MANNA, Giovanni
Nacque a Napoli il 21 genn. 1813 in un'agiata famiglia che gli consentì di dedicarsi sin da giovanissimo agli studi giuridici.
Partecipe del clima di speranze progressive che l'inizio del regno di Ferdinando II dal 1830, dopo la severa repressione dei moti del 1820-21, tra il 1837 e il 1838 il M. destinò i suoi primi lavori storico-giuridici alla nuova rivista patrocinata dal governo borbonico, gli Annali civili del Regno delle Due Sicilie. Ne derivò l'edizione in volume Della giurisprudenza del foro napoletano: dalla sua origine fino alla pubblicazione delle nuove leggi (Napoli 1839), opera d'esordio che - non senza un'implicita finalità politica - rivendicava la tradizione storica della cultura giuridica meridionale correlandola con le correnti di pensiero europee. Successivamente il M. - già illustre avvocato - indirizzò le sue ricerche nell'ambito del diritto amministrativo, in cui divenne subito, e fu a lungo, un maestro. Tra il 1839 e il 1842 uscirono i tre volumi del suo corso su Il diritto amministrativo del Regno delle Due Sicilie. Saggio teoretico, storico e positivo (ibid.): il primo dedicato alle basi teoriche, il secondo all'evoluzione storica e il terzo all'esposizione delle leggi vigenti nel Regno meridionale.
La tesi del M. era che, grazie alla pubblica amministrazione, si era squarciato il mistero del potere in modo incontrovertibile. È inoltre merito riconosciuto al M. aver saputo individuare l'autonomia del diritto amministrativo, sia rispetto al diritto privato sia rispetto a quello pubblico: "fu primo il M. a stabilire che i due principali oggetti del diritto amministrativo dovevano essere la gerarchia e la ricchezza pubblica, ovvero l'ordinamento gerarchico delle giurisdizioni e dei poteri amministrativi e la gestione della fortuna pubblica" (De Cesare, p. 152). Nella sua concezione, il diritto amministrativo rientrava tra le scienze e le opere della pace e pertanto avrebbe dovuto contribuire al miglioramento delle condizioni del Paese. Al conseguimento di tale risultato, però, il M. poneva una condizione che non poteva non risuonare polemica rispetto all'ordine costituito della monarchia borbonica: "che il governo […] si tenga esso stesso come costituito nell'interesse comune di tutti e non nell'interesse speciale d'una casta o di un partito". Per il M., infatti, sulla scia di G.B. Vico e di J.G. Herder, da lui giudicati i due più grandi scrittori della storia del mondo, vi è perfetta identità di interessi tra governo e popolo. Egli elabora pertanto il concetto della "sociabilità nazionale", nel cui interesse unico e indivisibile confluirebbero tutti gli interessi individuali, sulla base del principio di pubblicità e cioè della consapevolezza da parte dell'opinione pubblica. L'opera recava una dedica al marchese Giovanni D'Andrea, ministro delle Finanze e degli Affari ecclesiastici, in cui il M. notava che nessun'altra nazione poteva offrire alla scienza amministrativa un più largo campo di osservazioni. A questa data pareva ancora credere nella possibilità di un'autoriforma del regime borbonico.
Negli studi giuridici, il M. valorizzò la componente economica, mosso dall'esigenza di favorire la ricaduta in termini materiali delle nuove conquiste del diritto. Le sue ricerche si volsero perciò anche al diritto commerciale, con particolare riguardo al credito, ai titoli e alla borsa, alle banche e alle casse di risparmio.
Il M. si dedicò anche a lavori sulle pitture della Certosa di Napoli e a quelli danteschi riguardanti soprattutto l'interpretazione storica della metafora del veltro.
Nel novembre del 1844 il M. concorse per la cattedra di economia politica nell'Università di Napoli. Per ragioni di anzianità - e forse anche di fedeltà al regime - prevalse Placido De Luca, già docente a Catania, ma il governo volle comunque premiare i concorrenti più meritevoli - tra cui lo stesso M. e Antonio Scialoja - offrendo loro un grado nell'amministrazione, che entrambi però rifiutarono, preferendo restare privati cittadini, liberi professionisti e insegnanti indipendenti dal potere politico.
Vicino allo storico Carlo Troya per abito mentale e ispirazione politica, il M. ne frequentò il cenacolo culturale che raccoglieva quanti avevano iniziato a confidare nel nuovo corso impresso dall'elezione al soglio pontificale di Pio IX nel 1846. Quando lo stesso Troya assunse la guida del governo nell'esperienza costituzionale del 1848, il M. fu chiamato dapprima come coadiutore e poi come ministro a reggere il dicastero delle Finanze. Nello stesso anno pubblicò una raccolta comparata delle costituzioni europee a far data dal 1791, nell'evidente intento di contribuire sul piano giuridico alla stagione rivoluzionaria (Il diritto costituzionale d'Europa, ossia Raccolta delle principali costituzioni politiche d'Europa dal 1791 fino ai nostri giorni, Napoli 1848).
La successiva reazione non lo risparmiò, ma gli fu comunque evitato l'arresto grazie al credito di cui godeva a corte suo suocero, il contrammiraglio Sabatelli. Continuò a frequentare la casa di Troya, come quella dei fratelli Michele e Saverio Baldacchini, anch'essi partecipi della temperie cattolico-liberale. Nel 1858 pubblicò nel Giornale degli economisti un importante studio (Del miglioramento ed abbellimento delle grandi città. Questioni edilizie), evidentemente ispirato dall'esperienza di Napoli, allora la più grande città d'Italia.
L'aver comunque rivestito una dignità ministeriale gli diede accesso alle rappresentanze diplomatiche degli Stati esteri, in particolare quella britannica e francese, nelle cui sedi si recava spesso per respirare un po' d'aria di libertà. Il fallimento del 1848 aveva infatti cancellato le speranze che i liberali napoletani avevano nutrito nella dinastia borbonica e li aveva resi inevitabilmente simpatizzanti del Regno sabaudo, il solo Stato della penisola che non avesse revocato le garanzie costituzionali.
Il M. aveva mantenuto periodiche relazioni epistolari con l'amico e collega Scialoja, che si era recato in esilio a Torino e si era avvicinato a Camillo Benso conte di Cavour. Questo contatto si rivelò decisivo nella crisi del 1860: dopo l'avvio della spedizione garibaldina, il M. divenne uno dei principali interlocutori napoletani di Cavour sia direttamente sia tramite gli antichi sodali.
In un primo tempo si era ipotizzato un sollevamento nella capitale che precedesse l'arrivo di G. Garibaldi e orientasse il nuovo sovrano Francesco II a un'alleanza con il Piemonte. Fu una prospettiva che il M. escluse recisamente non solo per l'ignavia della corte, ma anche per l'impreparazione del popolo. "L'idea dell'indipendenza entra soltanto nella mente degli intelligenti", scrisse in una lettera del 17 giugno 1860 a Scialoja, nella convinzione che "la sola libertà può svegliare il Regno e metterlo sulla via di far miracoli".
Fautore dell'Unità italiana ma legato anche dagli studi storico-giuridici allo Stato meridionale e attento alle sue specifiche problematiche sociali, il M. volle tentare, in quella crisi, la carta di un'unificazione mediata, appoggiando l'estremo richiamo della costituzione del 1848 nell'auspicio che non la conquista militare, ma la trattativa diplomatica avrebbe conseguito l'obiettivo nazionale. Il M. avrebbe al riguardo ricordato un colloquio privato con Francesco II e la pietosa impressione che ebbe del giovane re, confrontato con Ferdinando II, che aveva rivolto sprezzanti parole - nella stessa sala della reggia - a lui e agli altri ministri nell'infausta giornata del 15 maggio 1848, quando fu posta fine al governo costituzionale.
In tale ottica il M. accettò di far parte del ministero Spinelli: fece ritorno al dicastero delle Finanze ed ebbe quale stretto collaboratore, come direttore generale, l'amico e poi biografo Carlo De Cesare. Il re lo inviò, insieme con il diplomatico di carriera Antonio Winspeare, a Torino perché trattasse con casa Savoia l'alleanza prima rifiutata. Il M. partì senza molta fiducia per una missione che considerava quanto meno tardiva ma che accettò più per rispondere alla sua intima convinzione volta a preservare l'autonomia del Mezzogiorno d'Italia che per fedeltà alla dinastia borbonica. Presto sarebbe caduta anche l'ultima illusione, dal momento che l'evidente debolezza dei Borboni ne aveva ormai compromesso ogni residua influenza, e la soluzione unitaria si affermava rispetto a quella confederale anche presso i più moderati.
Rientrato a Napoli, il M. si astenne per coerenza dall'assumere incarichi pubblici immediatamente dopo il crollo di quello Stato che aveva servito, pur in piena indipendenza di giudizio, nella sua fase estrema. Accettò soltanto l'ascrizione all'Accademia delle scienze di Napoli e la cattedra universitaria di diritto amministrativo nell'ateneo cittadino, formulandone la prolusione il 7 genn. 1861 (Prolusione per la cattedra di amministrazione pubblica nell'Università di Napoli, ibid. 1861). L'insegnamento universitario lo aveva spinto a pubblicare una ristampa del suo corso (Partizioni teoretiche del diritto amministrativo, ossia Introduzione alla scienza ed alle leggi dell'amministrazione pubblica, ibid. 1860).
L'alta sua competenza professionale - unitamente alla stima e all'amicizia di cui godeva tra gli antichi esuli divenuti deputati della Destra meridionale - favorì presto la sua nomina alla direzione generale delle gabelle a Torino da parte del conte Pietro Bastogi, che guidava il dicastero delle Finanze nel gabinetto Ricasoli. Mutati il governo e anche l'indirizzo politico con il ritorno al potere di Urbano Rattazzi, il M. preferì nuovamente la vita privata, ma la situazione politica del Mezzogiorno - scosso dal brigantaggio e soggetto alla piemontesizzazione - gli impose di prendere pubblicamente posizione con lo scritto Le province meridionali, pubblicato a Napoli il 15 luglio 1862, che lo fece ascrivere alla corrente dell'autonomismo meridionale.
Pur nell'ambito di un sentimento unitario che nulla concedeva a velleità reazionarie, nel saggio il M. criticava aspramente la "furia innovatrice e legislatrice" prima della luogotenenza poi del governo centrale, rigettando il criterio dell'uniformità che, a suo avviso, avrebbe inaridito le fonti naturali del patriottismo del popolo, ovvero le sue tradizioni. Da giurista, egli considerava infatti che le istituzioni politiche dovessero essere il più possibile aderenti alle condizioni del Paese. Anche se non risolve l'aporia tra il riconoscimento della decadenza del Regno borbonico e l'accusa a quello piemontese di non aver puntellato il nuovo con il vecchio, il M. sembra avere fiducia nel futuro e in particolare nelle potenzialità della popolazione del Mezzogiorno e invita i "buoni italiani" a studiare con attenzione il problema del ravvicinamento fisico e morale delle province meridionali.
In particolare, egli avrebbe auspicato una più lunga durata del regime luogotenenziale, ovvero del governo separato e distinto del Mezzogiorno, per consentire una maggiore meditazione e maturazione dello sbocco unitario. Riprendeva criticamente l'illusione nutrita nell'ultimo scorcio borbonico, riproponendo l'ipotesi di un'unificazione graduale forse tardiva ma, a suo dire, non certo irragionevole, al punto che sarebbe stata condivisa - benché non apertamente - dallo stesso Cavour. Pur insistendo sulla diversità della popolazione meridionale, più incline alla forza e alla fantasia che alla calma e alla temperanza, egli ne rivendicava strenuamente il contributo alla causa nazionale, sia nel 1848 sia nel 1860, in termini di eguale coraggio.
Nominato senatore per la quinta categoria il 16 nov. 1862 - su proposta del governo Rattazzi, da cui pure aveva voluto scindere ogni responsabilità politica - meno di un mese dopo fu chiamato al ministero dell'Agricoltura, dell'Industria e del Commercio nel gabinetto Farini, poi retto da Marco Minghetti. La sua nomina, all'indomani dell'uscita del citato pamphlet, assumeva una precisa connotazione politica, come segnale di corresponsabilizzazione delle classi dirigenti meridionali. Ministro dal dicembre 1862 al settembre 1864, il M. si interessò di demani comunali, bonifiche e foreste. Decentrò l'autorizzazione di nuove fiere e mercati, nonché le nomine nelle istituzioni e commissioni locali, anche per sottrarsi alle pressioni politico-clientelari che cominciavano a emergere. Dopo aver riordinato il Banco di Napoli, si fece promotore di un'iniziativa legislativa per la fondazione della Banca d'Italia, che non ebbe seguito parlamentare per l'ostilità manifestatasi in Senato a difesa delle prerogative degli antichi istituti di emissione.
La polemica politica non lo risparmiò: nella seduta della Camera del 28 giugno 1864 l'opposizione gli sferrò un attacco personale, affidato al deputato Giuseppe Saracco. Gli era contestata la collaborazione prestata alla monarchia borbonica, ma egli seppe facilmente spiegarla invocando la memoria della confidenza avuta con Cavour. Sia pure nei limiti consentiti, non smentì però di aver sostenuto un'alternativa all'unificazione tout court, pur presentandola come un'ipotesi subordinata. La sua esperienza ministeriale coincise con la crisi della convenzione di settembre, su cui intervenne in Senato il 2 dic. 1864. Quindi il M. tornò definitivamente a Napoli. Morì a Torre del Greco il 23 luglio 1865.
I tre figli sarebbero morti di lì a poco, mentre la moglie si sarebbe risposata. Fu commemorato in Senato dal presidente Gabrio Casati il 20 nov. 1865, non senza un'eco della polemica intercorsa l'anno precedente.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Prefettura di polizia, b. 1640/II, f. 500; Archivio Borbone, bb. 1041, 1134, 1159; Archivio Bonghi, nn. 127, 128; Roma, Arch. del Senato, Fascicoli personali dei senatori del Regno, ad nomen; Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, leg. VIII, sessione 1863-64, pp. 1967-2059; Le Assemblee del Risorgimento, Napoli, I-II, Napoli-Roma 1911, ad ind.; La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d'Italia. Carteggi di C. Cavour…, V, Appendici, Bologna 1954, pp. 147-194; A. Ciccone, Elogio storico di G. M., Napoli 1876; C. De Cesare, G. M., in Il Risorgimento italiano. Biografie storico-politiche d'illustri italiani contemporanei, a cura di L. Carpi, Milano 1886, II, pp. 150-186; F. Tessitore, Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il Sessanta, Napoli 1962, pp. 40-43; G. Rebuffa, La formazione del diritto amministrativo in Italia. Profili di amministrativisti preorlandiani, Bologna 1981, ad ind.; O. Abbamonte, Potere pubblico e privata autonomia. G. M. e la scienza amministrativa nel Mezzogiorno, Napoli 1991.