GIOVANNI da Montenero
Nacque verosimilmente verso la fine del secolo XIV, forse nel borgo toscano di Montenero, nel Livornese. Quanto al nucleo familiare d'origine, alcuni scrittori autorevoli, pur senza addurre prove decisive, hanno voluto fare di G. un rampollo della nobile casata genovese dei Montenero, o lo hanno comunque ritenuto oriundo di Genova.
Se non ci è dato di stabilire con precisione il luogo e il tempo del suo ingresso nell'Ordine dei frati predicatori - né si hanno prove di un suo preteso discepolato presso il convento "Finariensis" (forse Finale Ligure, cfr. Kaeppeli, II, p. 484) - è certo però che G. ricevette la sua formazione o, in ogni caso, perfezionò i suoi studi di teologia presso il convento fiorentino di S. Maria Novella: il suo nome, infatti, ricorre, dapprima in maniera generica, fra i religiosi capitolari menzionati in due carte notarili, rispettivamente del 14 marzo 1413 (1414 secondo lo stile comune) e del 12 ott. 1416; e più tardi, nel 1421, tra gli "Uffiziali" del medesimo istituto, presso il quale si registra ancora la sua presenza, l'anno seguente, come "Maestro". Un decreto del capitolo generale domenicano tenutosi a Metz la Pentecoste del 1421 aveva assegnato a G., frate della provincia di Lombardia, il compito di "lector Sententiarum pro forma et gradu magisterii" presso lo Studio di S. Maria Novella, dove avrebbe dovuto affiancare il nuovo docente di teologia, fra Domenico Dini "de Faginio", reggente dello Studio.
Il 3 ott. 1431, ormai con il titolo di priore provinciale di Lombardia, fu nominato insieme con altri sei frati dal maestro generale dei predicatori, Bartolomeo Texier, come rappresentante ufficiale dell'Ordine al concilio di Basilea, anche se tale incarico non fu, come preteso da alcuni, direttamente sollecitato da papa Eugenio IV, che soltanto sei anni più tardi avrebbe in effetti convocato personalmente G. al concilio di Ferrara. La reggenza della grande provincia lombarda (Lombardia superior) dev'essergli invece stata affidata successivamente al capitolo generale del 1426 (a quella data l'ufficio era ancora ricoperto da Tommaso di Montilio), e tale titolo - documentato ancora il 28 apr. 1432 in una lettera indirizzatagli dalla Repubblica di Lucca per chiedergli di riformare il convento domenicano della città, e durante i successivi dieci anni di impegno conciliare - sembra aver conservato sino alla fine dei suoi giorni.
A Basilea, a fianco del celebre confratello Juan de Torquemada e del cardinale Domenico Capranica, appare in primo piano, fra i deputati della seduta conciliare del 15 febbr. 1434, nel tentativo di mediare tra i fautori del papa e i più accesi conciliaristi, i quali, dopo la raggiunta intesa del 12 febbraio, avevano sollevato nuove difficoltà procedurali a proposito della formula utilizzata da Eugenio IV per la nomina dei presidenti del concilio.
Proprio quel 12 febbraio una bolla emanata con i sigilli del concilio stesso ma spedita a insaputa dell'assemblea e senz'alcun preventivo esame in sede di commissione - bolla della quale di lì a poco sarebbe stata peraltro riconosciuta la falsità - condannava alcune dottrine riguardanti l'ormai bicentenaria controversia sui privilegi pastorali degli ordini mendicanti e predicate nella Savoia da alcuni frati di cui però non si faceva menzione, prescrivendo agli ordinari di quella regione di consegnare senza indugio i colpevoli alle competenti autorità inquisitoriali, con possibilità di ricorso al braccio secolare. Ne sortirono ben presto discussioni interminabili sul tenore e le modalità di emissione del documento: il 14 giugno G., in qualità di rappresentante designato per la difesa degli ordini mendicanti, espose dettagliatamente dinanzi alla commissione incaricata di esaminarli il primo degli articoli incriminati, ai quali la bolla si riferiva. Ma la discussione si protrasse a lungo, insabbiandosi in cavillose questioni procedurali. Così, nel mese di agosto, fu distribuito ai membri delle deputazioni incaricate dell'affare un memoriale redatto da G. a nome degli ordini mendicanti, poi divulgato e noto come Defensorium mendicantium.
Oltre a denunziarvi la scorrettezza giuridica della mancata menzione dei presunti colpevoli, fermo nella convinzione che la polemica fosse stata inscenata ad arte dai nemici dei frati, G. prendeva sistematicamente le difese, attraverso una minuziosa analisi teologica e canonistica condotta secondo il metodo scolastico della quaestio, di sei delle sette proposizioni incriminate (negazione dell'obbligo di ascoltare la messa nella chiesa parrocchiale, libera erogazione delle offerte e delle decime ai curati da parte dei fedeli, intenzioni delle messe da non affidarsi ai prebendari, interpretazione degli obblighi pastorali sanciti dalla Dudum Clementina in relazione al canone Omnis utriusque sexus del Lateranense IV, casi riservati agli ordinari, ecc.) stabilendo in che senso e a quali precise condizioni esse dovessero ritenersi "vere e cattoliche" e smascherando il tenore di alcune falsificazioni testuali apportate surrettiziamente dagli avversari. Riconosceva, in ogni caso, che tali dottrine, ammesso che fossero state realmente predicate, non si prestavano alla divulgazione tra i fedeli, i quali sarebbero rimasti soltanto scandalizzati dalle discordie tra i religiosi, senza comprenderne le implicazioni giuridiche e pastorali. Si appellava, infine, al concilio stesso affinché revocasse la falsa bolla che lo aveva realmente disonorato e che poteva altresì favorire l'impressione che un sinodo che si voleva ecumenico non avesse il pieno controllo sui propri atti ufficiali, per non dire del biasimo ricaduto ingiustamente sui mendicanti.
La cosa giunse a effetto, tanto è vero che già in una bolla del 27 agosto il concilio proclamò ufficialmente l'inautenticità della lettera incriminata. Tuttavia, forse anche a causa dell'eccessiva mortificazione delle posizioni del clero secolare, la disputa proseguì ancora negli anni seguenti, spingendosi fino al ripristino (1443) da parte dell'ormai sconfessato concilio di Basilea della famigerata bolla del 1434.
Il 23 sett. 1437, sei giorni dopo il decreto di trasferimento del concilio da Basilea a Ferrara, Eugenio IV ordinava al maestro generale domenicano di recarsi nella città padana e di farvi giungere dodici maestri di teologia del proprio ordine per prendere parte ai lavori conciliari. Il 18 ottobre successivo il papa convocò personalmente G., che allora si trovava a Genova, come sappiamo dalla richiesta che il pontefice avanzò quello stesso giorno al doge di Genova, Tommaso Fregoso, di inviargli presso la Curia papale il provinciale domenicano di Lombardia, cui avrebbe assegnato una parte delle rendite della Chiesa di Albenga per il mantenimento durante il concilio, e che, nel frattempo (6 settembre), gli era stato caldamente raccomandato, come uomo integerrimo e di provate capacità dialettiche, dal generale dei camaldolesi, Ambrogio Traversari.
G., e con lui tutto il partito degli "eugenisti" convinti, aveva infatti abbandonato da qualche tempo il concilio di Basilea dopo avervi presentato, fra le altre cose, nel 1436, una densa Relatio (tuttora inedita nella sua integrità) sulla dottrina dell'Immacolata Concezione di Maria, dottrina di cui giungeva a negare un sostenibile fondamento teologico e scritturistico anche sulla scorta di un'avversione a essa tipica della scuola tomistica e poi domenicana in genere.
L'8 genn. 1438, alla seduta di apertura del concilio, quando i greci, attesi per le trattative sull'unione, non erano ancora giunti in Italia (arriveranno a Ferrara soltanto il 7 marzo), G. era presente con i rappresentanti del suo ordine. Il concilio si aprì formalmente il 9 aprile, ma solamente il 14 settembre, dopo mesi di sostanziale inattività assembleare, fu raggiunta un'intesa sulla questione da trattare in via prioritaria, l'aggiunta latina al simbolo di fede ("Filioque") e la connessa dottrina della processione dello Spirito Santo, cui avrebbero dovuto far seguito i dibattiti sugli altri motivi di divisione (purgatorio, epiclesi liturgica, primato papale) nonché sulla frequenza delle sedute.
Tra i sei delegati ufficiali di parte latina figurava anche Giovanni da Montenero. Le sedute poterono così incominciare l'8 ottobre (quella del 9 aprile era stata soltanto una solenne cerimonia inaugurale), oratori il domenicano Andrea da Rodi, per i latini, e Marco Eugenico, metropolita di Efeso, strenuo oppositore dell'unione, per i greci.
G. prese parte già alle prime discussioni appellandosi, nel corso di un breve intervento, alla mutua carità e a una logica elementare per superare i dissidi preliminari, giacché il dibattito si era subito incanalato sul binario morto delle questioni procedurali e delle gravi difficoltà linguistiche e filologico-testuali, continuamente risollevate anche nei successivi e più proficui dibattiti. Preziosa, oltreché nel dibattito in senso stretto, fu a tale riguardo l'opera di traduzione degli scritti di Basilio, Epifanio e altri padri greci svolta, anche a beneficio dell'oratore G., da Ambrogio Traversari.
L'ultima sessione a Ferrara si svolse il 13 e il 14 dicembre, dopo che l'assemblea, nonostante gli sforzi ermeneutici del cardinale Giuliano Cesarini, le cui posizioni avrebbero fatto breccia nell'animo di prelati di larghe vedute come il cardinal Bessarione e il metropolita Isidoro di Kiev, non era ancora riuscita a superare l'intransigentismo della maggioranza dei greci, non disposti ad accettare il principio, sostenuto invece dai latini, del diritto-dovere della Chiesa non già di manomettere o di aggiungere bensì di esplicitare e chiarificare il contenuto delle formule dogmatiche, malgrado l'espresso divieto in tal senso del concilio di Efeso (431).
Dopodiché il concilio, per sfuggire a un'epidemia di peste che si andava diffondendo in quelle contrade, oltreché per ragioni strategiche e finanziarie, venne trasferito a Firenze (ufficialmente, dal 10 genn. 1439). Qui G. avrebbe preso alloggio, insieme con il papa e con i propri confratelli e superiori dell'Ordine, nel convento di S. Maria Novella.
Nel febbraio 1439 ebbero luogo le prime discussioni fra i delegati dei due schieramenti, non ancora vere e proprie sessioni pubbliche plenarie, che iniziarono a marzo: sei delle otto che si svolsero, vivacissime, dal 2 al 24 di quel mese secondo il metodo della domanda e risposta intorno al problema trinitario videro protagonisti, come oratori ufficiali e antagonisti, G. e Marco Eugenico. Quest'ultimo accusava i latini di aver equiparato erroneamente il Figlio al Padre come causa originante lo Spirito Santo (posizione eretica delle "due cause in Dio"), mentre invece, secondo la dottrina tradizionalmente professata a Bisanzio, e sostenuta da Marco con il metodo della citazione patristica, lo Spirito doveva procedere soltanto dal Padre limitandosi il Figlio a cooperare al suo invio nel mondo. G., seguendo principalmente il metodo dialettico più consentaneo alla teologia scolastica ma dando prova di sapersi anche cimentare con acribia nell'indagine e nel commento dei padri greci, replicò, fra l'altro - dopo avere brillantemente chiarito alcuni equivoci linguistici e testuali, e specialmente con il ricorso risolutivo a un testo di s. Massimo il Confessore, che avrebbe più avanti rappresentato la piattaforma dell'intesa per il decreto di unione (Laetantur coeli, 6 luglio 1439) - col dimostrare che giammai i teologi latini avevano inteso attribuire a Dio due cause o principî (il Padre e il Figlio), e che entrambe le tradizioni teologiche, pur esprimendosi in linguaggi differenti, convergevano nel riconoscere una reale partecipazione del Figlio all'opera di spirazione dello Spirito Santo, pur affermando senza possibilità di equivoco che le due persone costituiscono un solo principio la cui unità non può negarsi se non incorrendo nell'eresia di Ario, che distingueva la natura del Padre da quella del Figlio.
Gli interventi di G. destarono profonda impressione sui delegati greci, tra i quali da quel momento venne via via approfondendosi una spaccatura fra i mediazionisti, propensi alla trattativa, in testa ai quali spiccavano il Bessarione, Doroteo e Isidoro di Kiev, e il partito degli intransigenti, guidato da Dositeo e dallo stesso Marco Eugenico.
Raggiunto ormai un accordo sostanziale sulla processione dello Spirito Santo (7 giugno), Eugenio IV sollecitò l'apertura delle discussioni sul primato papale; oratore per i latini fu designato, ancora una volta, G. che, in due discorsi tenuti il 16 e il 18 (o 20) di giugno, illustrò all'assemblea, frase per frase - per poi replicare alle scontate obiezioni, avvalendosi della Scrittura e delle prammatiche citazioni patristiche e conciliari (non senza il ricorso ai testi delle false decretali pontificie) - i contenuti delle cedulae latine proposte ai greci come base di una discussione che incontrò, ancora una volta, e prevedibilmente, tenaci resistenze da parte loro.
L'ecclesiologia di G. era ispirata, non solo, del resto, da quel momento (come trapela da altri scritti minori già presentati al concilio di Basilea: un panegirico di s. Girolamo, tenuto nel settembre del 1432, e specialmente un sermone pronunciato nel giugno del 1437 in occasione della festa dei Ss. Pietro e Paolo), alle più rigide posizioni monarchiche, basate sul principio dell'investitura diretta dei poteri papali da parte di Cristo sul fondamento di Matteo, 16, 18-19 - poteri che sono poi comunicati in via indiretta dal papa agli altri membri della gerarchia ecclesiastica - e comprensive altresì del privilegio dell'infallibilità papale, sostenuto tradizionalmente dai mendicanti, e del diritto esclusivo di convocare il concilio: prerogativa, quest'ultima, che, unitamente all'opinabile criterio circolare di giustificare i privilegi papali ricorrendo a testi di produzione pontificia, doveva fatalmente dar la stura a infinite discussioni. Erano le posizioni in via di larga affermazione nel contesto del fallimento delle esperienze e dell'emarginazione delle dottrine conciliariste estreme, che vedevano nel pontefice un semplice ministeriale ovvero un mandatario della Chiesa universale espressa e rappresentata dal concilio ecumenico.
G. continuò a collaborare al concilio di Firenze sino al febbraio 1440. In quelle circostanze, secondo tradizioni tuttavia non confermate, egli avrebbe respinto la promozione all'episcopato, concessa da Eugenio IV ad alcuni illustri confratelli.
Ancora in veste di priore provinciale di Lombardia lo ritroviamo, dal 23 nov. 1443 e per il successivo anno 1444, impegnato nella riforma secondo i nuovi canoni dell'Osservanza del convento domenicano di S. Giovanni in Canalibus di Piacenza.
Dopo quell'anno si perdono le sue tracce sino alla morte, probabilmente da collocarsi nel 1445 ovvero nel 1446.
Opere: Sermo de s. Hieronymo (tenuto a Basilea, il 30 sett. 1432): elenco dei manoscritti in Kaeppeli, II, p. 485 n. 2495; IV, p. 162; Tractatus contra impugnantes privilegia fratrum mendicantium seu Defensorium mendicantium (a. 1434), edito da G. Meersseman, G. di M. o.p. difensore dei mendicanti. Studi e documenti sui concili di Basilea e di Firenze, Romae 1938, pp. 91-160 (mss. ibid., pp. 89-91; Kaeppeli, II, p. 485 n. 2496; IV, pp. 162 s.); Relatio de Immaculata Conceptione B. Mariae Virginis (a. 1436), edita parzialmente da Meersseman, G. di M., cit., pp. 161 s. ("Praefatio") e da U. Horst, "Nova opinio" und "Novelli Doctores". Johannes de Montenigro, Johannes Torquemada und Raphael de Pornassio als Gegner der Immaculata Conceptio, in Studien zum 15. Jahrhundert. Festschrift für Erich Meuthen, a cura di J. Helmrath - H. Müller, München 1994, I, pp. 172-181 in notis (mss. in Kaeppeli, II, p. 486 n. 2497); Sermo ad s. synodum Basiliensem in sollemnitate Ss. Petri et Pauli (a. 1437): ms. ibid., n. 2498; Sermo in Annuntiatione B. Mariae Virginis (a. 1437?): mss. ibid., II, p. 486 n. 2499; IV, p. 163; Sermo in die S. Francisci: mss. ibid., II, p. 486 n. 2500; Sermones duo in concilio Florentino habiti deprimatu Romani pontificis (16 e 18-20 giugno 1439), edito da G. Hofmann, in Andreas de Santacroce, Acta Latina concilii Florentini, in Concilium Florentinum. Documenta et scriptores, VI, Roma 1955, pp. 231-236, 241-247; Tractatus de rerum emptione et venditione: mss. in Kaeppeli, II, p. 487 n. 2502.
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