MICHELUCCI, Giovanni
– Nacque il 2 genn. 1891 da Bartolomeo e da Ida Borri a Pistoia, dove il nonno paterno Giuseppe aveva aperto nel 1871 le Officine Michelucci, rinomate per la produzione di elementi artistici in ferro per l’edilizia, in cui il M. apprese il rispetto per la competenza artigiana.
Avviato a studi tecnici in funzione dell’impresa familiare, rimase orfano di padre nel 1906. Alla morte del nonno nel 1910, la direzione delle Officine passò ai fratelli del M., Alfredo e Giuseppe; in quell’anno preparò i disegni per il concorso per le cancellate del quadriportico di S. Paolo fuori le Mura a Roma. Nel 1911, a Firenze, conseguì il diploma del corso speciale di architettura e l’11 marzo 1914 il diploma di professore di disegno architettonico, incoraggiato dall’amico architetto Raffaello Brizzi, docente all’Accademia. Partito per il fronte nel 1915 con il grado di caporale del genio, durante la guerra realizzò la prima opera, una cappella da campo a Caporetto, località Smasti. Nell’epidemia di spagnola del 1918 morirono Alfredo e Giuseppe e il M. al suo rientro nel 1919 assunse la direzione delle Officine; ma per la mancanza di esperienza e le difficoltà economiche e sociali del periodo, le cedette nel 1921, aprendo l’anno dopo la FAB (Fonderia d’arte in bronzo), con il fratello minore Renzo, a cui in seguito lasciò la gestione. Tra il 1920 e il 1925 partecipò ai concorsi per i monumenti ai caduti di Ancona, Bologna e Milano e realizzò quattro case unifamiliari tra Pistoia, Montecatini e Pescia, dal semplice disegno tradizionale toscano. Partecipò attivamente ai circoli artistici e culturali pistoiesi e fu dal 1923 al 1926 membro della commissione artistica comunale. Tra la primavera e l’estate del 1925 si trasferì a Roma, frequentando i pistoiesi che vi si erano trasferiti: i Valiani, industriali alimentari, suoi futuri committenti; la famiglia Pacini (il 31 ott. 1927 sposò Eloisa Pacini); lo storico e critico d’arte Roberto Papini. Iscritto al PNF (Partito nazionale fascista) di Firenze dal 2 dic. 1925, conobbe i ministri di origine toscana A. Pavolini e G. Bottai e il segretario di B. Mussolini, A. Chiavolini. A Roma insegnò architettura all’Istituto nazionale di istruzione professionale e realizzò una villa in stile barocchetto romano per Hélène Wnorowska in via di Villa Massimo (1927). Non tralasciò i rapporti con Pistoia, ove costruì con Raffaello Fagnoni la casa del balilla (1928-30). Nel 1928 partecipò con suoi progetti alla Mostra provinciale d’arte, ove espose quadri la moglie Eloisa e sempre a Pistoia nel 1927 fondò con l’ebanista Renzo Gori la ditta «La suppellettile» per la produzione artigianale di arredi. Nel 1929 si iscrisse all’Albo degli architetti del Lazio, ma continuò a dividersi tra Roma e Toscana. Su proposta di Brizzi dal 1928 insegnò architettura degli interni, arredamento e decorazione nella Scuola superiore (dal 1930 Istituto Superiore, dal 1936 Facoltà) di architettura di Firenze, ove svolse attività didattica per venti anni, come professore straordinario dal 1936 e ordinario dal 1939. Per i Valiani nel 1929 progettò un villino in via Mangili a Roma, pubblicato in Domus del febbraio 1931, e studiò una villa presso via Prenestina, con vari appartamenti per i fratelli Valiani e spazi di soggiorno comuni, terminata nel 1931; vi abitò anche il M. con la moglie.
Il temperato razionalismo della villa, oggi alterata, riscosse consenso e la pubblicazione nelle principali riviste, tra cui Architettura di Marcello Piacentini, e segnò l’affermazione professionale del M., di cui Papini aveva scritto un profilo in Domus del gennaio 1930. Il cantiere della villa fu occasione per consolidare la conoscenza con Piacentini (G. M., 1966, p. 49), probabilmente perseguita da tempo dal M., che aveva scritto su di lui in Fantastica dell’aprile 1925.
Nel 1930 espose una sala da pranzo alla IV Triennale di Monza e realizzò con «La suppellettile», sciolta tuttavia in quell’anno, gli arredi di due sale per il primo ministro al Viminale; per il maestro Alfredo Casella, amico dei Pacini e di cui era stata allieva Eloisa, elaborò quattro progetti per una villa a Roma, che oscillano tra un deciso razionalismo e la persistenza di elementi classici. Sempre nel 1930 visitò Napoli e Pompei, riportando la vivida impressione di quest’ultima in Lezione di Pompei, scritta con l’amico Roberto Papi (in Arte mediterranea, I [1934], pp. 22-32). Nel 1931 ottenne il primo premio al concorso per un giardino privato alla Mostra del giardino italiano a Firenze, e da Brizzi fu associato con Enrico Miniati nella realizzazione di sei stabilimenti balneari a Viareggio. In quell’anno partecipò a Roma alla II mostra del Movimento italiano per l’architettura razionale (MIAR) con uno dei progetti per la villa Casella, ma «non era una cosa convinta; tanto è vero che su un lato di questa costruzione c’erano degli elementi tradizionali, e per questo fu criticata molto» (G. M., 1966, p. 50). Verso la fine del 1931 fu invitato da Gherardo Bosio a costituire, con Pier Nicolò Berardi, assistente del M., e il laureando Sarre Guarnieri, il «Gruppo toscano», in vista della progettazione dei padiglioni provvisori della IV Fiera del libro a Firenze e del concorso per il piano regolatore di Verona. Ma all’inizio del 1932, per dissapori tra Bosio e il M., il primo uscì dal gruppo e il secondo non partecipò al progetto della fiera (Cresti, 1993, p. 97). Una nuova associazione ebbe modo di formarsi a seguito della III mostra del MIAR del marzo 1932 a Firenze, coordinata dal M., che vi partecipò con il progetto di una casa d’appartamenti al mare, tra il razionale e l’espressionista. La mostra fu allestita da Guarnieri e altri due laureandi, Italo Gamberini e Nello Baroni, i quali, con Leonardo Lusanna, formarono con il M. e Berardi il Gruppo toscano poi vincitore del concorso per la stazione di S. Maria Novella a Firenze. Nello stesso 1932 Piacentini aveva chiamato architetti, a lui in vario modo legati, per il progetto della Città universitaria di Roma, affidando ai collaboratori più stretti gli edifici del percorso rappresentativo tra i propilei e il rettorato, di cui si riservò il disegno, e dando direttive per l’unitarietà dell’insieme. Al M. si devono i due istituti di mineralogia e geologia e di fisiologia generale, iniziati nel giugno 1933 in vista dell’inaugurazione per il Natale di Roma del 1935.
Il primo, fondale nord del «transetto» dell’asse monumentale, e pertanto rivestito in travertino, è un nitido parallelepipedo la cui massa è scavata ai due lati da portali a tutta altezza su scalinate, tra i quali si stendono regolari le aperture. Meno aulico è il prospetto di fisiologia, con orizzontalità accentuata dalla bicromia tra il basamento in travertino e la fascia superiore intonacata. I due istituti di M. non sono i più moderni della Città universitaria, e nella critica vengono spesso citati come ripiegamento accademico dopo il razionalismo della stazione di Firenze; in realtà, il loro progetto è precedente o contemporaneo (Cresti, 1995, p. 274). A Firenze, nei primi mesi del 1932, si erano moltiplicate nella stampa le perplessità sul progetto di Angiolo Mazzoni per la nuova stazione, tutto portici e archi, con una torre angolare che sarebbe entrata in competizione con l’abside e il campanile di S. Maria Novella. La polemica dilagò nei giornali nazionali, finché il ministro delle Comunicazioni Costanzo Ciano accettò di predisporre un concorso per il nuovo fabbricato viaggiatori. Il 28 luglio vennero nominati i giurati, accademici d’Italia, tra cui Piacentini. Dopo la scadenza del bando, prorogata al 31 genn. 1933, gli oltre 100 progetti presentati furono esposti a palazzo Vecchio; il 14 marzo veniva proclamato vincitore il Gruppo toscano guidato dal Michelucci. La scelta del progetto, che rielaborava le tesi di laurea di Lusanna (febbraio 1932) e soprattutto di Gamberini (novembre 1932), fu caldeggiata da Piacentini, che riuscì a convincere la maggior parte dei giurati, assumendo nelle polemiche successive alla proclamazione un ruolo di tutore della nuova architettura del regime. Le ultime opposizioni cessarono nell’estate del 1933, quando Ciano rese operativo il concorso. Il 10 giugno 1934 i progettisti della stazione, con quelli della nuova città di Sabaudia, furono chiamati da Mussolini che li incoraggiò pronunciandosi a favore dell’architettura moderna. Inaugurata il 30 ott. 1935, un giorno prima dell’Università di Roma, la stazione è «capace di reggere il confronto con le più importanti e significative opere della contemporanea architettura internazionale» (Id., 1998, p. 214). È felice l’inserimento, nello spazio irregolare della piazza, del prospetto in pietra forte, dall’accentuata orizzontalità, tagliato asimmetricamente dalla vetrata dell’atrio biglietti risvoltata sul portico arrivi. All’interno la lunga galleria di testa è animata dalla copertura, che presenta una fascia vetrata obliqua verso i binari e crea con le sue costolature una cadenza trasversale, opposta alle fasce longitudinali in marmo del pavimento. In tutta l’opera sono presenti un sapiente accostamento dei materiali e il disegno esteso a ogni dettaglio. Sul fianco destro si innesta la palazzina reale, riprogettata nel 1934 forse dal solo M. e finita nel 1935, destinata alla sosta temporanea della corte e perciò caratterizzata da una maggiore ricchezza di rivestimenti e da un carattere più aulico e romano. Durante la realizzazione della stazione si verificarono divergenze tra il M. e gli altri del Gruppo toscano, che parteciparono separatamente al concorso del 1935 per la stazione di Venezia.
Una spietata verifica della coerenza del processo ideativo portò il M. a prendere le distanze dalla stazione di Firenze, «perché le amarezze che mi ha dato me l’han fatta detestare e perché essa non ha il fondamento architettonico della […] città universitaria» (Id., 1995, p. 274). Che essa non rispecchiasse il vero sentire del M. è provato dai successivi progetti sino alla guerra, che lo «confermeranno nel solco di una coerenza esemplarmente antirazionalista» (Dezzi Bardeschi, 1988, p. 98). Appaiono statue e «declinazioni di marca classico-novecentesca» (Cresti, 1995, p. 277) nel progetto per il mercato agricolo a Firenze (1935-37), che tuttavia nella struttura porticata rivela il primo interesse per una «architettura di percorso», e in quelli per il palazzo del Governo di Savona (1938-39) e l’ampliamento del Centro e Museo didattico nazionale a Firenze (1941). Nel 1936 il prefetto di Arezzo gli affidò il progetto per il palazzo del Governo, terminato nel 1939.
La facciata concava, rivestita in mattoni, si apre in un portico con archi a tutto sesto su un basamento a gradini (schema ripreso dal M. nel coevo palazzo del Genio civile) ed è coronata da otto statue.
Anche nell’ampliamento della villa Vittoria dei Contini-Bonacossi a Forte dei Marmi (1937-39) si trovano ascendenze classiche. Nel 1934 il M. fu nella commissione presieduta da Piacentini per i primi littoriali di architettura di Firenze, ove si trasferì a dicembre. L’anno dopo partecipò con Eugenio Fuselli e Alfio Susini al concorso per il piano regolatore di Pistoia, vincendo il primo premio nel 1936. Fu ancora con Piacentini nelle commissioni per la mostra di architettura nella VI Triennale di Milano (1936) e per il concorso per il palazzo della Civiltà italiana (1937) all’Esposizione universale di Roma del 1942 (E42). Per questa fu incaricato nel 1938 di progettare un teatro all’aperto sulla testata ovest del lago artificiale.
Il teatro, con la cavea adagiata sulla collina, decorata in sommità da statue, e la scena aperta da un arco sul lago, fu iniziato nel 1939 ma, rimasto incompiuto, fu demolito nel dopoguerra.
Ancora per l’E42 partecipò al concorso per il palazzo dell’Acqua e della Luce (1939), costruzione temporanea celebrativa della luce artificiale. Nel 1941 fu inserito da Piacentini nella redazione di Architettura ed ebbe un premio dall’Accademia d’Italia per il palazzo di Arezzo. Gli anni della guerra videro una forzata riduzione della sua attività. Nella primavera del 1944 frequentò un gruppo di intellettuali aderenti al Comitato nazionale di liberazione (CNL), tra i quali Carlo Ludovico Ragghianti, il cui aiuto gli consentì pochi mesi dopo l’inserimento nella nuova situazione politica, nonostante un passato di sintonia con il fascismo. Grazie a Ragghianti infatti alla fine del 1944 fu nominato – non senza proteste (Conforti, 2006, p. 19) – preside commissario della facoltà di Firenze, al posto dell’epurato Brizzi, fino al settembre 1945; nonché soprintendente ad interim e membro della commissione per la ricostruzione (Id., 2007, p. 139). Nell’agosto 1944 i Tedeschi in ritirata avevano fatto saltare tutti i ponti di Firenze, risparmiando solo ponte Vecchio con il sacrificio delle zone circostanti. Il M. elaborò negli anni successivi studi per un tessuto urbano che saldasse le preesistenze nell’incontro di moderno e di antico, con l’introduzione di nuove tipologie anche a forte sviluppo verticale e percorsi pedonali a più livelli, con affacci e discese sull’Arno. Non partecipò al concorso per la ricostruzione, ma a quelli per i nuovi ponti, vincendo (1954) quello per il ponte alle Grazie con Edoardo Detti, Riccardo Gizdulich, Danilo Santi e Piero Melucci. Nel dicembre del 1945 aveva fondato la rivista La Nuova Città pubblicata, con qualche interruzione e la breve parentesi di Esperienza artigiana (1949), fino a tutto il 1954. Nello stesso 1945 aveva conosciuto Bruno Zevi, negli anni a seguire suo convinto sostenitore. Dall’insegnamento di urbanistica passò a quello di composizione architettonica nel 1946, dopo la morte di Brizzi che ne era titolare.
Il dopoguerra segnò una decisiva svolta nel processo ideativo del Michelucci. Nella chiesa rurale di Collina di Pontelungo (Pistoia), progettata nel 1946, abbandonò ogni elemento classico e con l’impiego di materiali poveri – anche per motivi economici – realizzò un’architettura «naturale» dal fascino arcaico: all’esterno il rivestimento in pietra a vista e le falde del tetto inseriscono la chiesa nel paesaggio, quasi una casa contadina più grande; lo spoglio interno intonacato trae insolite spazialità dall’alzato di una pianta a croce latina; è «una declinazione personale del neorealismo» (Tafuri, 2006, p. 40). Alla fine del 1947 il M. lasciò la facoltà di Firenze per quella di ingegneria a Bologna, dove assunse nell’a.a. 1947-48 la docenza di architettura e composizione architettonica e di tecnica urbanistica. Nella decisione pesarono contrasti con l’ambiente universitario e in particolare con Fagnoni e Papini (Koenig, 1968, p. 74), ma anche motivi personali, che spiegò nel saggio Felicità dell’architetto (Firenze 1949): ricerca di concretezza, insofferenza per «un sistema educativo che della “forma” dia una nozione a sé, di prevalenza, troppo spesso a svantaggio delle considerazioni economiche e sociali»; la necessità di «un ambiente nuovo, scientifico e tecnico». La convinzione che la struttura della costruzione, se ben concepita, non debba essere nascosta, ricorre nel M. che in Architettura (1932, n. 3) aveva elogiato lo stadio di Firenze di P.L. Nervi; nel 1947 aveva scritto ad Auguste Perret, nelle cui opere la struttura è essa stessa partito architettonico, per chiedere grafici e indicazioni (Conforti, 2007, p. 141) e nei programmi dei corsi a Bologna indicava come finalità la chiarificazione della struttura, della funzione e «delle leggi che governano la forma» (Inglese, 2007, p. 80). La chiesa delle Ss. Maria e Tecla alla Vergine a Pistoia, progettata tra il 1947 e il 1953 e finita nel 1956, ha aspetto spoglio e severo, con struttura in cemento armato a vista e tamponatura in mattoni aperta da feritoie. Ancora a Pistoia il M. costruì tra il 1949 e il 1950 la Borsa merci, accanto al neoquattrocentesco palazzo della Cassa di risparmio.
Presentava un telaio a vista il cui ritmo regolare era arricchito dalle variazioni in profondità delle chiusure vetrate e del rivestimento in pietra del basamento e dei laterali della facciata, da cui si intravedeva il salone centrale a doppia altezza. L’edificio fu apprezzato come esempio di architettura moderna inserita felicemente in un contesto antico; mutate tuttavia pochi anni dopo le esigenze, fu ricostruito dal M. nel 1965 come ampliamento della banca, con più libero disegno dei prospetti.
La Cassa di risparmio di Firenze gli affidò nel 1953 il progetto della sede centrale, da inserire in una zona di ristrutturazione su via Bufalini.
Il M. ideò come prosecuzione della città il grande salone per il pubblico con ballatoi e affacci su più livelli, spazio aperto che evidenzia la «trasparenza» della banca; il ritmo dei telai in cemento armato è ripreso nella copertura, che si inarca tra setti triangolari inclinati, proiettandosi a formare il coronamento del prospetto laterale. L’edificio, terminato nel 1957 e considerato tra le opere maggiori del M., non ha facciata su via Bufalini, in quanto fu imposta la conservazione della preesistente, benché priva di valore.
Tra il 1953 e il 1956 realizzò con Carlo Scarpa e Ignazio Gardella una nuova sistemazione, oggi in parte alterata, per le sale dei primitivi agli Uffizi. Sempre a Firenze intervenne nella ricostruzione intorno a ponte Vecchio con due edifici in via Guicciardini, il primo per l’INA (Istituto naz. assicurazioni) ad angolo con via dello Sprone, per abitazioni, uffici e negozi (1954-57), il secondo al n. 24 per abitazioni e negozi (casa Termini-Ventura, 1956-60).
Si tratta di due riusciti inserimenti in un centro storico senza espedienti mimetici; l’edificio dell’INA presenta inoltre un’innovativa tipologia duplex per le residenze.
A partire dal 1954 il M. disegnò il piano del villaggio industriale di Larderello (Pisa), ove la chiesa a pianta poligonale (1956-59) ha pareti finemente traforate all’interno del telaio in cemento armato, che ricordano le architetture di Perret. L’attività urbanistica del M. era proseguita con la consulenza per i piani regolatori di Ferrara e di Firenze; qui nel 1957 coordinò il piano di un quartiere di edilizia popolare per 12.000 abitanti a Sorgane che incontrò forti opposizioni, perché introduceva una direttrice di sviluppo a est contro le indicazioni del piano regolatore; il M. finì con il dimettersi e il piano fu realizzato solo in parte. Nel 1956-57, con il progetto del grattacielo di piazza Matteotti a Livorno, articolata torre abitativa di venti piani su un basamento per uffici, terminata nel 1966, riprese precedenti studi sulle residenze verticali, dalle case torri per la ricostruzione a ponte Vecchio al centro residenziale e commerciale a Sanremo (1952). Nel 1957 acquistò la villa panoramica Il roseto a Fiesole, da allora in poi sua residenza; in quell’anno fu incaricato dal ministero dei Lavori pubblici della sistemazione della cittadella di Pisa, area sul limite ovest del centro storico tra antiche mura e resti degli arsenali repubblicani, ove realizzare un monumento a Galileo Galilei.
Del progetto, articolato su un percorso centrale concluso dal Museo Galileiano, furono iniziate alcune parti (la piscina e il teatro all’aperto), poi rimaste in abbandono.
Ricevette nel 1958 il premio Feltrinelli per l’architettura dall’Accademia dei Lincei, il primo di una lunga serie di riconoscimenti e onorificenze, e alla XII Triennale di Milano del 1960 fu uno degli otto architetti italiani cui fu dedicata una sezione. Nel 1958 progettò per il parco di Pinocchio a Collodi l’osteria del Gambero rosso, in cui appaiono per la prima volta pilastri ramificati. A Bologna tra il 1955 e il 1965 realizzò per l’Università, lungo via Zamboni, la ristrutturazione del palazzo Golfarelli per la facoltà di lettere, l’istituto di matematica, il cui asimmetrico portico con pilastri a forcella ricorda i porticati lignei bolognesi del Medioevo, e il limitrofo istituto di geologia. Risale al 1959-61 la chiesa del cimitero della Vergine di Pistoia, la cui singolare conformazione nasce dall’inserimento nei percorsi del porticato del camposanto. La chiesa del Cuore immacolato di Maria (1959) del villaggio Belvedere, nei dintorni di Pistoia, è un’aula con l’altare sul lato maggiore, ove pilastri a ventaglio in cemento armato sollevano una copertura a tenda sul perimetro in pietra a vista.
Terminata nel 1961, presenta in nuce elementi della successiva chiesa dell’autostrada, e a partire da essa il M. abbandonò l’organismo religioso tradizionale, statico, per privilegiare uno spazio comunitario, percorribile, anticipando le indicazioni liturgiche del concilio Vaticano II.
Del 1961-63 sono l’edificio per abitazioni e uffici in piazza Brunelleschi a Firenze e la cappella sacrario per i caduti di Kindu all’aeroporto di Pisa, definita dal M., costretto da limiti di tempo ed economici ad abbandonare la prima ideazione, un lavoro «forzato». Essa si apre con una vetrata sull’aeroporto dal quale partirono gli aviatori; la struttura interna in pilastri metallici e travi reticolari ha eccessivo peso figurativo e «l’opera finita sta tra la chiesa del Belvedere e l’osteria del Gambero Rosso, ma tutto vi appare fin troppo raggelato» (Dezzi Bardeschi, 1988, p. 157). Nel 1959, a Campi Bisenzio presso Firenze, per commemorare gli operai morti nella costruzione dell’autostrada del Sole era stata iniziata, all’incrocio di questa con la Firenze-mare, la chiesa di S. Giovanni Battista, su disegno di altro progettista.
Il banale schema basilicale previsto aveva destato riserve e alla fine del 1960 il M. fu chiamato a rivederlo, grazie anche a Fagnoni, membro della commissione d’arte sacra. Il M. accettò a condizione di poter redigere un nuovo progetto, che però avrebbe dovuto tenere conto delle fondazioni esistenti e delle opere d’arte già commissionate. Egli concepì la chiesa come sosta lungo un percorso, simboleggiata dalla tenda, struttura mutevole sotto l’effetto del vento e della posizione dei sostegni. In pochi mesi, con schizzi come di consueto, ma anche con modelli in creta e bronzo, ideò quest’opera che offre alla strada l’immagine potente di un’arcaica muraglia di pietra aperta da feritoie, su cui si erge, drammaticamente sollevata a un’estremità da un altissimo puntone, la copertura rivestita in rame, il cui displuvio il M. avrebbe voluto percorribile a simboleggiare la salita al Calvario. All’interno delineò un’inedita sequenza spaziale che dal sagrato, da cui inizia un separato percorso per il battistero, attraverso una galleria ove trovano efficace sistemazione i preesistenti bronzi di E. Greco e V. Crocetti, introduce lateralmente all’aula, schematizzabile in pianta in una croce latina con l’altare in uno dei bracci minori. È uno spazio suggestivo e mutevole, in cui non si avverte inizialmente alcuna geometria preordinata e pilastri-alberi salgono ramificandosi a puntellare la grande vela di copertura. La realizzazione comportò nuove fondazioni e il superamento di difficoltà tecniche; il M. frequentò assiduamente il cantiere, controllando che fosse rispettato il progetto ma lasciando liberi gli operai nella muratura dei conci, fino all’ultimazione nel 1964. L’opera, nota come chiesa dell’Autostrada, riscosse quasi unanimi consensi e fu pubblicata in molte riviste anche straniere; ritenuta il capolavoro della maturità del M., per essa si è parlato di «neoespressionismo» (Zevi).
Mentre definiva quest’opera, il M. iniziò anche il progetto del santuario della Beata Vergine della Consolazione a Borgo Maggiore, San Marino, terminato nel 1966 ove, partendo da un analogo processo ideativo, giunse a un risultato più vicino alla cappella di Ronchamp di Le Corbusier (Ch.-E. Jeanneret): scompaiono muri di pietra e pilastri-albero; un intonaco materico avvolge tutte le superfici e il risultato fortemente espressivo è dato dal graduare della luce schermata da setti murari traforati. Di quegli anni è anche il palazzo delle Poste a via Pietrapiana a Firenze, che nel salone richiama i temi della Cassa di risparmio, mentre l’esterno è caratterizzato dallo slittamento di piani e volumi e dal contrasto di cemento a vista e pietra. Nel 1965 don Nilo Rigotto, sacerdote del villaggio giardino di Arzignano (Vicenza), espose al M. le sue idee per un centro di culto, di cui fu posta la prima pietra nel 1967; il progetto si estese alla casa parrocchiale e alla scuola elementare, creando un centro comunitario intorno alla piazza della chiesa. Questa, terminata per motivi economici molti anni più tardi, è anch’essa a pianta trasversale ed è scandita sui lati maggiori da moduli uguali, corrispondenti alle travi reticolari della copertura. Il 21 maggio 1965 per limiti d’età dovette abbandonare l’insegnamento all’Università di Bologna, che gli conferì il titolo di professore emerito. Nel 1966 fu incaricato della ricostruzione della chiesa di Longarone, spazzata via nel disastro del Vajont.
Per l’edificio, che doveva essere a un tempo testimonianza della tragedia e speranza per il futuro, il M. partì dall’assunto consueto della chiesa come luogo di percorso e di incontro, tornò sul tema della salita al Calvario, ma giunse a una struttura inedita, un monolite di cemento chiaro ove, avvolti da un percorso esterno ascendente, si sovrappongono due anfiteatri: l’inferiore per le celebrazioni, presso cui un ambiente conserva reperti della vecchia chiesa, e il superiore aperto sulla valle. L’approvazione del progetto nel 1967 non fece cessare l’opposizione degli abitanti, che volevano una costruzione più tradizionale; la prima pietra fu posta solo nel 1975, la conclusione dei lavori fu nel 1978.
Il M. si misurò con un’altra catastrofe dopo l’alluvione del novembre 1966 a Firenze, quando il Comune gli affidò uno studio per il recupero del quartiere di S. Croce (Il quartiere di S. Croce nel futuro di Firenze, in collab. con A. Ardigò e F. Borsi, Roma 1968). Le sue proposte, che riprendevano alcuni dei principî studiati per la ricostruzione a ponte Vecchio, furono criticate alla luce dell’acquisito concetto di unitarietà e intangibilità del tessuto storico urbano e rimasero inattuate. Nel 1967 progettò con Mauro Innocenti l’ospedale di Sarzana (La Spezia); fu l’unica occasione per il M. di studiare il tema della degenza, ma la costruzione, avviata nel 1974 e rivista nel 1976 in base a nuove esigenze, si protrasse per decenni ed egli non poté vederla completata. Nel saggio Brunelleschi mago (Pistoia 1972) celebrò l’architetto come maestro di una scienza prospettica rivolta all’uomo in organismi partecipi dello spazio urbano. Sempre nel 1972 l’ottantenne M. iniziò una collaborazione stabile con l’architetto Bruno Sacchi e fu interpellato per una stele a Michelangelo sulle Alpi Apuane, in vista del quinto centenario della nascita. Il M. sentì inattuabile l’idea in quel contesto e immaginò invece un complesso in due piccole cave abbandonate, l’una coperta da una tensostruttura, laboratorio per scultori e apprendisti, l’altra lasciata come cavea all’aperto. Del memorial, che avrebbe dovuto comprendere anche un osservatorio e una scultura di H. Moore, fu posta la prima pietra simbolica nel 1975, ma i lavori non furono mai avviati. Il Monte dei paschi di Siena lo incaricò nel 1973 del progetto per la nuova sede a Colle di Val d’Elsa; realizzata tra il 1977 e il 1983, attesta la carica innovativa ancora presente nel M.: temi a lui cari come la totale percorribilità del costruito, l’inserimento nel tessuto storico, i pilastri ramificati si risolvono in un edificio «sperimentale» in cui grandi pilastri metallici rossi sollevano e attraversano i volumi, tra cui il salone della banca, collegati da passerelle e lasciano libero il piano terra. Qui tuttavia non trova esito felice l’idea della piazza-mercato e nella costruzione «si avverte tutta la difficoltà del passaggio dai fantasiosi disegni dell’anziano architetto alla concretezza del costruito» (Muratore, 1988, p. 280). A Firenze il Comune nel 1973 affidò a noti architetti la trasformazione in spazi espositivi degli edifici ottocenteschi di villa Strozzi; per la Limonaia il M., conservando le sole facciate, ideò percorsi aerei interni e un teatro all’aperto come copertura. Il progetto, rivisto nel 1984 da Sacchi e semplificato, fu realizzato nel 1998. Il 31 luglio 1974 morì improvvisamente la moglie Eloisa.
Il decennio successivo vide il M. impegnato in numerosi progetti, rimasti per lo più senza esito anche per la loro carica utopica. Con una prima donazione di circa 900 suoi disegni, fu istituito nel 1980 dal Comune di Pistoia, che gli conferì la cittadinanza benemerita, il Centro di documentazione permanente sulla sua opera. Nel 1982 il M., con la Regione Toscana e i Comuni di Pistoia e Fiesole, costituì, nominandola erede universale, la Fondazione Giovanni Michelucci, con la direzione dell’amico collaboratore Guido De Masi e sede nella villa Il roseto, e lo scopo di «contribuire agli studi e alle ricerche nel campo dell’urbanistica e della architettura moderna e contemporanea, con particolare riferimento ai problemi delle strutture sociali». Riprese l’anno dopo la pubblicazione de La Nuova Città, su temi come Carcere e città, Scuola e periferia, Città e follia. Esemplare di quest’ impegno è il Giardino degli incontri nel carcere fiorentino di Sollicciano, un progetto sviluppato dal 1986 con i detenuti per creare un luogo di incontro sereno con i familiari, ultimato nel 2007.
È un padiglione polifunzionale, con giardino e teatro all’aperto: all’interno sono dedicati ai bambini la copertura e le pareti colorate, i naturalistici pilastri-albero ai cui piedi sono panchine coperte in ceramica, il percorso sopraelevato.
All’inizio del 1990 il M. ebbe l’incarico, con Corrado Marcetti e Luca Emanueli, del progetto per il complesso teatrale di Olbia, di cui sono stati sinora realizzati la cavea aperta sul golfo, la torre dei servizi, i laboratori e il centro di documentazione. Il 27 marzo tornò per l’ultima volta alla facoltà di architettura di Firenze, invitato dagli studenti occupanti.
Il M. morì il 31 dic. 1990 nella villa di Fiesole, ove sono conservate le sue ceneri accanto a quelle della moglie.
L’opera del M. attraversa il Novecento, sfuggendo a ogni tentativo di classificazione all’interno dei movimenti architettonici che vide avvicendarsi nel corso della sua «vita lunga un secolo». La formazione presso l’Accademia, carente di contenuti tecnici e critici, lo rese un autodidatta che, armato di una «tenace volontà espressiva» (Dulio, 2006, p. 55), condusse sempre una ricerca autonoma, persino isolata. Si affermò quando l’architettura italiana oscillava tra monumentalismo e razionalismo, rimanendo in elegante equilibrio negli istituti della Città universitaria di Roma e nella palazzina reale della stazione di Firenze, non senza cadere in qualche compromesso classicista negli anni seguenti. Dal dopoguerra si rese sempre più autonomo dalle tendenze contemporanee. Nel suo insegnamento evidenziava la genesi della forma come risposta all’analisi dei bisogni e delle relazioni tra gli uomini, del loro rapporto con la storia e la natura. Era quindi rifiutata ogni cifra stilistica a priori; il M. giunse a negare la possibilità di insegnare la composizione architettonica, e anche questo – la mancanza di una linea univoca che rispecchiasse l’indirizzo della scuola – fu all’origine dei contrasti con la facoltà di Firenze. Il processo creativo del M., come testimoniato dagli studi progettuali del dopoguerra, è costituito da una verifica continua della rispondenza al tema, dall’esplorazione dei nessi spaziali e dei percorsi; le idee generatrici della forma si alternano a prefigurazioni del risultato, in una ricerca che spesso non si arrestava nemmeno a lavori iniziati. Come deluso per le potenzialità lasciate inesplorate dalla costruzione, dopo aver sottoposto a critica le sue opere, il M. se ne distaccò. Egli, che affermò più volte di non avere certezze, in ogni nuovo tema «revoca in dubbio ogni acquisizione stabilita, mette in movimento, rimescola le idee e le forme fino a che abbiano perso ogni riflesso di pigrizia, ogni carattere di garantita permanenza» (P. Portoghesi, in M. per la città …, 1991, p. 20). Ciò spiega la mutevolezza di forme, più che la discontinuità stilistica, anche tra opere cronologicamente vicine e perché, nonostante la durata del suo insegnamento, il M. non abbia creato una «scuola»: negli allievi più vicini, alla maggior parte dei quali sopravvisse, l’unico – anche se fondamentale – lascito, nell’assenza di qualsiasi condizionamento formale, è un sottofondo comune, un «riferimento di partenza, genetico, della progettazione alla “scala umana” dello spazio interno come determinante degli esiti finali» (Gobbi, 1987, p. 42). La sua opera, caratterizzata da una sofferta capacità di rinnovarsi continuamente e da un crescente impegno etico, costituisce un personale contrappunto alle vicende dell’architettura italiana del Novecento, che gli deve alcune delle maggiori realizzazioni.
Fonti e Bibl.: La bibliografia più completa e aggiornata, oltre al repertorio delle architetture e l’elenco dei numerosi scritti del M., è in C. Conforti - R. Dulio - M. Marandola, G. M. 1891-1990, Milano 2006. Di seguito si citano solo opere a carattere generale. R. Papini, Di G. M. architetto, in Domus, XXV (1930), pp. 20-23, 58-60; M. Piacentini, Recenti opere di G. M., in Architettura, febbr. 1940, pp. 55 s.; E. Detti, G. M., in Comunità, 1954, n. 23, pp. 38-42; L. Ricci, L’uomo M., dalla casa Valiani alla chiesa dell’Autostrada, in L’Architettura. Cronache e storia, 1962, n. 76, pp. 664-689; G. M. (intervista a cura di F. Borsi), Firenze 1966; L. Lugli, G. M. Il pensiero e le opere, Bologna 1966; G. Torretta, G. M. e la ricostruzione delle zone attorno al ponte Vecchio, Torino 1967; N. De Mayer, L’architettura di M., in Problemi della città, Padova 1967, pp. 119-127; M. Cerasi, M., Roma 1968; G.K. Koenig, Architettura in Toscana 1931-1968, Torino 1968, pp. 73-102; L. 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M. Petrecca