DEL VIRGILIO, Giovanni
Nacque a Bologna, secondo l'accessus del codice XIII. G. 33 della Biblioteca naz. di Napoli ("natione Bononiensis, habitans in Porta Nova ante ecclesiam Sancti Salvatoris"), da famiglia probabilmente di origine padovana (secondo altri, emiliana), in anno anno anteriore al 1300.
"Del Virgilio" sembra essere un soprannome, con riferimento a un vero e proprio culto del poeta latino da parte di chi, in un documento del 16 nov. 1321, è chiamato "magister Iohannes, quondam magistri Antonii, qui dicitur de Vergillio"; più ambigue le dizioni "Iohannes Virgilianus natione Bononiensis, habitans in Porta Nova ante ecclesiam Sancti Salvatoris" (in Pietro da Moglio, o meglio nel commentatore del ms. M.C.F.I. 16 della Bibl. dei Gerolamini di Napoli [cfr. Billanovich, 1963, pp. 227 s]), e, peggio ancora, "Iohani Faventino ... Virgilian ... dicto" nella Leandreide di G. G. Nadal; parlante, invece, l'autodefinizione di "vocalis verna Maronis" nel carme di proposta a Dante (v. 36). Un'ulteriore conferma, sia pure indiretta, ci viene dall'inizio della sua attività letteraria, appena dopo il 1314, quando il nome suonava semplicemente "magister Johannes qui postea dictus est de Virgilio". Tale è infatti la rubrica del Diaffonus, sua corrispondenza poetica col marchigiano ser Nuzio da Tolentino (conservataci dal Vat. Rossiano 1007): cinque epistole in distici nel genere della "tenzone", se al carattere di canto amebeo allude anche il titolo (giusta l'etimo diaphonia "canto a due voci", come suggerisce il Martellotti).
Formatosi allo Studio di Bologna, dopo un periodo di "lezioni private", nel novembre 1321 fu incaricato dal Comune, su richiesta degli studenti, di tenere corsi sugli auctores prediletti (Virgilio, ma anche Stazio, Lucano, Ovidio), in qualità di "magister ad poesim versificaturam et auctores legendos"; ed è questa, proprio nell'anno della morte di Dante, "la prima prova scritta dell'insegnamento umanistico nelle università italiane dei tardo medioevo" (Kristeller).
Peraltro, il suo prestigio di grammatico ben fondato sulla tradizione, ma ormai aperto alle nuove istanze preurnanistiche, doveva già essere largamente riconosciuto se - fra il 1319 e il '20 - non si peritò di entrare in corrispondenza poetica nientemeno che con Dante, che allora risiedeva nella vicina Ravenna presso Guido Novello da Polenta. Più precisamente, la sua epistola di proposta (Pyeridum vox alma ...) oscilla fra l'inizio del '19 e la metà del '20, la prima egloga dantesca (Vidimus in nigris ...) fra giugno e dicembre '20, fra la tarda primavera e l'autunno del '20 l'egloga responsiva del D. (Forte sub inriguos ...); fra il settembre del '20 e quello del '21, cioè negli ultimi mesi di vita, la seconda egloga dantesca (Velleribus Colchis ...), che giunse solo postuma al corrispondente.
L'insegnamento a Bologna s'interruppe fra il '23 e il '24, forse per più ragioni: almeno, il ritardo nel pagamanto dello stipendio universitario e il ferimento del D. ad opera di un lucchese, certo Banduccino di Banduccio Bergognoni, non debitamente punito dalle autorità locali. Sta di fatto che fra il novembre '24 e il marzo '25 noi troviamo il D. trasferito a Cesena; è in questo periodo che egli scrive un'egloga ad Albertino Mussato, completata però e trasmessa al destinatario solo nel 127. Frattanto, nel '25 il D. era stato soddisfatto nei suoi crediti come professore dello Studio bolognese; s'aggiunga che un documento del marzo 1326 attesta di nuovo la sua presenza a Bologna.
Nulla invece risulta circa un suo ritorno all'insegnamento, anche perché col '27 cessa ogni notizia di lui; e che sia questo l'anno della sua morte, proverebbe anche la matricola dei notai, che sotto il '27 registra un "Virgilius Iohannis Virgilii", il quale ha tutta l'aria di essere suo figlio. Resta dunque incerto l'anno della morte come quello della sua nascita.
La produzione più interessante del D. ci è stata salvata in blocco da un codice prestigioso, il Laurenziano XXIX, 8, dovuto a un amanuense d'eccezione, Giovanni Boccaccio, che questi testi avrà avuto da ambienti romagnoli vicini allo stesso D., si pensa intorno al 1345-48 (anche se il Quaglio ha rilevato echi delle egloghe dantesche nella Comedia delle ninfe fiorentine, dunque verso il 1341-42). Ed è proprio questa unilateralità della tradizione manoscritta la ragione prima di certe vicissitudini critiche del suo corpus (come delle due egloghe dantesche). D'incerta datazione sono, nello stesso codex unicus, un frammento epico di 43 esametri; gli altri 15 esametri con cui il D. rispose alla proposta (in 13 esametri) di un ignoto; i 5 distici in risposta ai 4 di Guido Vacchetta, un medico ravennate legato - anche attraverso il notaio Pietro Giardini, "valente uomo ravignano ... lungamente discepolo stato di Dante", come ricorda il Boccaccio nella biografia dantesca, ripetendosi nelle Esposizioni - non solo allo stesso Boccaccio ma già prima all'Alighieri, entro la piccola cerchia dei suoi clientes a Ravenna: nutti artisti e nessun legista", osserva il Campana, che della minuscola corrispondenza ha procurato la prima edizione critica. Inoltre, l'egloga dialogata diretta al Mussato (Tu modo Pieriis ...), i cuiprimi 252 esametri risultano anteriori all'estate del 1325 in base ai rapporti biografici fra Dafni (cioè Rinaldo de' Cinzi) e Meri (l'autore stesso); mentre i versi finali (253-280) furono aggiunti dopo il marzo 1327, data della deposizione e uccisione di Rinaldo, che si era fatto tiranno di Cesena. Il Martellotti ha osservato che nell'egloga al Mussato lo sviluppo del dialogo e di certi elementi mimici dimostra una maturazione della tecnica bucolica dovuta proprio all'esempio di Dante; alla scuola padovana rinvia invece il rifacimento - inserito nella stessa egloga - di 6 versi del carme di Lovato Lovati su Isotta e Tristano.
Di tutto l'insegnamento universitario del D. sopravvivono (in un unico codice, XIII. G. 33 della Nazionale di Napoli) una mutila e purtroppo scorretta Ars dictaminis, riscoperta ed edita dal Kristeller; un'isolata chiosa alle Georgiche, I, 432, citata da Benvenuto da Imola nel suo commento virgiliano. più notevoli, due commenti alle Metamorfosi ovidiane (le Allegorie e le Esposizioni), attestati da numerosi manoscritti e ancora inediti (pur dopo lo studio del Ghisalberti), che denotano l'influsso degli anteriori commenti francesi, di Arnolfo d'Orléans e Giovanni di Garlandia. A parte va una curiosa parafrasi in volgare di Metam., XIII, 789-809, incastonata nel latino delle Esposizioni;fantomatica impostura, invece, è la "cronaca" De Regno catholico Romanae Ecclesiae, redatta in latino verso i primi del Trecento, intorno a cui ragguagliò il Firpo sulla scorta del Ghirardacci. Ma il nucleo più importante (quello, infine, a cui è affidata la fama del D.) è rappresentato dal materiale di pertinenza dantesca. In primo luogo, lo splendido epitaffio in sette distici scritto in morte del poeta (Theologus Dantes, nullius dogmatis expers ... Gloria Musarum, vulgo gratissimus auctor ..."), che però non fu mai inciso sul marmo della tomba (ci è conservato anch'esso dal Boccaccio, che lo prescelse fra molti altri, nella biografia di Dante, ma ebbe una diffusione manoscritta in parte indipendente entro alcuni codici della Commedia e altrove), e che alla lode della Commedia, della Monarchia e delle Egloge ("qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis Distribuit, laicis rhetoricisque modis. Pascua Pieriis demum resonabat avenis ...") associa la polemica antifiorentina ("Huic ingrata tulit tristem. Florentia fructum, Exilium, vati patria cruda suo") e l'esaltazione della cortesia dei Polentani nei confronti del magnanimo esule, asceso "ad sua ... astra" dalla quiete ravennate. In secondo luogo, e con tutt'altro rilievo culturale, le due egloghe, che costituiscono la sua corrispondenza con Dante vivo.
Sull'autenticità di queste, come dell'epitaffio (oltre che dell'egloga al Mussato), un tempo si era dubitato solo da parte di pochi (il più esplicito fu P. Meyer). Poi A. Rossi, con una serie di interventi ricchi di dottrina e di sottigliezza cercò di dimostrarne la falsificazione boccacciana, motivata dall'intento di fabbricare per Dante - contro le note riserve del Petrarca - un certo prestigio di poeta latino. L'ipotesi trovò accaniti e non sempre pazienti oppositori nei maggiori specialisti del settore, a volte tentati di liquidarla, come assurda, in poche battute; più spesso indotti a un riesame approfondito dei vari aspetti della questione, e cioè a smontare gli ingranaggi molteplici di "un congegno cosi perfetto" (Cecchini). Sul piano strutturale è giocoforza riconoscere (col Martellotti) che la corrispondenza, articolata com'è "in quattro componimenti cosi diversi tra loro, sembra attestare il formarsi occasionale di essa in quattro momenti successivi". In secondo luogo, un controllo sistematico sullo stato dei testi nell'autografo del Boccaccio (il cosiddetto Zibaldone Laurenziano), mediante un'analisi ai vari livelli (glosse, quindi cultura; prosodia e metrica, lessico, specie per i micronessi sintattici), fondata su saldi presupposti metodologici, ha condotto il Cecchini a "dichiarare decisamente l'impossibilità della falsificazione della corrispondenza Giovanni del Virgilio-Dante, e dei testi ad essa connessi, da parte del Boccaccio".
A ciò si aggiungano le conferme che vengono dalla tradizione manoscritta: otto codici, che si possono raggruppare in tre famiglie, α (Laur. XXIX. 8della Bibl. Laurenziana di Firenze, appunto lo Zibaldone Laurenziano, coltardo collaterale Vienna, Nationalbibl., 3198), κ (Laur. XXXIX. 26di mano di fra Iacopo Martini da Volterra, esemplato su un perduto codice del Boccaccio posseduto dal convento fiorentino di S. Spirito; e Kynzvart, Zamecka Knihovna, Bibl. dei Castello Metternich, cod. 2.D.4mebr. trascritto da un nipote del Boccaccio, ambedue con omissione del primo carme del D. a Dante perché non veramente bucolico; inoltre, Siena, Bibl. com., H.VI.23e Parigi, Bibl. nat. Lat. 650 in parte vergato da Marsilio Ficino) e β (Modena, Bibl. Estense, cod. Estense 676e Napoli, Bibl. stat. dei Gerolamini, M.C.F. I.16, dipendenti dal codice di Pietro da Moglio, che sulla corrispondenza tenne dopo il 1360 un corso universitario). In sostanza, un materiale derivato per intero dalla biblioteca del Boccaccio (come ha dimostrato ilBillanovich); o più precisamente, tre subarche tipi da identificare con diverse "edizioni" del Boccaccio, tutte risalenti a un archetipo costituitosi nella cerchia emiliano-romagnola di Giovanni Del Virgilio. La natura stessa di questa trasmissione esclude, cioè, la possibilità di un falso otecnologico" ad opera di un trascrittore in fondo "ingenuo" come il Boccaccio: il quale avrebbe dovuto adulterare l'intera tradizione manoscritta, procurandone la diffusione "in più subarchetipi, tutti da lui programmati con errori meccanici e ideologici ad ognuno di essi peculiari" (Brugnoli-Scarcia).
I fatti costruibili - lontani ormai i fumi della polemica - costituiscono insieme un compatto sistema; e questo non consente di scendere fin oltre il 1350, tempo in cui teoricamente Boccaccio avrebbe potuto fabbricare un simile "falso". A eseguire questa acrobatica retrodatazione dell'iniziativa bucolica a Dante, troppi dati egli avrebbe dovuto inventare per trasmettere un tale sapore di verità (o di autenticità); e per di più egli avrebbe dovuto spogliarsi delle ormai acquisite competenze bucoliche - sue proprie e dell'amico Petrarca per ricreare con tanta verosimiglianza incertezze e oscillazioni connaturate, se non alla genesi, certo al ritorno di un "genere" abbandonato per secoli. Né stupisce, d'altra parte, anche alla luce della Questio veronese, che Dante si sia distolto dalla fatica del Paradiso (ormai verso la conclusione) per accettare la sfida con un rappresentante del gusto preumanistico che faceva capo ai padovani Mussato e Lovato; tanto meno, che il D. abbia tentato di catturare alla "causa latina" (dei carmina) l'esponente più insigne della nuova letteratura in volgare. E la natura nobilmente "propagandistica" della sua iniziativa non sfuggiva a Pietro da Moglio: "Ecloga Ioannis Virgiliani ad Dantem, reprehendentis stilum et vulgarem sermonern Comediae ipsius ... Est autem ista quasi epistola, quae quinque partes continet: videlicet exordium, narrationem, confutationem, confirmationem et conclusionem" (dall'accessus a Pyeridum vox alma ...). Tutto corrisponde bene, insomma, da un lato alla carriera del D. (coi suoi addentellati culturali), dall'altro alla biografia dantesca, coi suoi punti fermi nel solenne tramonto ravennate.
Nell'epistola d'avvio (in 51 esametri) il D. esorta Dante a poetare in latino, e non più in volgare (carmine laico, quel sermo forensis rimasto estraneo ai suoi autori, con precisa allusione a Inf., IV, 101-102); a comporre anzi un carmen vatisonum (V. 24), un poema di stile alto e di argomento epico. Per questo, addirittura gli propone quattro temi di storia contemporanea, tendenzialmente "ghibellini": le imprese dell'aquila imperiale o meglio la spedizione di Arrigo VII ("quo petiit Iovis armiger astra volatu"), la sconfitta dei Fiorentini ad opera di Uguccione Della Faggiuola o (per altri) di Carlo di Valois ("quos flores, que lilia fregit arator"), la vittoria di Cangrande Della Scala sui Padovani ("Frigios damas laceratos dente molosso"), e infine l'assedio di Genova con la guerra fra Roberto d'Angiò, re di Napoli e i ghibellini di Marco Visconti ("Ligurum montes et classes Parthenopeas"). L'invito è motivato dall'opportunità di abbandonare il facile successo fra la gens ydiota, per estendere invece la propria fama attraverso il pubblico dei dotti riluttanti al volgare. Lui per primo, clericus Aonidum, vocalis verna Maronis, ma- di fronte a Dante - "oca sfrontata" (temerarius anser), offre di farsi banditore a Bologna della gloria del "cigno arinonioso" (argutusolor), fra quelle mura atteso da accoglienze trionfali ("promere ginmasiis te delectabor ovantum Inclita Peneis redolentem tempora sertis"). Nulla, dunque, in questo carme di proposta, che possa richiamarsi alla poesia pastorale, anche se un commento antico (fra i vari strati di giosse che accompagnano i quattro testi) riconosce al parlare per ambages, cioè "allegoricamente", un carattere precipuo dello stile bucolico. Si deve dunque a Dante la "trasformazione di un carteggio poetico in tenzone bucolica" (Scarcia); ma è anche vero che nel complesso "la corrispondenza poetica fra Giovanni del Virgilio e Dante è qualche cosa che non ha precedenti nella tradizione letteraria. Essa è fondamentalmente una tenzone, che si svolge in quattro battute: la prima di queste è rappresentata da una "epistola" metrica, le tre seguenti sono carmi bucolici" (Martellotti).
Dante infatti rispose con un vero e proprio carme bucolico dialogato (o amebeo), intessendo un sapiente controcanto alla proposta del Del Virgilio. Intendeva, così, polemicamente rifiutare lo stile tragico del poema di imitazione classica (stava scrivendo, anzi concludendo, ben altro poema, in volgare che proprio sul plurilinguismo o sulla mescolanza degli stili fondava rivoluzionariamente una tradizione) e colmare invece un vuoto nella nuova letteratura latina tardomedievale (o preumanistica), quello della pastorale in stile umile o elegiaco, il corrispondente esatto delle tenzoni volgari in sonetti. Nei 68 esametri le battute vengono affidate a due personaggi, Titiro (l'autore stesso), che ha ricevuto la missiva da Mopso (il D.), e Melibeo (il notaio fiorentino Dino Perini, esule, amico di Dante), incuriosito da quella novità epistolare. Titiro si mostra riluttante ad accogliere gli inviti di Mopso, sia quello di recarsi a Bologna (egli invece desidera - come già aveva confessato nell'esordio del XXV del Paradiso - l'incoronazione poetica a Firenze), sia soprattutto quello di abbandonare i comica verba e la locutio vulgaris;disposto invece al dono di decem vascula ("dieci vasetti") del latte di una sua ovis gratissima (per alcuni, 10 bucoliche a imitazione delle virgiliane; per altri, ma con assai minore fondatezza, dieci canti del Paradiso).
Nella sua replica (97 esametri), e sia pure in chiave di patetica arcadia, il D. ormeggia da vicino la seconda bucolica virgiliana, abbandonando la proposta del poema epico e affidandosi invece a un monologo di Mopso (sua controfigura) per rinnovare a Dante -divinesenex, lodato come secondo Virgilio per i suoi versi latini che stimolano all'emulazione - il suo pressante invito a Bologna: venga Dante a godere della sua rinomanza e dell'affetto di devoti discepoli, tutti in ammirazione di fronte al Virgilio redivivo, restauratore della poesia pastorale. Molti (e fra questi il Mussato) i personaggi via via evocati con i nomi fittizi della tradizione bucolica; ma il componimento resta ben lontano dalla "disinvoltura" pastorale di Dante, assai meno preoccupato di sottili giochi allusivi.
Tale maestria trova conferma nell'ultima egloga, in 97 esametri come la precedente, ma più vicina agli schemi virgiliani. Titiro-Dante e Alfesibeo-Fiduccio de' Milotti (un medico certaldese, amico di Dante a Ravenna) ascoltano da Melibeo i versi di Mopso. Titiro, pregato da Alfesibeo di non lasciare i pascoli noti di Ravenna per gli antri insidiosi di Bologna, risponde che egli cederebbe all'invito se non temesse la crudeltà di Polifemo (personaggio di ambigua interpretazione, ma forse figura di un generico pericolo "guelfo"); mentre l'idillica ospitalità di Iolla-Guido Novello gli garantisce a Ravenna la quiete necessaria alla creazione poetica.
A questo punto, certo, la corrispondenza non poteva avere un seguito, neppure da parte del D.; ma, nella sua incompletezza, rappresenta un crocevia non eludibile nella cultura del primo Trecento. Quanto al retore bolognese, l'incontro con Dante ha funzionato proprio nel senso di stimolare in lui una compiuta arte allusiva; e in ogni caso le due egloghe del D. restano il vettore più ricco e sicuro per ricostruire le principali coordinate della sua cultura. Non alludiamo soltanto alla tormentatissima glossa della lectura Terentii ("Davus et ambigue Sphyngos problemata solvet") o alle altre allusioni terenziane in funzione polemica contro lo stile comico o volgare, su cui è tornata da ultimo persuasivamente la Villa; e neppure agli auctores rituali (Ovidio, Orazio ecc.) perpetuamente citati in chiosa alle Egloge. Sischiude infatti un ventaglio assai più largo di modelli anche peregrini (come quelli riemersi grazie all'energia filologica di G. Velli), riconducibili insieme al magistero professionale cui si legano i commenti ovidiani e soprattutto gli scritti retorico-grammaticali studiati recentemente dall'Alessio. Proprio quest'ultimo, sondando un nuovo codice (Siviglia, Bibl. capitular Colombina, ms. 81.6.6) delle opere grammaticali del D., composte a Cesena dal 1324 al 126, ne ha messo definitivamente in luce i rapporti con l'officina padovana di Lovato, Rolando da Piazzola e Albertino Mussato, nella rilettura e fruizione ma anche nel superamento del Tractatus modorum significandi di Martino di Dacia e delle altre opere dei "modisti" (Boezio di Dacia, Roberto Kilwardby, Simone di Dacia ecc.), nonché della tradizionale grammatica normativa (Prisciano, Donato, Pietro Elia ecc.), per l'abbondanza di citazioni classiche accanto all'impiego saltuario di citazioni in volgare.
Alle "fonti" già indicate da F. Ghisalberti per le Allegorie ovidiane del D. (Arnolfo d'Orléans, Giovanni di Garlandia coi suoi Integumenta Ovidii, Fulgenzio, i mitografi vaticani ecc.) e da P. O. Kristeller per l'Ars dictaminis (Donato, De inventione ciceroniano con la Rethorica ad Herennium, Sallustio e Livio, l'apocrifa corrispondenza fra Seneca e s. Paolo, Boezio e Marziano Capella, Pier Della Vigna ecc.) - modelli confermati attraverso l'analisi delle egloghe a Dante e al Mussato e degli scritti minori del D. - si aggiungono così incroci con altri e non meno prestigiosi autori, che non potrebbero davvero dirsi scontati. Oltre alla Parisiana poetria dello stesso Giovanni di Garlandia, al canonico Isidoro di Siviglia e all'onnipresente Virgilio, si allineano dunque l'Ovidio dei Tristia, Lucano, il Laborintus di Eberardo Alemanno, l'Anticludianus di Alano di Lilla; e poi gli antichi poeti cristiani: Iuvenco, Draconzio, Prudenzio, Sedulio, Ennodio, Boezio.
Il risultato è spesso (per cedere la parola al Velli) quello di "una pronunciata intensità di effetti espressivi, una semanticità plurima ... conseguita dietro assorbimento di multipli livelli della tradizione letteraria": non tanto per letture di prima mano, quanto piuttosto per "sollecitazioni provenienti dalle frequentazioni professionali (poetrie, artes, repertori e manuali)". Una tecnica espressiva che agisce tanto sul significante quanto sul significato dei modelli, con una spiccata tendenza verso un "manierismo" a volte enigmatico: dove tuttavia il perseguimento della variatio ad ogni costo non si esaurisce nella mera ricerca formalistica, né tanto meno in una ricetta contro il rischio del centone. Quel ruminamento di testi guidava insomma a una nuova percezione storica di certi generi letterari. Così, nella ripresa della forma pastorale, dove Dante "si è limitato ad assumere il codice virgiliano per res", quasi emotivamente, e il D. ha proceduto invece verso "una linea di distanziazione e di consapevole artificio" rispetto al modello predominante (riletto anche alla luce di Servio e dei continuatori Calpurnio e Nemesiano). Dunque un'apertura umanistica, su cui agì in modo determinante la lezione padovana di Lovato e Mussato, con quella loro capacità di "avvicinamento recondito di passi dei modelli classici", con quel "caricare di straordinaria forza evocativa un termine solo del contesto antico" (citiamo ancora dal Velli).
Non è un caso che, assieme alle egloghe del Petrarca, quelle del D. e di Dante siano state oggetto delle lezioni di retorica che fra il 1369 e il 1371 tenne a Bologna Pietro da Moglio, discepolo dalla bella scuola padovano-bolognese e anello importante nella diffusione della corrispondenza del D. con Dante; e pare istruttivo che testimone di questo "commento" sia quel Francesco da Fiano - per un quarantennio scrittore nella Cancelleria papale, nonché autore dell'invettiva Contra ridiculos oblocutores et fellitos detractores poetarum - che proprio in Pietro da Moglio riconobbe il suo maestro. t un episodio di notevole spicco, la cui scoperta si deve alle appassionate esplorazioni di G. Billanovich: grazie anche ad esso, la saldatura fra la prima stagione della bucolica e la successiva dell'egloga umanistica (poi anche in volgare) sembra ormai definitivamente assicurata.
Fonti e Bibl.: P. Scheffer Boichorst, Aus Dantes Verbannung, Strassburg 1882 (rec. di P. Meyer, in Romania, XI [1882], pp.614 ss.); Ph. H. Wicksteed-E. G. Gardner, Dante and G. D., Westminster 1902 (rec. di E. G. Parodi, in Giornale dantesco, X [1902], pp. 51-63; M. Barbi, in Bullett. d. Soc. dantesca italiana, X[1903], pp. 400 ss.; e di A. Belloni, in Giorn. stor. d. letter. ital., XLII [1903], pp. 181-89); Dantis Eclogae, Iohannis de Virgilio carmen et Ecloga responsiva, a cura di G. Albini, Firenze 1903; ristampato con aggiunte e adattamenti a cura di G. B. Pighi (La corrispondenza poetica di Dante e G. O., Bologna 1965), ma già ormeggiato con poche varianti grafiche da E. Pistelli nel testo critico delle Opere di Dante (Firenze 1921, pp. 454-63); R. Sabbadini, Un testo volgare di G. D., in Bullett. d. Soc. dantesca italiana, XXI (1914), pp. 55 ss.; E. Carrara, Il "Diaffonus" di G. D., in Atti e mem. d. R. 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Lidónnici, La corrispondenza poetica di G. D. con Dante ed il Mussato, e le postille di Giovanni Boccaccio, in Giornale dantesco, XXI (1913), pp. 205-43; G. Livi, Dante, suoi primi cultori, sua gente in Bologna, Bologna 1918; Id., Dante e Bologna, Bologna 1921; A. Scolari, Note storiche sulla corrispondenza poetica di Dante con G. D., in Giornale dantesco, XXV (1922), pp. 193-205; G. Albini, G. D., in Dante e Bologna, Bologna 1922, pp. 45-65; G. Lidónnici, Di alcuni giudizi intorno a Dante, il Mussato e l'"ovis gratissima", in Giornale dantesco, XXVII (1924), pp. 79-90; Id., L'epistola dantesca di G. D. e l'igloga al Mussato, ibid., XXVIII (1925), pp. 324-35; Id., Dante e G.D., ibid., XXIX (1926), pp. 141-58; F. Ghisalberti, G.D. espositore delle "Metamorfosi", ibid., XXXIV (1933), pp. 1-110; G. Mazzoni, Dante e il Polifemo bolognese (1938), in Almae luces malae cruces, Bologna 1941, pp. 349-72; C. Battisti, Le egloghe dantesche, in Studi danteschi, XXXIII (1956), pp.61-111; L. 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