Il contributo è tratto daStoria della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Agli albori della musicologia italiana uno dei primi e più sensibili studiosi del repertorio palestriniano, Alberto Cametti, offre una semplice e funzionale chiave d’accesso alla figura e all’opera di Palestrina. Quasi alla fine delle sua monografia (la prima dedicata al grande compositore), egli osserva: “le sue polifonie ci avvolgono nell’etere di un mondo ultrasensibile; poiché quei suoni di una potenza arcana investono l’anima con le loro vibrazioni e la trasportano nelle regioni sublimi della vera poesia”.
Nominato a soli vent’anni organista e maestro di canto a vita del duomo del paese natale (l’antica Praeneste, nei pressi di Roma), Giovanni Pierluigi è insignito nell’arco di un quindicennio (1551-1565) di una serie di prestigiosi incarichi nei principali centri romani della vita ecclesiastica: la cappella Giulia, la cappella Sistina, le chiese di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore.
Alternando la qualifica di cantore a quella di magister e dopo aver assunto nel 1565 la nomina a coordinatore dell’educazione musicale del nuovo Seminario Romano, Palestrina sceglie dal 1571 la cappella Giulia quale sede definitiva della sua attività e si dedica nel decennio successivo al riordino delle proprie composizioni, promuovendone la stampa in accurate e pregevoli edizioni. Nel 1591 viene eletto tra i soci fondatori della Vertuosa Compagnia de li Musici (la futura Accademia di Santa Cecilia) e trascorre gli ultimi anni tra la fama e gli onori. La basilica di San Pietro ne allestisce solenni e sontuose esequie funebri, facendo incidere sulla bara le parole “Joannes Praenestinus Musicae Princeps”.
La produzione di Palestrina, decisamente cospicua, annovera 104 messe (da 4 a 6 voci), 340 mottetti (da 4 a 12 voci) e 119 madrigali (da 3 a 6 voci), ovvero le forme del repertorio cinquecentesco più diffuse nel genere polifonico sacro e profano. A tale nucleo primario di composizioni pubblicate tra il 1554 e il 1594 e ai numerosi brani ospitati in antologie miscellanee si aggiunge un ulteriore e consistente gruppo di opere sacre a vario organico e di altrettanto diversificata destinazione liturgica: circa 200 brani, tra inni, offertori, lamentazioni, litanie, magnificat. L’intera produzione è oggi consultabile in tutte le principali biblioteche musicali italiane ed europee, in due monumentali edizioni: la prima è stata curata da Franz Xaver Haberl per Breitkopf & Härtel in 32 volumi tra il 1862 e il 1907, la seconda è stata iniziata nel 1939 da Raffaello de Rensis per l’Istituto Italiano di Storia della Musica, proseguita da Raffaele Casimiri fino al 1943 e condotta a termine da Lino Bianchi tra il 1955 e il 1987, per un totale di 34 volumi.
Nelle 25 sessioni generali del Concilio di Trento, con cui si ufficializza la reazione della Chiesa romana alla Riforma protestante, la musica è oggetto di specifica attenzione per ripristinare i dettami teorico-pratici più consoni alla disciplina canora ecclesiastica. Il messaggio controriformistico professa innanzitutto la superiorità assoluta della musica vocale (negando l’eventuale supporto di strumenti e soprattutto vietandone l’utilizzo in chiesa), l’incontaminata purezza del canto gregoriano e il suo recupero attraverso la polifonia, la semplicità testuale e melodica cui devono ispirarsi i versi latini e la musica per celebrare la rinnovata grandezza della Chiesa cattolica.
L’influsso che queste direttive esercitano su Palestrina nel periodo più fecondo della sua attività (che coincide con il succedersi al soglio romano di ben sette pontefici) è innegabile, ma è altrettanto innegabile l’insofferenza dell’autore verso ogni forma di sottomissione che opprima le scelte creative, limitando la libertà personale all’osservanza di prescrizioni imposte.
Sono infatti ripetuti e numerosi, in proposito, gli autorevoli richiami all’eccessiva autonomia che, a giudizio delle alte cariche ecclesiastiche, il musicista rivendica per il proprio comporre: lo rivelano in particolare le 52 messe (l’esatta metà del totale) concepite secondo la tecnica della cosiddetta parodia (già sperimentata dal fiammingo Josquin Desprez), in cui un motivo estratto dal proprio o altrui repertorio polifonico sacro o profano (mottetti, chansons, madrigali) e collocato nel tenor, sostituisce il consueto cantus firmus gregoriano (utilizzato da Palestrina in sole sei messe) e privilegia l’innesto di un elemento decisamente “laico” nella sacralità della liturgia polifonica.
Inoltre, Palestrina utilizza per ben cinque messe il titolo Sine nomine che, di per sé, attesta l’intento di non rivelare la fonte originale (talvolta desunta da motivi musicali estranei al decoro liturgico) su cui si costruisce e si sviluppa l’impianto polifonico.
Altre volte ancora è la libera invenzione a ispirare Palestrina, quando, senza attingere a modelli precedenti, egli si avvale di un soggetto melodico totalmente originale (sempre posto nel tenor) e vi elabora l’intera composizione. È il caso della celebre Missa Papae Marcelli a sei voci, dedicata alla memoria del pontefice Marcello II e assunta da intere generazioni di epigoni palestriniani come l’emblema dello spirito controriformistico: si tratta forse del più esplicito ossequio alla chiarezza della parola divina, da ascoltare e intendere (audiri atque percipi) anche nella sua musicalità, che Palestrina è pronto a restituire con l’immediatezza melodica e con la trasparente linearità della conduzione polifonica.
Meritano poi di essere ricordate le 10 messe composte ed eseguite per la cappella mantovana di Santa Barbara (su committenza del duca Guglielmo Gonzaga) sulla tecnica dell’alternatim (che contempla la distribuzione simmetrica dei versetti liturgici tra coro e organo); le due messe L’homme armé, realizzate sulla melodia dell’omonima e notissima chanson, reiterata fonte già dal Quattrocento di elaborazioni polifoniche franco-fiamminghe; le splendide messe Vestiva i colli e Già fu chi m’ebbe cara, che seguendo gli schemi della parodia trasferiscono in ambito sacro (e in lingua latina) l’intensa suggestione di due madrigali intonati dallo stesso Palestrina sui rispettivi testi di Orazio Capilupi e di Giovanni Boccaccio (seconda stanza della ballata che conclude la terza giornata del Decameron).
Oltre a sancire l’autorevole elogio riconosciuto a Palestrina dai più diretti fruitori del suo magistero, l’iscrizione funebre Princeps musicae rappresenta un tributo ben distante dalle classiche epigrafi “a perenne memoria”. Le innumerevoli citazioni (nelle fonti teoriche, nel repertorio musicale e nelle testimonianze di eruditi e musicografi) riservate con puntuale e straordinaria sistematicità all’opera di Palestrina testimoniano la sua reale grandezza. Oggetto di studio, imitazione e assimilazione sarà per tutti un modello stilistico (“a cappella”), utile a connotare una specifica prassi esecutiva (polifonia per sole voci) e destinato nei secoli a esaltare gli immutabili valori di alta tradizione compositiva con una locuzione stylus antiquus.
Oltre alle messe, privilegiati capolavori, lasceranno un segno indelebile anche i mottetti che includono alcuni pregevoli Salve Regina (a 4-5-6-8 voci) e uno splendido Stabat Mater a 8 voci (sul testo della sequenza di Jacopone da Todi) e i madrigali, che intonano o parafrasano componimenti dal Canzoniere di Petrarca e altri testi, tra cui le stanze della celebre Vergine bella che di sol vestita, offrendo un saggio di esemplare commistione tra soggetto “spirituale” e lingua volgare.
È insomma il linguaggio musicale lineare e mai virtuosistico, col suo perfetto equilibrio tra effusione melodica ed elaborazione contrappuntistica, ad affermarsi come il contributo più autentico e creativo di Palestrina.