DUNS Scoto, Giovanni
Filosofo, nato verso il 1270 (secondo alcuni, il 1266, secondo altri, il 1274). Sul luogo della sua nascita nulla si sa di sicuro: c'è chi lo fa nativo d'Irlanda, e chi di Scozia o d'Inghilterra. Secondo il Callebaut, il nome di Duns denoterebbe il luogo di nascita. Egli entrò prestissimo nell'ordine di S. Francesco (circa il 1290) e frequentò l'università di Oxford, dove poi insegnò fino all'anno 1302. Probabilmente il suo maestro fu Guglielmo di Ware, ma, senza dubbio, egli subì l'efficacia dell'agostinismo predominante a Oxford. Nell'autunno del 1302 si recò a Parigi per conseguire il dottorato e pare che ivi in qualità di baccelliere abbia letto le famose Sentenze. Il 18 novembre 1304 il guardiano del convento di Parigi al quale era stato raccomandato dal generale dell'ordine, lo fece elevare alla dignità di maestro dell'università di Parigi, dove insegnò fino al 1306. Tornato in Inghilterra attese al commento alle Sentenze che è il suo celebre Opus Oxoniense. Nel 1308 andò a Colonia e quivi morì l'8 novembre dello stesso anno e fu sepolto nella chiesa dei Minori. La sua vita fu breve, ma la sua opera filosofica ricca e profonda.
Il generale dell'Ordine, a cui apparteneva Duns Scoto, lo celebrava come ingenium subtilissimum, e veramente egli è il più acuto pensatore di tutto il Medioevo, e non a torto si meritò il nome di Doctor subtilis. La sua dialettica e i suoi procedimenti critici, difatti, rivelavano una rara arte di distinzioni e dimostrazioni così sottili da dare l'impressione d'uno scetticismo latente nella sua filosofia, mentre scettico egli non fu e neppure critico nel senso moderno. Onde, quando il Willmann si compiace di mostrare che la relazione che passa tra Kant e Leibniz è la stessa di quella che passa tra Scoto e l'Aquinate, indulge a un criterio storico molto semplicistico che pone pensatori di epoche diversissime sopra un medesimo piano. Le analogie della filosofia di Scoto con quella di Kant sono apparenti: in realtà il primo, malgrado la sfiducia nelle prove della esistenza di Dio e nella metafisica e la dottrina del primato della volontà, è un filosofo non meno dogmatico di Tomaso D'Aquino. Senza dire, come è stato giustamente notato, che il primato della volontà ammesso dallo Scoto ha un valore soltanto nel dominio psicologico, teologico ed etico, ma non in quello gnoseologico. Lo Scoto che ebbe un senso alto del valore e dei fini della religione, posta al di là della filosofia, è naturale che non potesse considerare la stessa teologia che come una scienza pratica (Op. Oxon., Prol., q. 4, n. 31). Questo suo motivo volontaristico lo induce a porre tutti i problemi fondamentali teologici e filosofici in opposizione al pensiero tomistico.
La sua mentalità, formatasi attraverso la corrente matematica e scientifica, rappresentata da Roberto Grossatesta, da Adamo di Marsh e da Ruggero Bacone e attraverso quell'altra dell'agostinismo francescano così viva a Oxford, quando si trovò a contatto del tomismo trionfante ne scorse tutte le debolezze riuscendo a porre nuovi punti di vista che precorrono il pensiero moderno. Non ripudia l'aristotelismo, anzi di esso si serve per penetrare nello spirito intimo del tomismo che insegue in tutte le sue insenature. Il significato storico della sua filosofia è pertanto nella sua decisa opposizione a Tomaso D'Aquino, ma egli non fu soltanto un oppositore o un critico, fu anche un ricostruttore e un creatore. Movendo dalla posizione tomistica della distinzione fra la rivelazione e la ragione, Scoto discute il valore delle dimostrazioni filosofiche che come tali non possono superare il dominio della ragione. Il concetto tomistico della dimostrazione analogica o indiretta dei dogmi è trasformato: i dogmi per Scoto non possono essere dimostrati con la ragione. L'elaborazione approfondita di questa tesi induce lo Scoto alla critica delle celebri prove a posteriori dell'esistenza di Dio, adoperate dall'Aquinate. Ricorre in lui, come in quest'ultimo, la distinzione fra la dimostrazione a priori che va dalla causa all'effetto e la dimostrazione a posteriori, che dall'effetto risale alla causa, ma per provare l'esistenza di Dio si dimostra insoddisfatto delle dottrine di S. Anselmo e S. Bonaventura, che pure stimava altamente, e delle prove tomistiche. Per pensare Dio ci serviamo delle creature, ma non secondo il principio di causalità, bensì per l'affermazione dell'ente univoco (Op. Oxon., I, q. 1). Perciò la dimostrazione vera è quella a priori, mentre quella a posteriori, in fondo, non è una dimostrazione. Soltanto per la dimostrazione a priori possiamo avere una conoscenza positiva di Dio. Difatti l'ens univocum, come riconosce anche il Landry, è una soluzione soggettivistica del problema sulla esistenza di Dio, perché siamo noi a porlo e lo poniamo in quanto astraiamo dal concreto, dal finito. Ora astrarre, per lo Scoto, è opera del nostro pensiero, che genera la species intelligibilis. Per questa vena soggettivistica gli stessi attributi di Dio assumono nel pensiero di Scoto un diverso significato. I teologi-filosofi anteriori, e segnatamente l'Aquinate, cercavano di dimostrare gli attributi di Dio: invece Scoto distingue attributi da attributi. I primi che consistono nel considerare Dio come causa efficiente, ultimo fine, perfezione assoluta, essere trascendente, ecc., si possono in qualche modo dimostrare con la ragione (ratione naturali aliqualiter concluderentur); ma i secondi che si riferiscono alla provvidenza, giustizia, misericordia, onnipresenza, e onnipotenza di Dio sono credibili (credibilia), e come tali sono indimostrabili. Questa più recisa delimitazione fra il dominio della fede e il dominio della ragione era il risultato dell'efficacia che l'averroismo, anche se oppugnato, continuava ad esercitare sulla scolastica ortodossa. Ma questa posizione non deriva certamente presso lo Scoto da scetticismo, bensì dallo studio più approfondito delle dottrine aristoteliche e dal concetto più rigoroso della scienza concepita analogamente ai procedimenti matematici, per cui la teologia non gli appariva propriamente una scienza (scientia proprie dicta) come quella che non può attingere i suoi principî ex eviaentia rei (Op. Oxon., III, d. 24, q. un., nn. 13-17-18), benché, con discutibile coerenza, egli alla fine venga alla conclusione, che la teologia è certissima, perché il suo oggetto è nobilissimo ed ha per sé principî certissimi (Report., prol., q. 3). Sicché il punto finale del suo pensiero non è diverso da quello tomistico, vale a dire l'armonia fra la filosofia e la dottrina della Chiesa.
Così non può recare meraviglia che Scoto non solo sul concetto di Provvidenza (che non è stato dimostrato dai filosofi antichi e neppure da Aristotele), ma anche sull'immortalità personale dell'anima dichiari esplicitamente che queste verità non sono dimostrabili razionalmente. Anzi, egli tiene a far vedere che sul problema dell'immortalità dell'anima le dimostrazioni di tutti i filosofi antichi e dello stesso Aristotele non sono che dimostrazioni probabili, perché, in verità, essa non si può dimostrare né a priori né a posteriori. La ragione, per quanti sforzi faccia, non può provare che l'anima senza il corpo sia in sé sussistente. Né valgono gli altri argomenti sulla necessità di premî o di pene, e quindi dell'esistenza d'un supremo giudice o sul desiderio naturale dell'immortalità e della resurrezione o sul timore della morte che, per altro, abbiamo in comune con gli animali. Solo la fede può illuminarci circa il nostro ultimo destino, e quindi filosoficamente lo Scoto dà ragione ad Averroè che pure per la teoria dell'unità dell'intelletto egli chiama ille maledictus Averröes. Si direbbe che Scoto abbia la costante tendenza di riportare alla teologia tutte le questioni che la filosofia, secondo lui, non è capace di risolvere. Non si tratta più di una distinzione fra rivelazione e ragione, ma di una vera separazione fra l'una e l'altra: la fede ha un suo proprio oggetto e come tale è assolutamente indipendente. Ma, malgrado questo, i presupposti teologici premono nella teodicea che Scoto vuole costruire su fondamenti filosofici, e che forma la parte più originale del suo pensiero. Sappiamo che per porre Dio egli non muove dal finito o contingente, sì bene dall'infinito che è un concetto necessario (cioè dall'essenza e possibilità della natura di Dio), e, quindi, Dio propriamente non è evidente immediatamente, come riteneva S. Anselmo: l'argomentazione ontologica diviene in lui una legittima dimostrazione del concetto d'infinito che coincide perfettamente con quello di Dio. Ora, posta l'infinità, Scoto non ha nessuna difficoltà di considerarla come somma intelligenza, che è una infinità di intelligibili. Ma la prova più convincente dell'infinità divina è dedotta dall'inclinazione del nostro intelletto verso una verità assoluta e della nostra volontà verso un bene assoluto. Il nostro intelletto e la nostra volontà non tenderebbero all'infinito come a loro oggetto naturale, se questo fosse in sé contraddittorio. Ma il senso vivissimo dell'infinità divina derivava allo Scoto dalla sua profonda fede religiosa, tanto vero che egli tendeva a svalutare gli effetti della creazione divina, che sono interamente contingenti. La libertà divina è così assoluta che essa non può essere aggiogata a nessuna cosa. Dio, è vero, non vuole il contraddittorio, e però non può volere che ciò che è logicamente possibile, e anche nel dominio morale è, in certo modo, legato ai due primi comandamenti del Decalogo, che rappresentano la stessa legge naturale; ma ogni produzione divina è volontaria e d'una volontà d'arbitrio. Onde è vano chiedere perché Dio ha creato o non ha creato una determinata cosa. L'unica fonte o causa delle cose è la volontà di Dio, la cui assolutezza, secondo Scoto, è soltanto limitata dal principio di contraddizione, che in lui conserva tutta la sua efficacia e immutabilità. Ora se la stessa volontà divina non si può sottrarre al principio di contraddizione essa non può più essere considerata, come vuole Scoto, la padrona assoluta della scelta, né come creatrice del bene. Scoto, premuto dalla logica antica, oscilla tra indeterminismo e determinismo: da un lato rimane fermo sul principio di contraddizione; ma, dall'altro, precorre il pensiero moderno, perché pensa il bene come creazione della volontà divina. Difatti, se la cosa diventa buona in quanto è volontà di Dio e se Dio può fondare altre leggi morali da quelle già fissate, il valore della legge morale è dato dalla spiritualità o interiorità creatrice di Dio. Questa innegabile tendenza alla soggettivazione si riscontra anche nella sua teoria della conoscenza e nella sua psicologia.
Il problema circa la relazione dell'universale con l'individuale, così agitato durante tutto il Medioevo, ottiene con Scoto una soluzione originale. Egli non ammette l'identificazione dell'universale con la forma e che il principio individuale sia da ricercare nella materia. L'individualità non è per lui un'imperfezione, ma rappresenta l'ultima realitas, e per ciò l'esistente costituisce la perfezione, perché l'essenza universale (quidditas) si può dire compiuta per la natura individuata (Op. Oxon., II, d. 3, q. 6, n. 15). Questa natura individuale è adunque l'ultima forma che lo Scoto chiamerà haecceitas, la quale così costituisce il principio dell'individuazione. L'esigenza speculativa che guida questa nuova dottrina dell'individuazione proviene da un senso più largo e più profondo del reale. Duns Scoto non si appaga di un universale che sia semplice prodotto dell'intelletto: se così fosse, non si potrebbe porre nessuna differenza fra la metafisica e la logica, anzi la scienza sarebbe la stessa logica. La realtà, secondo lui, è virtualmente l'universale e l'individuale, ma è indifferente all'uno e all'altro. Così poteva ritenere che l'universale come produzione dell'intelletto avesse la sua base nelle cose. Che è un tentativo di fondere l'idealismo col realismo. Perciò la posizione tomistica è rovesciata: non è più la materia signata il principio dell'individuazione, ma è la forma che dentro di sé porta il segno dell'individuazione. Questa soluzione è stata considerata come in antitesi rigida a quella tomistica, dove l'individualità è cosa accidentale, materiale, mentre l'individualità scotistica diventa la stessa realtà come perfetta o compiuta in sé. C'era nello Scoto, evidentemente, la tendenza a conferire un valore all'individuo. Ciò che appare anche nella sua psicologia. L'anima è per lui la forma essenziale del corpo, ma esiste accanto a essa una forma del corpo (forma corporeitatis). Quindi, per altra via, anch'egli può arrivare alla conclusione che la creazione e l'immortalità dell'anima si possono dimostrare filosoficamente. In fondo, la sua mente era portata a dare un posto altissimo all'individuo per note ragioni religiose, le quali diventano più palesi nella sua dottrina del primato della volontà. Qui egli ha modo di mettere in grande rilievo tutta l'originalità dell'individuo come affermazione di sé, cioè come libertà. L'intelletto conosce e la volontà vuole, ma le operazioni del primo senza la seconda non avrebbero nessuna effettualità. In un certo senso è vero l'intelletto è causa della volontà, ma causa soltanto occasionale, mentre quando la volontà comanda all'intelletto si può ben dire causa di questo (Rep., IV, d. 49, q. 2, nn., 13, 19; v. anche Op. Oxon., IV, d. 49, n. 16).
La conoscenza dell'oggetto può dirsi anteriore alla volontà solo in senso temporale, perché la causa prima dell'atto è sempre la volontà la quale nihil aliud a voluntate est causa volitionis in voluntate (Rep., II, d. 28, q. unic., n. 20). Così la volontà è considerata da Duns Scoto come causa totale. Giacché se noi, da una parte, per volere non possiamo non avere idee, dall'altra, in quanto vogliamo, determiniamo la scelta di esse e le facciamo essere in un modo piuttosto che in un altro.
Inoltre la peculiarità della volontà consiste propriamente nella ratio constituendi. Ecco perché l'essenza del volere è più libera dell'essenza dell'appetito la quale è essenza recettiva.
L'accento volontaristico, che domina quasi tutto il pensiero di Duns Scoto, dà pure un nuovo significato alla teoria delle idee. Se, difatti, la volontà ha un primato assoluto, importa poco che Dio abbia in sé belli e formati tutti i tipi o modelli delle cose che potranno venire all'esistenza: le essenze sono conosciute da Dio in quanto sono generate da Lui. Così Dio apparisce come infinito creatore di essenze e, quindi, fuori degli archetipi platonici e neoplatonici di cui s'erano pasciuti i filosofi-teologi precedenti. Duns Scoto trae, in tal modo, alla luce il senso genuino e profondo del cristianesimo e, come è stato asserito da altri, lo libera dalle contaminazioni dell'ellenismo.
Opere: Secondo il Longpré sono da considerare genuine le seguenti opere di Duns Scoto; il trattato De primo principio, le Quaestiones in Metaphysicam, l'Opus Oxoniense, i Reportata Parisiensia e un Quodlibet. I primi trefurono stesi a Oxford, gli altri a Parigi. L'edizione del Wadding (Lione 1639; rist. 1891-1895) raccoglie tutte le precedenti, confondendo stranamente le opere autentiche con quelle apocrife, che sono la maggior parte. Non autentiche sono le Quaest. in libr. VIII Phys., come aveva riconosciuto lo stesso Wadding. L'Expositio in XII libros Metaphysicae, attribuita a Scoto, è, invece, secondo il Seeberg, dello scotista Antonio Andrea e le Conclusiones utilissimae methaphysicae sono di Gonzalo di Bilboa. Neppure autentici sono il commento Meteorologicum libri IV e il Tractatus de proportionibus. Recentemente sono stati riconosciuti come non autentici gli scritti De perfectione statuum, De rerum principio e Theoremata, perché specialmente gli ultimi due non s'accordano con la dottrina degli scritti genuini di Scoto. Anche la Grammatica speculativa è stata riconosciuta dal Grabmann come apocrifa (Arch. Franc. Hist., 1922).
Bibl.: P. Minges, Die skotistische Literatur des XX. Jahr., in Franziskanische Studien, IX (1917); E. Renan, Hist. Litt. de la France , XXV, 1869; K. Werner, J. Duns Scotus, Vienna 1881; R. Seeberg, Die Theologie des Duns Scotus, in Studien z. Gesch. d. Theol. u. Kirche, V, pp. 62-75; P. Minges, J. D. Scoti doctrina philosophica et theologica quoad res praecipuas proposita exposita et considerata, voll. 2, Quaracchi 1908; B. Landry, Duns Scot, Parigi 1922; contro il Landry: E. Longpré, La philos. du B. D. Scot, Parigi 1924; C. Harris, Duns Scotus, Oxford 1927; C. Albanese, Studi su la filos. di G. D. S., Roma 1923. Sulla vita di Scoto: H. Klug, Zur Biogr. d. Minderbrüder J. D. Sc. u. W. v. Ware, in Franz. Stud., 1915, p. 2; A. Callebaut, La patrie du B. J. D. S., in Arch. Franc. Hist., 1920, p. 13. Per una bibl. più ampia v. Ueberweg-Geyer, Grundriss d. Gesch. d. Philosophie, II, iiª ed., Berlino 1928, pp. 765-68.