CORVINI (Corvinus, de Corvinis), Giovanni
Nacque ad Arezzo verso il 1370 da Gregorio, che morì prima del 1415. Con ogni probabilità si tratta della stessa persona che compare nella nota di possesso tracciata sul foglio di guardia del cod. Ambros. C 80 sup. del sec. XIII, contenente le Confessiones di s. Agostino: "Augustini de confessionibus mei Gregorii de Corvinis de Aretio", per quanto il Sabbadini (Scoperte, I, p. 74 n. 9) pensi improbabilmente a un figlio del C. che aveva lo stesso nome dell'avo. Della famiglia del C. abbiamo scarse notizie, ma in ogni caso non gli fu fatta mancare una buona educazione letteraria e umanistica. Non possiamo stabilire con esattezza la data in cui il C. sposò Filippa de Capitanei, appartenente alla nobile famiglia, originaria di Vimercate, della quale facevano parte Corradino, che fu segretario di Giovanni Maria Visconti dal 1410 al 1440, Tadiolo o Taddeo, ambasciatore di Filippo Maria, e Matteo, medico dello stesso duca. Da questo matrimonio, celebrato comunque verso i primi anni del Quattrocento, nacquero dopo il 1414 Niccolò che morì non ancora decenne tra il 1424 e il 1427 "casu aliquo sive errore", come all'addolorato C. scriveva l'amico Gasparino Barzizza e nel 1424 Luchino, che intraprese la carriera ecclesiastica.
Il C. ebbe almeno un terzo figlio, del quale non si conosce il nome con sicurezza, ma che con ogni probabilità potrebbe essere Angelo, morto prima del 1492, come risulta dal testamento di Giovanni Antonio da Landriano, rogato il 15 dic. 1492, con il quale l'estensore istituiva erede universale, insieme con i propri figli, anche Giovanni Antonio de' Corvini di Arezzo figlio "q. m." di Angelo "consanguineus suus germanus". Anche l'Argelati (Bibliotheca, col. 1869) parla di Giovanni Antonio, figlio di Angelo, informando che ebbe il titolo di conte palatino. Dal momento che questo viene trasmesso di regola al primogenito, non è difficile credere che come tale Angelo lo abbia ricevuto direttamente dal C., che ne era stato insignito nel 1418, e lo abbia a sua volta lasciato a Giovanni Antonio. Con ragionevole probabilità si può ancora identificare in Angelo il padre del piccolo Giovanni Marco; di questo suo nipote il C. compiange dolorosamente la morte, avvenuta nella notte fra il 23 e il 24 nov. 1430, in un epicedio esametrico pubblicato dal Sabbadini (Storia, p. 439), menzionandone la madre Margherita ma senza fare il nome del padre. Se si tratta della stessa persona, allora la nascita di Angelo deve essere collocata all'inizio del secolo, subito dopo il matrimonio del Corvini.
Il C. fu il primo della sua famiglia a lasciare Arezzo e a trasferirsi in Lombardia, dove si era diretta verso la fine del XIV secolo una notevole emigrazione aretina; qui percorse una fortunata carriera di funzionario e diplomatico al servizio dei Visconti. Sembra che abbia cominciato la sua attività ufficiale come segretario di Filippo Maria Visconti conte di Pavia. Se si può identificare in lui il "Iohannes" firmatario di molti atti per il secondogenito di Gian Galeazzo Visconti, allora il C. avrebbe operato in questo incarico a partire dall'anno 1403 fino al 1409 (Archivio del Comune di Pavia, Lettere ducali, buste 2, 3). Il 25 gennaio 1409 ottenne per sé e per i suoi discendenti la cittadinanza di Milano, che gli fu confermata il 6 giugno 1421. Ricevette inoltre il 27 genn. 1416 anche quella di Pavia e sappiamo che la sua famiglia sedeva fra le centosessantacinque casate nobili del Consiglio generale pavese. A partire dal giugno 1412 il C. viene menzionato in documenti pubblici quale cancelliere e segretario di Filippo Maria appena eletto duca di Milano (Decembrio, Vita, cap. LXIV); collaborava, inoltre, alla stesura di atti ufficiali della diplomazia viscontea, fra i quali il più importante sembra essere il testo di una progettata alleanza tra il Visconti e il re Alfonso d'Aragona del 21 sett. 1421 (Romano, Contributi, 1897, p. 144).
In seguito il C. venne anche nominato "maestro delle entrate" (10 nov. 1416) e chiamato a far parte del Consiglio segreto del duca (20 marzo 1417). Filippo Maria gli affidò spesso delicati incarichi di politica italiana ed europea. Nell'ambito della prima, si possono ricordare le trattative con Giorgio Benzoni per le terre di Crema, culminate nell'accordo del 31 luglio 1414, e la procura ducale del 9 ag. 1419 di patteggiare con Pandolfo Malatesta la restituzione delle terre che egli ancora occupava in Lombardia dopo la vittoriosa offensiva viscontea. Si ricordano, inoltre, le trattative con il pontefice Martino V (2 nov. 1418); il 12 giugno 1421 il C. è nominato procuratore nell'atto con cui il marchese Niccolò III d'Este esenta il Visconti dal pagamento dell'indennità di guerra prevista dal trattato di pace; ambasciatore è inviato da Filippo Maria al papa nel dicembre 1422, poi nel maggio-giugno 1423 per tirarlo dalla parte del duca nella guerra contro Firenze (Commissioni, I, p. 449); il 29 marzo 1428 cerca di contrarre con il pontefice un'obbligazione in merito agli affari di Sicilia; è ancora legato ducale a Roma nel 1433.
Degni di menzione sono ancora l'arbitrato del C. (5 apr. 1419) tra Filippo Maria e il Monferrato da un lato e Genova dallo altro, e la conseguente nomina di lui a conservatore da parte di Genova per chiarire i punti controversi e vigilare sull'esecuzione dei patti stipulati il 10 maggio 1419. Nel novembre del 1420 il C. è plenipotenziario di Filippo Maria nelle trattative di pace con gli Estensi, che vengono concluse il 13 con la restituzione di Parma e di Reggio. È attivo a Ferrara dalla fine del 1427 nelle pratiche che conducono alla pace del 19 apr. 1428, da lui firmata insieme con gli altri legati viscontei sebbene, a quanto sembra, debilitato da un attacco di podagra. Altre importanti ambascerie furono quelle guidate dal C. presso la Repubblica di Venezia, dove egli fu inviato con pieni poteri nel novembre 1425, dopo la battaglia di Anghiari, sia per ottenere privilegi commerciali, sia per intervenire nelle pratiche di tregua fra il Visconti, l'imperatore Sigismondo e Venezia e distogliere eventualmente quest'ultima dal far lega con Firenze. Ebbe parte inoltre nella conclusione della pace del 30 dic. 1426 con Amedeo VIII di Savoia, Venezia e Firenze, e fu ancora incaricato di trattare con Venezia e Firenze il 29 marzo 1428. Per quanto riguarda i rapporti con l'Impero, si può ricordare l'importante procura conferitagli dal duca (14 ott. 1413) per trattare con Sigismondo, allora disceso in Italia, riguardo l'investitura ducale e il giuramento di fedeltà, e la successiva ambasceria di Sala Capriasca del 23 ottobre, con la stesura dei capitoli e delle promesse (Finke, pp. 311 s.); le missioni presso l'imperatore del dicembre 1417; la supervisione dell'ambasceria che stava per recarsi da Sigismondo, onde ottenere la riconferma dei privilegi ducali, del 18 maggio 1426; la "renovacio convencionum habitarum" con lo stesso del 19 sett. 1431. Per il tatto e l'abilità con cui seppe condurre la trattativa il C. ottenne dall'imperatore, con diploma da Costanza in data 9 febbr. 1418, la nomina a conte palatino; con questo titolo, "comes palatinus ac secretarius" è menzionato in un documento del 9 nov. 1421, e da una concessio ducale, in data 20 marzo 1429 da Abbiategrasso, il privilegio è esteso anche ai suoi discendenti.
Le testimonianze documentarie dei registri ducali dimostrano che l'attività del C. fu intensa dal 1412 fino al 1438(centoquarantaquattro atti e procure). La sua influenza nella corte ducale e presso Filippo Maria fu senza dubbio notevole, come dimostra la sua frequente presenza in atti e contratti privati dal 1415 al 1438 (suppliche, intercessioni, rinunce, legati). Viene anche da più parti testimoniata una sua implacabile animosità contro il conte di Carmagnola, d'accordo con Oldrado Lampugnano e Zanino Ricci, ma non è sicuro che il C. abbia avuto un ruolo decisivo, nella rovina del Bussone (Battistella, pp. 76 s.). Grazie alla sua posizione, il C. riuscì anche ad accumulare un ragguardevole patrimonio. Possedeva case in Milano nella zona di porta Nuova (dove abitava normalmente) e di porta Cumana, oltre ad immobili in Pavia e beni terrieri nei domini di Venezia, acquistati probabilmente dopo la pace del 1428. Dopo la sua morte, essi furono garantiti agli eredi nelle clausole della pace di Cavriana del 20 nov. 1441.Pur essendo stato educato umanisticamente, il C. non lasciò opere scritte, se si escludono due brevi componimenti in esametri latini, l'epicedio citato e una specie di lettera consolatoria indirizzata ad un amico che porta il nome fittizio di "Laelius", per distoglierlo da una non corrisposta passione amorosa. Il Sabbadini, che ha pubblicato le due poesie (Storia, pp. 437 s.), ne ha indicato i limiti nei "gravi errori metrici" e nel "fraseggio oscuro ed impacciato". Un autografo del C. è stato identificato da M. Regoliosi nel cod. Marc. lat. IV 43(=2122): v. Nuove ricerche, p. 190. Sembra comunque che il C. si sia segnalato soprattutto per la sua eloquenza in volgare, "patrio adiutus sermone" (Biondo, Historiarum, c. Hiir), che gli ha permesso di guidare con notevoli risultati le ambascerie ducali per quasi un trentennio. Fu amico di molti dei più importanti scrittori e umanisti del suo tempo, come l'arcivescovo Bartolomeo Capra, il frate Antonio da Rho, che lo definì "inter eximios summus aut inter summos eximius" (Müllner, p. 151, Cosmo Raimondi, che ne lodò la conoscenza "omnium optimarum artium" conseguita mediante una tenace applicazione di autodidatta (Sabbadini, Storia, p. 431), Guarino veronese (Sabbadini, Guarino, p. 430), Gasparino Barzizza, Giovanni Aurispa, Maffeo Vegio, e tra i fiorentini, Poggio Bracciolini, il quale diede notizia al C. della sua trascrizione del codice di Quintiliano da lui appena scoperto a Costanza verso la fine del 106 (Sabbadini, Storia, pp. 387 s.), Leonardo Bruni, che gli scrisse per raccomandargli il conterraneo Francesco Brundelia (Ep. IV, 6), e ancora Niccolò Niccoli e Ambrosio Traversari.
Tutte le testimonianze sono concordi nell'attribuire al C. una grande passione per i libri, forse trasmessagli dal padre, e senza dubbio la sua fu una delle prime biblioteche umanistiche, ricca di volumi rari e preziosi da lui raccolti e custoditi gelosamente. È probabile che questa bibliofilia abbia avuto inizio con una prima attività di scriba e di copista. Sembra infatti che il C. abbia trascritto nel 1412 0 '13 tre decadi delle Storie di Livio per Cosimo de' Medici (Gutkind, p. 302); nel febbraio del 1416 portò a termine, ancora per Cosimo, copia del manoscritto delle orazioni ciceroniane (Sandys, II, p. 26), e fu lui, presumibilmente, a permettere al Niccoli di prendere dal proprio apografo, risalente al codice Laudense (conservatoa Lodi, che, scoperto nell'anno 1421, è andato perduto), copia dell'Orator e del Brutus, nel corso dell'ambasceria ducale a Firenze dell'aprile 1423 (Sabbadini, Storia, pp. 137, 432). Fra i codici più importanti posseduti dal C. furono indubbiamente le Epistulae ad Atticum di Cicerone e una collezione di scrittori di agricoltura: Catone, Varrone, Columella, Palladio. Aveva inoltre una Comoedia antiqua oggi perduta, in cui si trovava un grazioso alterco tra il "Lar familiaris" e un "Parasitus" (Sabbadini, Storia, pp. 432 s.), e che potrebbe essere anche il rifacimento medievale di qualche commedia plautina; era particolarmente orgoglioso dei suoi codici di Svetonio, Gellio e Macrobio, forniti, cosa abbastanza rara, delle appropriate citazioni greche. Per ottenerne almeno il prestito, Guarino Veronese mise in opera ogni tentativo, come risulta da una sua lettera a Ugo Mazzolato del 9 dic. 1422 (Epistolario, II, p. 357) e da un'altra a Giovanni Casate del dicembre 1422 (Ibid., I., p. 358). Ma il C., nonostante le insistenze di Guarino e di altri suoi amici influenti, non volle prestare il libro di Macrobio, come si deduce da una lettera di Guarino a Bartolomeo Capra (Ibid., p. 602) e a Iacopo Zilioi (Ibid., p. 605) del 1427, e di Giovanni Lamola a Guarino del 31 maggio 1428. Sembra, inoltre, che il C. non volesse restituire a Guarino un codice che costui gli aveva prestato. Per la rapacità con cui si impadroniva dei libri altrui e la gelosia con cui li difendeva dalle mire degli studiosi il C. fu soprannominato "Harpya fibraria" nella cerchia dei dotti lombardi. Oltre alla bibliomania, sembra che il C. fosse molto appassionato di astrologia (D'Adda, n. 930) e del gioco degli scacchi, come risulta da una lettera di Pier Candido Decembrio ad Andrea Visconti, generale degli Umiliati (Fossati, p. 326).
Il C. morì il 25 dic. 1438 dopo aver fatto testamento il 23 con atto rogato dal notaio Cristoforo Cagnola, e fu sepolto nella chiesa di S. Giovanni alle Quattro Facce, dove un'iscrizione, riportata dallo Argelati (Bibliotheca, col. 1761), ne ricordava gli incarichi e le benemerenze. La cappella del C., oggi non più esistente dopo la demolizione della chiesa nel 1786, era sormontata da uno stemma che rappresentava un corvo sopra la sepoltura, e passò in seguito per eredità ai conti Rosso di San Secondo.
Dei figli del C., Luchino si fece monaco agostiniano e fu priore e vicario del suo Ordine (morì nel 1501). Il nipote Giovanni Antonio fu decurione di Milano nel 1447-48 e primo priore del neo eretto Monte di pietà di Milano nel 1497 (Motta, p. 24); fece stampare inoltre a sue spese a Milano presso A. Zaroti nel 1491 le Nuptiae di Gian Galeazzo Sforza. Tracce della famiglia Corvini si hanno anche nel 1500: Margherita Corvini di Arezzo, che potrebbe essere la figlia di Giovanni Antonio, sposa di Pietro Paolo Caimo professore di diritto presso l'Università di Pavia, morì nel 1549 (Forcella, V, p. 17).
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