LUCINO, Giovanni da
Nacque verso la metà del XIII secolo da una famiglia dell'aristocrazia comasca.
La militanza politica e l'intervento ai vertici delle istituzioni comunali caratterizzarono l'attività del gruppo parentale dei da Lucino fin dal XII secolo. Airaldo fu consul Comunis (1178) due anni dopo la battaglia di Legnano, nella quale Como aveva combattuto al fianco del Barbarossa; Atto da Lucino è menzionato con il medesimo titolo in un privilegio del 1191 con cui Enrico VI, in segno di gratitudine per l'aiuto offerto dai Comaschi al padre e a lui stesso, confermava alla città alcuni privilegi giurisdizionali e politici. Un coinvolgimento della famiglia nell'amministrazione della giustizia è inoltre visibile sia nell'epoca consolare, quando Airaldo e Atto sono ricordati con la doppia qualifica di consul Comunis (Airaldo nel 1178 e 1201, Atto nel 1189 e 1191) e consul de iustitia (Atto nel 1200, Airaldo nel 1213), sia nella fase podestarile, in cui Jacopo ("filius quondam domini Johannis Pochecane de Lucino") si qualifica iudex.
Nonostante la fedeltà al partito imperiale sembri protrarsi, almeno in un caso, fin verso la metà del Duecento, gli orientamenti politici dei da Lucino non appaiono univoci nel corso del secolo. Se Zirio, figlio di Airaldo, ricordava nel suo testamento del 1240 il servizio prestato a Federico II, Guifredo da Lucino era nel 1228 tra i rettori della rinnovata Lega lombarda e promosse come podestà di Padova (1231-32) l'alleanza con altri Comuni della Marca trevigiana, della Lombardia e dell'Emilia. Tali contrastanti posizioni rispecchiano l'altalenante orientamento politico di Como che, pur non aderendo inizialmente alla Lega, vi si accostò nel 1229, per tornare, nel 1239, a fianco di Federico.
Benché altri esponenti del gruppo familiare avessero abbracciato la professione di podestà forestiero, la carriera del L. non sembra paragonabile a quella pur fortunata di alcuni suoi parenti. Non sono solo gli almeno otto incarichi di podestà da lui svolti a collocarlo su un piano diverso, ma anche l'importanza della città e dei momenti politici in cui rivestì tale funzione. Il primo incarico noto del L. gli fu conferito nel 1278 da Asti, dove dal settembre fu podestà. La sua podesteria si aprì con un atto importante (3 settembre): la sentenza che egli pronunciò come arbitro nella controversia tra Asti e i domini di Gorzano, un potente castrum situato nell'area di influenza politica astigiana e tradizionalmente ostile alla città.
I signori di Gorzano, dopo una prima alleanza, intorno alla metà del Duecento, con i conti di Savoia, conclusasi con una sfortunata campagna contro Asti, si erano avvicinati, verso la fine degli anni Sessanta, al partito angioino, senza trarne tuttavia grande profitto: nel 1274 Asti inflisse loro una pesante sconfitta, seguita da una prima sentenza (1275) in base alla quale ai signori di Gorzano veniva imposta la confisca dei beni. Gli scontri di fatto continuarono fino al 1278, quando l'arbitrato del L., che specificò di giudicare, in questa circostanza, non in qualità di podestà di Asti, ma come privato, pose fine alle ostilità, costringendo i signori a vendere al Comune il castrum e i diritti giurisdizionali di Gorzano per 3125 lire.
L'acquisto di Gorzano si colloca in una fase politica di espansione di Asti, caratterizzata da rapporti ostili verso gli Angioini; allo stesso clima politico è riconducibile l'importante alleanza che la città strinse con il Comune di Chieri e con Tommaso di Savoia, cui anche contribuì in parte il L. chiamando, nell'ottobre 1278, Filippo I conte di Savoia a giurare di persona gli impegni assunti tre mesi prima con le città alleate.
La sottomissione di Cuneo, dove Asti progettò di costruire due castelli per potenziare la propria postazione contro i Saluzzo, fu ratificata nel 1279 non dal L. ma da Pagano da Lucino, probabilmente suo parente, che gli successe nella carica di podestà di Asti nel 1279-80.
Il ruolo di primo piano che il L. e altri esponenti dei da Lucino sembrano contemporaneamente ricoprire a Como attesta un intenso coinvolgimento della famiglia anche nella politica locale.
Dopo un periodo di prevalenza della fazione guelfa, guidata a Como dalla famiglia Vitani e sorretta dal potente schieramento milanese facente capo ai Della Torre, i ghibellini comaschi, capeggiati dai Rusca (o Rusconi) e Simone di Locarno, riuscirono a impadronirsi del potere nel corso degli anni Settanta del Duecento. Il trasferimento di un esponente dei Della Torre dalla diocesi di Como ad Aquileia e l'avvento del nuovo vescovo Giovanni Avvocati (1273) - che, pur provenendo da famiglia guelfa, simpatizzava con il partito milanese dei Visconti avverso ai Della Torre - resero possibile il rientro a Como dell'esiliata fazione ghibellina e l'insediamento di un governo orientato in senso antitorriano. Tale indirizzo politico risulta ben visibile dalle modifiche apportate agli statuti comaschi tra il 1276 e il 1279, tutte siglate, tra gli altri, da esponenti dei da Lucino: se infatti Giordano è il primo firmatario delle norme introdotte nel 1276, Filippo compare nella commissione che nel 1278 confermò la validità di severe misure antitorriane assunte nel 1277 e "Lucus" tra i sapienti che ne vararono di nuove nel 1279.
La frattura che all'inizio degli anni Ottanta si consumò tra il vescovo e la fazione ghibellina di Como coinvolse in prima persona il L., esiliato dalla città insieme con lo stesso vescovo e altre famiglie comasche.
Tuttavia, l'accostamento di Como al marchese Guglielmo VII di Monferrato, proclamato capitano per dieci anni, condusse in breve a una scissione della fazione ghibellina, che intorno alla metà degli anni Ottanta si divise in due partiti, uno guidato dai Rusca, alleato del marchese e successivamente dei Della Torre, l'altro capeggiato da Simone di Locarno e fedele ai Visconti. A quest'ultimo schieramento aderì il L., che nel 1285 era con Simone a capo degli esuli di Como. Nei decenni successivi i giochi di alleanze delle fazioni comasche, dettati da calcolo politico e dai mutevoli equilibri milanesi, impediscono una ricostruzione lineare dei percorsi politici individuali.
È certo comunque che il L., dopo un primo rientro a Como nel corso degli anni Novanta, fu nuovamente estromesso dalla città nel 1302, quando insieme con il vescovo della città Leone Lambertenghi tentò di prevalere sui Rusca.
Ma non fu solo all'interno della propria città che egli sperimentò le rivalità di parte. Se gli incarichi podestarili che, dopo Asti, lo portarono a reggere Pisa nel 1281, Brescia nel 1286, Genova nel 1290 e Bologna nel 1294 non furono fonte, apparentemente, di grossi problemi, lo stesso non si può dire per la fugace esperienza di podestà a Firenze nel 1295.
In un clima avvelenato dalle lotte di fazione e dai profondi odi che, in seguito all'applicazione degli ordinamenti di Giustizia propugnati da Giano Della Bella (1293), correvano tra le classi dei magnati e dei popolani fiorentini, il L. fu chiamato, nel settembre 1294, a ricoprire l'incarico di podestà per il primo semestre dell'anno successivo.
Tensioni notevoli si manifestarono già al momento della sua elezione, quando il podestà uscente, di Cremona, durante l'esame con cui di norma si concludeva il lavoro dei funzionari forestieri si fece proteggere da un contingente armato. Per cercare di raggiungere un accordo sul suo successore, i Fiorentini si rivolsero, in un primo momento, a Bonifacio VIII e, solo in conseguenza del rifiuto opposto dal candidato pontificio (Pietro Stefani), chiamarono il Lucino. Stando alle cronache fiorentine, il 1294 si era concluso a Firenze con un crimine commesso dal celebre magnate e capo della fazione nera Corso Donati, il quale, aggredito un cugino e ucciso il suo servo, aveva poi tentato di imputare allo stesso parente la responsabilità dell'accaduto. Il fatto coinvolse in prima persona il L. non solo perché il podestà uscente lasciò al successore il compito di occuparsene, ma anche per il nuovo omicidio che, nel gennaio 1295, fu commesso da un esponente dei Donati ai danni di un popolano. La sentenza con cui il L., appena giunto a Firenze, assolse Corso Donati fu dunque accolta con scalpore dai Fiorentini, che insorsero contro il nuovo ufficiale stracciando documenti e appropriandosi dei suoi beni. Dopo un'avventurosa fuga da Firenze con la moglie, il L. si rifugiò a Bologna dove era stato podestà l'anno precedente e, sedati i tumulti, ricevette indietro dai Fiorentini i propri effetti personali e l'indennità elevatissima di 8600 lire. Non siamo in grado di stabilire se l'accusa di corruzione mossagli dal popolo di Firenze avesse qualche fondamento o se, come sostiene Dino Compagni, che lo definisce "nobile cavaliere [(] di gran senno e bontà", il L. fu ingannato dal suo giudice e da lui convinto, in malafede, dell'innocenza di Corso. A parte l'assenza di questo giudizio in altre cronache, il fatto che alcuni anni dopo (1302), in pieno regime di Corso Donati, il L. fu di nuovo proposto come podestà di Firenze, lascia aperto qualche dubbio sugli effettivi rapporti che intercorsero tra i due. Tanto più che Corso e il L. si rincontrarono con ogni probabilità nei primi anni del Trecento, ma non a Firenze, dove fu bocciata la proposta di rinnovargli l'incarico, bensì, in circostanze diverse, a Perugia.
Nel 1304 il neoeletto pontefice Benedetto XI, per tentare di sedare le continue discordie fiorentine, inviò a Firenze il cardinale di Prato come paciere. In seguito al fallimento di questa iniziativa, che sortì l'effetto di aumentare, anziché placare, la conflittualità urbana, il papa spedì una bolla ai capi della fazione nera, rimproverandoli aspramente per gli scontri e convocandoli a Perugia, dove la corte pontificia risiedette, quell'anno, a partire da maggio.
Se, come sembra, il L. fu podestà di Perugia da giugno a novembre 1304, dovette essere testimone della missione diplomatica guidata da Corso Donati, avvenuta poco prima della morte del papa (7 luglio 1304).
L'ultimo incarico conosciuto del L. è del 1313, quando tornò come podestà a Brescia, dove, ancora una volta, la sua podesteria rivestì un'importanza politica particolare.
Dopo la sottomissione di Brescia a Enrico VII (1311), la chiamata del L. rispose infatti al desiderio di ristabilire la pace in città e consentire il rientro in patria dei guelfi che, alleatisi con i fuorusciti di altre potenti città lombarde, incombevano minacciosamente sul governo filoghibellino. A tal fine, una delegazione formata dai ghibellini intrinseci e dai guelfi estrinseci di Brescia fu inviata al L. per sottoporgli i patti concordati tra le parti, con i quali il futuro podestà veniva investito di poteri molto vasti: non solo era espressamente autorizzato ad attuare procedure amministrative eccezionali qualora i membri del massimo organo collegiale bresciano (Anziani) fossero stati incapaci di raggiungere un accordo, ma veniva anche pregato di recarsi in città con un drappello di cavalieri e fanti al seguito. L'insistenza sul carattere militare che doveva assumere la sua podesteria desta particolare interesse. I Bresciani in un primo momento avanzarono l'originale proposta secondo cui i costi di questo piccolo esercito avrebbero dovuto essere coperti da un prestito di 1000 lire che lo stesso L. doveva chiedere al vicario di Milano o al vescovo di Como. A distanza di qualche giorno, forse a causa di un rifiuto opposto dal L., si giunse però a una soluzione diversa: le 2000 (e non 1000) lire necessarie per pagare il contingente armato avrebbero dovuto essere reperite tramite versamenti volontari di cittadini bresciani, ai quali il governo si impegnava a devolvere alcune entrate comunali. Qualora però i volontari non fossero stati sufficienti, il Comune sarebbe stato autorizzato a costringere i più ricchi a contribuire. Di fatto, gli accordi furono apparentemente rispettati nel corso della podesteria di Brescia assunta dal L., ma gli scontri ripresero negli anni successivi.
Dopo il 1313 non abbiamo più notizie del L., di cui non conosciamo né il luogo né la data di morte.
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