MANELFI, Giovanni
Nacque a Monterotondo nel 1581 da un'agiata famiglia proveniente dal castello di Salisano in Sabina. Non è noto il nome del padre (forse Andrea, meno probabilmente Lelio); la madre si chiamava Angela.
Studiò a Roma, e nei primi anni del XVI secolo si laureò in medicina; suo maestro fu A. Cesalpino, da cui trasse l'orientamento a contemperare la tradizione aristotelico-galenica con la ricerca empirica della philosophia naturalis. Nel 1626 gli Orsini del ramo di Monterotondo vendettero i loro diritti su Salisano a Carlo Barberini, fratello di Urbano VIII, e da allora il M. mise la sua carriera sotto il patrocinio dei Barberini.
Nello stesso anno ottenne la nomina a professore ordinario di filosofia allo Studium Urbis, dove prese il posto di P. Garigliano. Mentre il predecessore era un colto umanista, studioso di retorica e poetica (nel 1616 aveva tenuto lezioni su sonetti di G. Della Casa all'Accademia degli Umoristi), il M. iniziò i suoi corsi il 5 nov. 1626 commentando il De meteoris di Aristotele. Tutta la sua attività nei nove anni in cui tenne la cattedra di filosofia fu rivolta ad argomenti scientifici: a Roma la cattedra ordinaria di filosofia generale era specificamente dedicata allo studio della Physica aristotelica, quasi propedeutico alla medicina. Le lezioni del M. si occuparono delle influenze del clima sull'uomo oppure, commentando il De anima di Aristotele, di problemi di biologia e psicologia. Il favore di cui godeva è rivelato anche dal progredire dei compensi percepiti (dai 70 scudi annuali del 1626-27 ai 170 del 1634-35).
Nel novembre 1635 il M. ottenne, per raccomandazione del cardinale Francesco Barberini, la cattedra di medicina pratica, scoperta dal 1633. Nel corso dei 19 anni d'insegnamento, tenne corsi sulle malattie delle parti e degli organi della testa e sulla febbre; il suo stipendio annuo salì fino a 400 scudi nel 1650.
Morto Urbano VIII nel 1644 e fuggiti i suoi nipoti, il M. riuscì a farsi apprezzare anche da papa Innocenzo X, che però fece assegnare al portoghese G. Fonseca, suo medico personale, un'altra cattedra di medicina pratica dello Studio. Sostenuto dal favore papale, Fonseca ebbe incarichi e gratifiche e ben presto fu pagato quasi il doppio rispetto al Manelfi. Stimato per la sua dottrina, specialmente nel campo dell'alimentazione, il M. ebbe anche l'onorifico titolo di protomedico generale di Roma e dello Stato della Chiesa. La sua fama è attestata dalla biografia dedicatagli, come "medico dottissimo", dal letterato alessandrino G. Ghilini, membro di spicco degli Incogniti di Venezia, nel suo Theatro d'huomini letterati (Venetia 1647). Il M. appartenne agli Accademici Vigilanti, di cui fu principe, e fu amico del poeta O. Tronsarelli.
Il M. morì a Roma il 10 ag. 1654 e fu sepolto nella tomba di famiglia in S. Gregorio al Celio.
La sua cattedra, rimasta scoperta nel 1654-55, fu assegnata l'anno dopo al medico senese M. Naldi, già professore a Pisa.
Da Faustina Marazzini (1606-57), sposata nel 1627, ebbe Giovanni Andrea (nato nel 1632) e quattro femmine. Il figlio e il fratello minore Feliciano furono suoi allievi e professarono anch'essi l'arte medica.
Delle opere del M., edite a Roma a partire dal 1618, in particolare le Urbanae disputationes in primam Problematum Aristotelis sectionem (1630) gli procurarono la stima del cardinale F. Barberini, su incarico del quale designò T. Dalla Fonte e P. Zacchia a coordinare il dibattito tra i medici romani sulla peste serpeggiante in Italia. Si occupò inoltre di trattazioni specialistiche: sulle ghiandole lacrimali (Tractatus de fletu et lacrymis, 1618), sulle presunte proprietà dell'elleboro contro la follia (De helleboro disceptatio, 1622), sulle alterazioni febbrili (De febribus theoria, 1625, dedicato al cardinale G.B. Leni; nuova ed. aumentata, 1646), sulla pleurite (De parte affecta pleuritidis decertatio, 1642, seguita da un'appendice, 1643). Il De fletu et lacrymis fu giudicato molto dotto da Renazzi, ma osservazioni interessanti si trovano anche nel breve trattato sulla pleurite, che sarà superato solo dagli studi di M. Malpighi. Il libro sull'elleboro nacque dai dibattiti con l'amico ed ex compagno di studi P. Castelli, celebre botanico, che nel 1622 pubblicò anch'egli una Epistola sull'elleboro indirizzata al M. e a E. Cleti. Nel De febribus, studiando la morbilità, in quegli anni acuta, in buona parte del Lazio (specie sul litorale, dove il dedicatario aveva ampie tenute agricole), il M. mostra di aderire a quella "teoria delle febbri", all'epoca dominante, secondo la quale la febbre era considerata una malattia, non un sintomo, e come tale era curata; tuttavia la tassonomia degli stati febbrili da lui avviata tornerà utile a G.A. Borelli nella sua celebre opera del 1649 sulle febbri maligne della Sicilia.
Di argomento naturalistico e filosofico è la vasta trattazione delle Urbanae disputationes sui testi aristotelici De meteoris e De anima (1641), in cui il M. sfruttò i corsi universitari di filosofia tenuti negli anni precedenti. Curò inoltre un'edizione annotata degli Aphorismi di Ippocrate (1646), più volte ristampata, a Roma, Napoli e Venezia. Questa attenzione a Ippocrate (presente anche nel De febribus) rivela una tendenza empirica, nello studio di morbo per morbo e caso per caso, allargando le dogmatiche maglie della tradizione medica del tempo, saldamente galenica; o almeno l'intento di mediare tra le due concezioni classiche della medicina, entrambe ormai insidiate dai criteri razionali e sperimentali applicati allo studio del corpo umano dai fautori della "iatromeccanica" e della "iatrochimica". All'interpretazione di un passo di Ippocrate si riferisce anche un altro saggio, la Responsio brevis ad annotationes Prosperi Martiani Saxolensis in commentatione Marsilii Cagnati Veronensis super aphorismo Concocta xxii lib. I Hippocratis (1621). Con esso il M. interveniva nella disputa sui purgativi e sulla flebotomia tra gli anziani medici M. Cagnati e P. Marziani, polemica che mise a rumore tutto l'ambiente medico romano, coinvolgendo altri clinici di nome, quali E. Cleti e F. Coluzzi. La sua ultima opera, e insieme quella di maggior mole, è la Mensa Romana sive Urbana victus ratio (1650), dedicata a papa Innocenzo X, ma non priva, nel titolo stesso, di un grato ricordo a Urbano VIII, cui egli tanto doveva. Con lo studio dei problemi dell'alimentazione, come già con quelli sul clima, il M. si volgeva dalla fisiologia e patologia all'igiene e alla filosofia naturale, riunendo in sé le qualifiche, allora tradizionalmente vicine, di medico e di filosofo.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. stor. del Vicariato, Parrocchia dei Ss. Apostoli, Licenze matrimoniali, I, c. 478 (11 apr. 1627); Parrocchia di S. Marcello, Battesimi, XII, c. 52, 14 febbr. 1630, 19 genn. 1632; Parrocchia dei Ss. Vincenzo e Anastasio in Trevi, Morti, I (a), 21 apr. 1634, 21 dic. 1636; II, 10 ag. 1654, 12 sett. 1657; Parrocchia di S. Susanna, Stato delle anime 1644, n. 47; L. Allacci, Apes Urbanae, Romae 1633, p. 162; G. Ghilini, Teatro d'huomini letterati, Venezia 1647, II, pp. 131 s.; G. Carafa, De Gymnasio Romano et de eius professoribus, Romae 1751, II, p. 365; F.M. Renazzi, Storia dell'Università di Roma, III, Roma 1805, p. 94; I maestri della Sapienza di Roma dal 1514 al 1787: i rotuli e altre fonti, a cura di E. Conte, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], CXVI, Roma 1991, p. 926 e passim; M. Ceresa, Una stamperia nella Roma del primo Seicento. Annali tipografici di Guglielmo Facciotti ed eredi (1592-1640), Roma 2000, pp. 230, 233; G. Moroni, Diz. di erudizione storico-ecclesiastica, CI, p. 40.