di pedaggi la cui riscossione era affidata ai funzionari della S. Sede.
Nei mesi seguenti, la principale attività fu quella di tenere sotto controllo la turbolenza incessante della nobiltà e l'atteggiamento minaccioso di una comunità ugonotta molto prossima ai confini dei territori pontifici.
Sin dall'inizio del 1658 il governatore d'Orange era stato segnalato a Roma per le continue molestie ai cattolici e ai conventi: il C. si premurò d'informare il papa sulla difficile situazione determinatasi in molti centri della Francia meridionale e della ventilata ipotesi di un'invasione ugonotta del Delfinato. Egli sostenne ovviamente i cattolici, che in Orange si spartivano i seggi nel Parlamento in egual misura con i riformati; quando alla fine della sua vicelegazione furono arrestati due preti per ordine del governatore, egli consigliò ai sacerdoti della città di continuare "le loro sofite funtioni per non avilire di animo gli altri cattolici et apprenderli con la lor fuga ad abbandonar essi pure la città e forsi la fede" e di opporsi ai disegni dello stesso govematore miranti a "rendere Oranges una seconda Genevra o una nuova Roccella per stabilirsi con sicurezza maggiore nell'assoluto dominio che si va preparando di quella fortezza" (Ibid., Avignone, 56, f. 97).
Sostituito nel gennaio 1659 da Gaspare Lascaris nella carica di vicelegato, il C. fece ritorno in Italia per divenire commissario generale della Marca; quindi a Roma , il 13 dic. 1662, venne nominato governatore della città. Incluso nel numero dei cardinali che Alessandro VII creò in pectore il14 genn. 1664, ottenne ufficialmente la nomina il 15 febbr. 1666. Sostenuto anche dalle istanze della regina Cristina di Svezia, ebbe il titolo e il beneficio di S. Maria in Traspontina; un mese dopo fu nominato vescovo di Ancona e da questo momento egli si dedicò completamente alle funzioni episcopali.
Governò la diocesi per trentadue anni, durante i quali non sempre riuscì a dominare le rivendicazioni del comune di Ancona, tanto da perdere la giurisdizione temporale su Numana e dover fronteggiare una rivolta che, scoppiata il 7 genn. 1674 per futili motivi, diede la misura dei fermenti e delle insofferenze presenti nella cittadinanza. Il 4 e il 5 novembre dello stesso anno egli tenne un sinodo diocesano nella cattedrale di S. Ciriaco di cui restano gli atti a stampa. Introdusse l'Ordine delle monache cappuccine in Ancona ed abbellì con donazioni private la cattedrale. Si assentò dalla sua diocesi solo per i conclavi che elessero Clemente IX e Clemente X, Innocenzo XI, Alessandro VIII, Innocenzo XII dove però non ebbe mai un ruolo rilevante; prestò le sue pastorali cure nei momenti difficili dei terremoti avvenuti in Ancona nel 1688 e nel 1690, organizzando soccorsi per i senzatetto; l'8 ag. 1691 ottenne il vescovato di Sabina, mantenendo però l'amministrazione della diocesi anconitana.
Morì ad Ancona il 20 genn. 1698, lasciando la sua ricca biblioteca al seminario dei gesuiti.
Fonti e Bibl.: Arch. Segr. Vaticano, Segr. di Stato, Avignone, 55; 56, ff. 1-97; 163, ff. 41-97; Bibl. Ap. Vaticana, Barb. lat. 8704, ff. 81-88; 8705, ff. 72-83; Vat. lat. 9528, ff. 411, 440, 452, 472, 617; Vat. lat. 14-137: Relazione di un sollevamento seguito in Ancona contro il signor. card. C., ff. 530-531; Anconitana synodusab eminent. et reverend. domino D. Ioanne Nicolao ... Habita die 4 et 5 novembris 1674, Anconae 1675; Veridica e distinta relat. del terribile terremoto seguito nella città d'Ancona, Ancona 1691; Lettres du cardinal MazarinPendant son ministère, a cura di G. d'Avenel, VII, Paris 1893, pp. 599, 609; VIII, ibid. 1894, p. 688; IX, ibid. 1906, pp. 750, 758, 765; M. Dionigi, Genealogia di casa Conti, Parma 1663, pp. XIII s., 14, 183 ss.; G. Saracini, Notitie stor. della città d'Ancona, Roma 1675, pp. 44, 472-75, 540; S. Fantoni Castrucci Istoria della città d'Avignone, I, Venetia 1678, pp. 25, 474; G. Palazzi, Fasti cardinalium omnium..., IV, Venetia 1703, col. 343; L. Cardella, Mem. stor. de' cardinali, VII, Roma 1793, pp. 172 s.; A. Leoni, Ancona illustrata, Ancona 1832, pp. 318 s.; A. Peruzzi, La Chiesa anconitana, I, Ancona 1845, pp. 120 s., 199 s.; F. Petruccelli della Gattina, Histoire diplom. des conclaves, III, Paris 1865, pp. 212, 231, 241, 255, 262, 282 s., 287, 323 ss., 329 s., 353, 364, 374, 376, 379, 383, 400; G. Cascioli, Mem. stor. di Poli, Roma 1896, pp. 177 s., 194 ss.; M. Natalucci, Ancona attraverso i secoli, II, Città di Castello 1960, pp. 351 s.; L. v. Pastor, Storia dei papi, XIV, 1, Roma 1961, p. 406; XIV, 2, ibid. 1962, pp. 4, 387; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor-eccles., XVII, pp. 86 s.; B. Katterbach, Referendarii utriusque Signaturae, p. 310; P. Gauchat, Hierarchia catholica, IV, Monasterii 1935, p. 35.