BOLLÈA, Giovanni
Nacque a Cigliano, in provincia di Vercelli, il 5 dicembre 1913 da Gelsomino e da Rosa Gaida.
Il padre, già emigrato negli Stati Uniti nel 1904 ma costretto a tornare per le sue idee socialiste, passava da un lavoro all’altro, con l’aiuto della moglie, senza molta fortuna: era «un idealista e ribelle per natura, insofferente verso ogni forma di ingiustizia sociale» (Finalità e compiti della neuropsichiatria infantile, in Infanzia anormale, 1967, n. 79-80, pp. 499-517). Con i genitori e la sorella maggiore Onorina, Giovanni visse a Cigliano nella modesta casa di Corso Umberto I, finché agli inizi degli anni Venti i Bollèa si trasferirono a Torino dove aprirono un negozio di pasta. La mattina presto Giovanni aiutava a bottega e dopo andava a scuola con ottimi risultati. Nonostante le ristrettezze economiche, i genitori lo iscrissero al prestigioso liceo classico Gioberti di Torino, dove ebbe come compagno di classe Gualtiero Malvano, di cui rimase amico per tutta la vita. Fu il suo primo contatto con un ambiente colto, alto-borghese, diverso da quello familiare.
Si diplomò nel 1932 e nello stesso anno, spinto dai genitori, si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Torino. Nel 1933 perse il padre, morto a 48 anni per una polmonite; nel 1935 morì anche la madre per un tumore. Proseguì gli studi grazie a un assegno concessogli dall’Università nel 1935 e riuscendo a ottenere un posto residenziale di allievo interno nell’Istituto di anatomia patologica e all’ospedale Mauriziano fino al 1938. Frequentò con assiduità la sala settoria e il laboratorio istologico diretto da Ferruccio Vanzetti, dove preparò la tesi facendo pratica microscopica, anatomica e chirurgica. Si laureò con lode e con dignità di stampa l’8 luglio 1938, discutendo una tesi Su di un caso di poliposi del colon con trasformazioni carcinomatose. Considerazioni in tema di poliposi intestinale. Durante gli anni universitari era entrato nei gruppi giovanili torinesi dell’Azione cattolica, allora guidati dal genetista Luigi Gedda, con il quale strinse amicizia.
Pochi mesi prima della laurea, tramite i comuni amici Lea Ghiron Levialdi e Malvano, aveva conosciuto Renata Jesi, di una famiglia della borghesia ebrea romana. Si sposarono l’8 agosto 1938, in fretta, per l’incombere delle leggi razziali. Trattandosi di matrimonio fra cattolico battezzato e non cattolica, dovettero richiedere all’autorità ecclesiastica di essere dispensati dall’impedimento rappresentato dalla 'disparità di culto'. Con la moglie si trasferì a Roma in un appartamento dei genitori di lei.
Folgorato da una lezione di Ernesto Lugaro sulla psicopatologia della schizofrenia, al quinto anno di medicina, aveva deciso di diventare neuropsichiatra e nel marzo 1938 si era iscritto alla Scuola di specializzazione in clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Roma, dove si specializzò con lode il 23 giugno 1941. La Clinica dal 1935 era diretta dall’inventore dell’elettroshock, Ugo Cerletti, nel quale Bollèa riconobbe un maestro di scienza e di vita, non dogmatico e aperto verso il confronto. Cerletti gli fece capire che lo psichiatra non è solo uno specialista, ma un modo di essere uomo.
Nell’ottobre 1939 fu nominato assistente volontario. Oltre a lavorare in corsia – nel reparto neurologico, diretto da Vittorio Challiol, e in quello psichiatrico, diretto da Lucio Bini – diresse il reparto radiologico, per poi passare alla sezione di fisioterapia ed elettrologia clinica. In questo periodo all’attività diagnostica e terapeutica affiancò studi di elettrofisiopatologia del sistema nervoso, pubblicando lavori sulla cronassia di subordinazione e sulla distribuzione di densità di corrente nel cervello. Approfondì problemi legati all’encefalografia e ai disturbi da essa causati.
La frustrazione per l’impostazione della Clinica – caratterizzata da un approccio biomedico, di tipo organicista, e dalla preminenza degli insegnamenti di neurologia – lo spinse verso l’autoformazione, anche in ambito umanistico. Decisivo in tal senso fu l’ingresso nella famiglia della moglie, per mezzo della quale si integrò in un ambiente colto e istruito. Attraverso Renata e il fratello di lei Emilio, noto collezionista d’arte, conobbe e frequentò pittori e intellettuali, fra i quali Renato Guttuso e Mario Mafai.
Allo scopo di affermare una nuova psicopatologia, nel 1940 aveva proposto a Einaudi di pubblicare una raccolta di scritti di Carl Gustav Jung, autore mai tradotto in Italia. Nel 1941 l’editore torinese dimostrò un concreto interesse, soprattutto attraverso Cesare Pavese. Bollèa iniziò così a lavorare assieme alla moglie alla traduzione dalle edizioni inglese e francese. Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna (Der Seelenprobleme der Gegenwart, 1931) uscì nel 1942 e fu ristampato nel 1943 nella collana «Saggi», senza l’indicazione dei traduttori, che invece comparvero – Bollèa e Arrigo Vita – nella ristampa del 1959, alla quale seguirono numerose altre.
Richiamato alle armi nell’agosto 1941 in qualità di tenente medico di complemento, fino al giugno 1942 prestò servizio presso l’ospedale militare del Celio di Roma, affiancando come neurologo Angelo Chiasserini, direttore del reparto neurochirurgico.
Partecipò poi a due campagne di guerra: il 24 giugno 1942 fu destinato in un ospedale da campo della Slovenia, dove rimase fino al 14 agosto quando partì per il fronte russo, assegnato a un ospedale di riserva dell’Armata italiana in Russia situato nella città di Voroshilovgrad (oggi Luhansk). Qui lavorò come neurologo nel reparto neurochirurgico diretto da Gian Maria Fasiani, sia nel campo della diagnostica sia compiendo interventi chirurgici, soprattutto sui craniolesi. Quando nel dicembre 1942 iniziò la ritirata, si occupò di preparare i convogli dei feriti. Nella concitazione, Il 24 gennaio 1943, fu investito da un camion riportando un forte trauma al ginocchio destro e rientrò in Italia con un treno ospedale. Dopo l’8 settembre 1943 si sottrasse alla cattura e si ricongiunse a un comando italiano. Appoggiò idealmente la Resistenza, ma non ne fece parte organicamente.
Il periodo bellico per la famiglia Bollèa-Jesi fu ancora più drammatico per le persecuzioni razziali. Giovanni si spese con determinazione per proteggere il primo figlio Marco Ernesto, nato il 5 agosto 1939, la secondogenita Maria Rosa, nata il 4 febbraio 1944 (il terzo figlio, Daniele, nacque a guerra finita, il 4 novembre 1945), la moglie e i suoceri Ernesto Jesi e Pia Volterra. Il 10 giugno 1940 presentò domanda alla Direzione generale per la demografia e razza del ministero dell'Interno affinché il primogenito fosse riconosciuto come non ebreo, in quanto nato da matrimonio misto. La risposta positiva arrivò soltanto nella primavera del 1943. Dopo l’8 settembre, però, la situazione per gli ebrei italiani precipitò. Bollèa si trasferì ad abitare alla Clinica, mentre la moglie e i figli, cambiato il cognome in Pezzi, scapparono di casa in casa. I suoceri trovarono rifugio nella campagna viterbese, per poi fare ritorno a Roma, spinti dal timore di essere scoperti. Bollèa li nascose, facendoli ricoverare sotto falso nome: il suocero nel reparto psichiatrico della Clinica; la suocera nella casa di cura psichiatrica privata Villa Margherita.
Finita la guerra, la famiglia si riunì. Giovanni già dall’autunno 1943 aveva ripreso a lavorare all’Università come assistente incaricato.
Nel settembre 1946 il ministero dell’Assistenza postbellica gli propose di partecipare a Losanna, assieme ad altri delegati italiani, a un corso destinato a medici, psicologi, pedagogisti e assistenti sociali, organizzato dalle Semaines internationales d’études pour l’enfance victime de la guerre (SEPEG) allo scopo di fornire agli specialisti strumenti per rimediare ai traumi psicologici prodotti dal secondo conflitto mondiale su bambini e adolescenti. Spinto da Cerletti, Bollèa accettò, trovando nelle SEPEG un luogo di confronto e formazione, un’occasione per entrare in un contesto internazionale. A Losanna seguì lezioni di Oscar Forel, Lucien Bovet, André Repond, Jean Piaget, i cui insegnamenti plasmarono la sua idea di neuropsichiatria infantile. Apprese come erano organizzati i centri medico-pedagogici, studiando i modelli francesi, svizzeri e statunitensi, imparò il concetto di lavoro in équipe e comprese le possibilità offerte dal «connubio tra psicologia genetica e psicodinamica»(La neuropsichiatria infantile ieri e oggi, in Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, 2000, n. 67, pp. 135-142): il disagio psichico doveva essere osservato non soltanto attraverso il sintomo, ma anche attraverso i bisogni espressi dall’individuo e dalla società.
Tornato dalla Svizzera, iniziò a dedicarsi al lavoro di un’intera vita professionale: l’organizzazione scientifica e assistenziale della neuropsichiatria infantile. L’Italia scontava infatti gravi ritardi nel campo dell’assistenza e cura neuropsichiatrica ai minori: non esisteva una specializzazione universitaria e le strutture assistenziali si erano sviluppate soltanto a livello locale. Nel 1947, sulla rivista Il lavoro neuropsichiatrico (I [1947], 2, pp. 359-364), Bollèa espose in breve e concretamente che cosa fossero i centri medico-pedagogici, in quale altri Stati già esistessero, come funzionassero e chi vi dovesse lavorare. Polemizzava con la «tradizionalista e arretrata» scuola psicologica italiana, incapace di uscire dal recinto della psicotecnica nel quale l’aveva costretta il regime fascista. Auspicava la creazione di scuole per assistenti sociali, già strutturate negli USA e in Gran Bretagna. Proponeva, infine, la diffusione capillare, attraverso l’Organizzazione nazionale maternità e infanzia (ONMI), dei centri, con compiti di coordinare, controllare e attuare l’assistenza all’infanzia e adolescenza «anormale» nel suo complesso.
Per rafforzare e propagandare l’idea dei centri, organizzò assieme alla pedagogista Maria Venturini il Convegno internazionale per i centri medico-pedagogici, che si tenne a Roma dal 12 al 18 maggio 1947 nella sede del Centro di educazione sociale per assistenti sociali (CEPAS), fondato lo stesso anno da Guido Calogero, Maria Comandini e Angela Zucconi. Vi parteciparono specialisti provenienti da vari paesi (ibid., I [1947], 3, pp. 1-8). Del comitato organizzativo faceva parte anche Nicola Perrotti – socialista e pioniere della psicoanalisi in Italia – che si impegnò, in qualità di Alto commissario alla Sanità presso il ministero dell'Interno, a rendere possibile la realizzazione dei centri, indicando nell’ONMI l’istituzione preposta a diffonderli. E fu infatti l’ONMI, nel novembre 1947, a incaricare Bollèa di creare e dirigere a Roma il primo Centro medico-psico-pedagogico (CMPP), che iniziò a funzionare l’anno seguente a via Angelo Emo, nel quartiere Aurelio.
Organizzò il CMPP assieme allo psicologo Adriano Ossicini secondo i principi tecnici e scientifici che espose in un libretto del 1949 (I centri medico-psico-pedagogici e l’organizzazione dell’igiene mentale infantile in Italia, Roma 1949). Il CMPP operava in stretta collaborazione con la scuola e il tribunale per i minorenni, cercando di tenere insieme prevenzione e intervento terapeutico. Era basato sul lavoro integrato di diverse professionalità costituite in équipe, composte da psichiatra, psicologo e assistente sociale. Si praticavano la psicoanalisi, la psicoterapia, la testologia (non solo di orientamento comportamentistico ma con test di personalità o proiettivi). Il bambino era osservato nella complessità dei suoi bisogni e delle relazioni con famiglia, scuola o altri ambienti. In questo periodo Bollèa pubblicò l’originale studio Il padre nella famiglia moderna (in Infanzia anormale, 1957, n. 22, pp. 322-331) e dedicò particolare attenzione al «ragazzo difficile» (Il problematico inquadramento nosografico del “ragazzo difficile”, in Minerva medica, XLI [1955], 2, pp. 1-11) e alla criminalità minorile (La delinquenza minorile. Profilassi e schema organizzativo di studi, in Infanzia anormale, 1953, n. 2, pp. 198-205).
Immediatamente dopo l’istituzione del CMPP di Roma, prese a girare l’Italia per promuovere i centri e varie iniziative volte a sostenere a livello pratico e culturale l’assistenza all’infanzia e all’adolescenza. Nel 1948 fu tra i fondatori della Società italiana per l’assistenza medico-psico-pedagogica ai minorati in età evolutiva (SIAME), diretta da Giuseppe Ferruccio Montesano, suo insegnante di psicopatologia generale nella Scuola di specializzazione in clinica delle malattie nervose e mentali di Roma, con il quale avviò una collaborazione professionale. Nel settembre dello stesso anno fondò, supportato da Cerletti, un comitato di neuropsichiatria infantile interno alla Società italiana di psichiatria (SIP), di cui assunse la carica di segretario generale fino al 1958, quando venne istituita una sezione autonoma di neuropsichiatria infantile ed entrò a far parte del consiglio direttivo di questa. La presidenza del comitato e della sezione era affidata a Carlo De Sanctis, con il quale Bollèa collaborava strettamente. Dal 1956 e per vent’anni furono l’uno presidente e l’altro segretario della Lega italiana di igiene e profilassi mentale, occupandosi di tematiche relative alla psichiatria sociale e in particolare alla crisi della famiglia.
Nel secondo dopoguerra in Italia non esistevano periodici dedicati alla neuropsichiatria infantile. Per porre rimedio a questo vuoto Bollèa si impegnò a creare luoghi di confronto e dibattito. Nel 1950 organizzò, diventandone redattore, la Rassegna di neuro-psico-patologia e igiene mentale infantile, che uscì assieme a Il lavoro neuropsichiatrico fino al 1952. Nel 1953 rilanciò Infanzia anormale che, fondata nel 1906 da Giulio Fererri e già diretta da Sante De Sanctis ed Eugenio Medea, era cessata nel 1932.
Per approfondire la propria formazione pedopsichiatrica, nel dicembre 1948 si trasferì a Parigi; con una borsa di studio frequentò la clinica psichiatrica infantile diretta da Georges Heuyer, dal quale apprese la definizione di neuropsichiatria infantile come scienza di ogni forma di disadattamento infantile e giovanile a due facce: somato-psichica e pedagogico-sociale. Dall’aprile 1949 cominciò a lavorare presso la stessa clinica per conseguire il titolo di assistente straniero, che ottenne nel maggio 1951 con una tesi, mai pubblicata, su La schizofrenia infantile. Seguì il corso di psicopatologia e psichiatrica clinica tenuto da Henry Ey all’ospedale Sainte-Anne di Parigi, quello di perfezionamento in psichiatria infantile diretto da Heuyer e fece uno stage presso l’ospedale di Rouen. Ebbe occasione inoltre di approfondire gli interessi psicoanalitici. Con lo psicoanalista Serge Lebovici, anch’egli impegnato nella clinica di Heuyer, strinse collaborazione professionale e amicizia, condividendo da subito la necessità di affermare la metodologia pluridimensionale nell’approccio al bambino.
Nel 1952 avviò con Nicola Perrotti un’analisi personale. In contemporanea iniziarono a lavorare al CMPP di Roma i primi psicoanalisti: Adda Corti e Benedetto Bartoleschi, ciò che permise di compiere nel campo della psichiatria infantile, molto prima rispetto al settore adulti, diagnosi di tipo dinamico.
Dall’esperienza francese Bollèa prese spunto per organizzare anche in Italia le scuole dei genitori, di cui la prima aprì a Roma nel 1954. Tali esperienze nascevano non solo dall’esigenza di far conoscere ai genitori alcuni principi della psicologia dell’età evolutiva, ma dalla necessità di capire i bisogni del bambino e della famiglia (La scuola dei genitori in Italia, in Infanzia Anormale, 1956, n. 19, pp. 487-491).
Le molte iniziative extrauniversitarie e l’acquisizione di competenze nel campo della neuropsichiatria infantile servirono a Bollèa per legittimare la propria identità professionale e specialità all’interno dell’accademia. Questo si rese tanto più necessario dal 1947, quando Cerletti fu messo a riposo dall’Università di Roma tra molte polemiche. Bollèa fu l’unico suo allievo a non essere estromesso dalla Clinica, grazie alla specifiche competenze acquisite nel settore dei minori. Il suo percorso accademico, legato a quello della neuropsichiatria infantile, fu comunque lungo e difficile, speso nella quasi quotidiana conquista di spazi concreti (stanze, attrezzature, uffici ecc.) e scientifici. Al di là dell’appoggio pubblico, i clinici universitari si mostrarono alla prova dei fatti poco propensi a lasciare autonomia a una nuova disciplina che intendeva porsi tra la pediatria e la psichiatria da una parte, l’assistenza sociale e la scuola e la giustizia dall’altra.
Nel 1956 fu nominato direttore del reparto di neuropsichiatria infantile interno alla Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Roma. Era un piccolo reparto, con una trentina di posti letto, dove nessun medico andava volentieri a lavorare. Grazie a un contributo economico ottenuto dall’Alto commissariato per l’igiene e la sanità, Bollèa lo ristrutturò e riorganizzò, creando strutture di notevole importanza come il centro di rieducazione motoria per le paralisi cerebrali infantili e quello per la riabilitazione degli spastici e discinetici, oltre alla scuola per terapisti della riabilitazione.
Nel 1948 era stato promosso assistente ordinario e aveva conseguito la libera docenza in clinica delle malattie nervose e mentali. Nel 1956 ottenne la prima libera docenza italiana in neuropsichiatria infantile e nel 1959 la nomina di aiuto. Sempre nel 1959 gli fu assegnato il primo corso universitario ufficiale di neuropsichiatria infantile in Italia e affidata l’organizzazione della neonata scuola di specializzazione in neuropsichiatria infantile, diretta da Mario Gozzano e dal pediatra Gino Frontali. L’entusiasmo per queste conquiste era accompagnato dall’ansia che una crescita troppo veloce di un metodo originale potesse produrre fragilità teoriche. Cercò di porvi rimedio al XXVII congresso della SIP, tenutosi nella primavera del 1959, affrontando il tema Problemi generali di psicopatologia delle anormalità del comportamento in età evolutiva (in Infanzia anormale, 1959, n. 33, pp. 445-468). Chiariva così la propria «concezione olistico-strutturalistica della personalità infantile, aperta alla psicologia genetica e alla psicodinamica», che diventò il filo conduttore della sua produzione scientifica e organizzativa e la base teorica della scuola di specializzazione (Per una specializzazione in neuropsichiatria infantile (risultati e commenti del questionario), con C. De Sanctis, in Il lavoro neuropsichiatrico, X [1952], 1, pp. 165-196); con lo stesso titolo in Infanzia anormale, 1959, n. 33, pp. 524-531).
La frenetica attività assistenziale e scientifica fu associata a impegno politico e culturale, che Bollèa percepì sempre come parte integrante della propria professione. Dal dopoguerra si era avvicinato al Partito comunista italiano, divenendone un riferimento sulle questioni psichiatriche e stringendo amicizia con Lucio Lombardo Radice, Massimo Aloisi e Pietro Ingrao. Stimolò il dibatto su psicoanalisi e marxismo, organizzando un incontro su tale tema con Ossicini, Aloisi, Lombardo Radice e Perrotti.
Nei primi anni Cinquanta conobbe Umberto Saba, ricoverato presso la Clinica psichiatrica privata Villa Electra di Roma, dove Bollèa prestava servizio da alcuni anni. I due fecero amicizia e Bollèa continuò a seguirlo come paziente anche successivamente, quando Saba gli dedicò la poesia A un giovane comunista, compresa nel Canzoniere. Sempre a Villa Electra, tramite il poeta, incontrò la figlia di quest’ultimo Linuccia, Carlo Levi e Giacomo De Benedetti. Frequentava anche Alberto Moravia, Elsa Morante, Ennio Flaiano, Federico Fellini, Francesco Rosi e altri.
Dai primi anni Sessanta Bollèa intensificò l'impegno in ambito scolastico. Collaborò con il ministero della Pubblica Istruzione per le riforme didattiche e dei programmi della scuola media unificata, istituita nel dicembre 1962, adoperandosi in particolare sul tema delle classi differenziali. Al momento dell’istituzione le sostenne – perché a suo modo di vedere davano la possibilità di cooperare a specialisti e personale scolastico e consentivano ai più deboli di accedere alla scuola, dalla quale erano stati esclusi fino a quel momento – ma fece poi pubblicamente autocritica, ammettendo che nella verifica empirica del lavoro quotidiano, anche per la scarsa preparazione professionale di chi vi lavorava, le classi differenziali si erano dimostrate una falsa soluzione da accantonare quanto prima (La Stampa, 28 gennaio 1975). Erano infatti nel frattempo emerse altre esigenze, anche scientifiche. I test selettivi e la psicologia riduzionista erano ormai superati a favore di un intervento complesso aperto a più punti di vista (Prepubertà, disadattamento scolastico e scuola unica, in Minerva medicopsicologica, III [1962], 1, pp. 11-17; Classi differenziali e classi speciali e scuola integrata, in Neuropsichiatria infantile, 1970, n. 116-117, pp. 893-916).
Sempre all’inizio degli anni Sessanta, per sistematizzare l’ambito assistenziale della neuropsichiatria infantile, pubblicò le Nuove vedute sull’organizzazione dell’igiene mentale infantile (in Igiene mentale, IV [1960], 1, pp. 3-18) e il Piano di organizzazione della psichiatria infantile in Italia: tecnici e istituzioni (in Infanzia anormale, 1962, n. 50, pp. 653-669). Con le Dispense di neuropsichiatria infantile (Roma 1961) fornì l’unico compendio della disciplina esistente allora in Italia. Di notevole interesse, poi, la monografia Le oligofrenie dismetaboliche (con Elia Baldassarre, s.l. 1966).
Nel 1963 fu ternato al secondo posto nel concorso bandito dall’Università di Messina per la prima cattedra italiana di neuropsichiatria infantile, vinta da Franco De Franco. Solo nel 1965 – ma l’accordo in tal senso era in pratica già stato preso due anni prima – la facoltà medica di Roma lo chiamò a ricoprire il ruolo di professore straordinario assegnandogli la seconda cattedra italiana di neuropsichiatria infantile. Bollèa diventava così autonomo, come la disciplina, rispetto alla Clinica delle malattie nervose e mentali e al settore adulti.
Percepì la direzione del reparto neuropsichiatrico infantile e l’assegnazione della cattedra come tappe di una 'lunga marcia' per creare un nuovo tipo di struttura logistico-assistenziale capace di far coincidere ricerca scientifica e realizzazioni operative. Dalla prima metà degli anni Sessanta si dedicò infatti a un'assidua e complessa attività finalizzata a fondare il primo Istituto universitario di neuropsichiatria infantile in Italia. Trovò personalmente una nuova sede, i soldi per ristrutturarla e nuove attrezzature scientifiche. Il 30 maggio 1967 nell’aula magna dell’Università di Roma tenne la prolusione all’insegnamento assegnatogli nel 1965, discutendo il tema Finalità e compiti della neuropsichiatria infantile. Il 6 giugno fu inaugurata la nuova sede dell’Istituto, in via dei Sabelli 108, di cui Bollèa assunse la direzione, così come della scuola di specializzazione interna. L’Istituto diventò presto un punto di riferimento, centro di eccellenza in Italia e all’estero e iniziò così a crearsi una vera e propria scuola, composta da assistenti, medici interni, tecnici. La struttura aveva al proprio interno tutti gli strumenti necessari per un’assistenza completa, era fornita di un reparto di ricovero, con posti letto anche per le madri, e di day hospital diagnostico e terapeutico. Vi funzionavano servizi di psicoterapia, per i disturbi neuropsicologici, per le paralisi cerebrali infantili, per le insufficienze mentali e per i disturbi del comportamento. Era dotata di un centro di medicina sociale, di uno per le oligofrenie dismetaboliche, di uno per la convulsività dell’età evolutiva e uno per la rieducazione motoria e psicomotoria delle paralisi cerebrali infantili. Poteva contare su laboratori di varia natura, una piscina e molte aule, oltre a essere provvista di asilo nido e mensa per il personale.
Nel 1968 Bollèa fu promosso professore ordinario e nel 1971 fondò a Roma la Società italiana di neuropsichiatria infantile di cui divenne presidente (Fisionomia e spazio operativo della neuropsichiatria infantile oggi in Italia, in Atti IV congresso di neuropsichiatria infantile...1971, Roma 1972, pp. 28-44). Nel corso degli anni Sessanta e nel decennio successivo, caratterizzato fuori e dentro l’Italia da movimenti di contestazione studenteschi e operai, si schierò pubblicamente su vari temi. Lo fece sostenendo con altri docenti l’occupazione dell’ateneo romano seguita alla morte dello studente Paolo Rossi, provocata nell’aprile 1966 da azioni di gruppi neofascisti nella facoltà di lettere e filosofia (l’Unità, 4 maggio 1966), oppure aderendo e partecipando a varie iniziative a favore delle popolazioni del Vietnam in guerra (ibid., 9 marzo 1969) o del Cile vittima del colpo di Stato di Pinochet (ibid., 4 ottobre 1973). Elaborò inoltre nel 1968 Una proposta per la riforma del piano di studio della facoltà di medicina (in Minerva medica, LIX [1968], 85, pp. 1-8) e nel 1969 sottoscrisse il documento Riforma dell’Università: le esigenze vitali (Scuola e città, XX [1969], 2, pp. 92-96) inviato al ministro Fiorentino Sullo, firmato da vari docenti dell’ateneo romano fra i quali Federico Caffè, Lucio Lombardo Radice e Paolo Sylos Labini. A fine anni Settanta sostenne la Depenalizzazione, decriminalizzazione o liberalizzazione dell’uso della “canapa indiana” (in Neuropsichiatria infantile, 1978, n. 198, pp. 81-87) e, nel 1981, si schierò per il no al referendum sull’aborto (l’Unità, 9 maggio 1981).
Nella prima metà degli anni Settanta, si separò dalla moglie. Nel 1974-75 prese un anno sabbatico che passò a Londra, dove approfondì i rapporti con la psicoanalisi britannica, entrando in contatto con Amedeo Limentani, Donald Meltzer e Mauro Morra. Conobbe lo psicoanalista Andreas Giannakoulas e lo invitò all’Università di Roma come esperto del pensiero e della prassi di Donald W. Winnicott, già introdotto in Italia da Eugenio e Renata Gaddini, di cui condivideva le teorizzazioni rispetto al ruolo strutturante giocato per il bambino sia dalla relazione precoce con la madre sia dal padre come legame fra i due. Non a caso già nel 1968 ne aveva fatto pubblicare La famiglia e lo sviluppo dell’individuo (The family and individual development, 1965) nella collana medico-pedagogica da lui stesso diretta presso Armando editore. Intuì che Giannakoulas avrebbe potuto dargli l’aiuto che non trovava nella scuola psicoanalitica italiana. Ormai da tempo tentava infatti di strutturare all’interno dell’Istituto, e quindi dell’Università, alcuni psicoanalisti, incentivandone la formazione anche all’estero (in Francia con Lebovici, a Londra presso la Tavistock Clinic), ma senza grande successo. Mise in contatto Giannakoulas con il proprio allievo Adriano Giannotti e dalla collaborazione dei due nacque nel 1976, presso l’Istituto di neuropsichiatria infantile, il primo corso quadriennale di formazione psicanalitica per psicoterapeuti dell’età evolutiva, un'esperienza che spinse a fondare nel 1981 l’Associazione per lo sviluppo delle scienze neuropsichiatriche dell’età evolutiva (ASNE), il cui primo presidente fu Bollèa.
Nel 1980 il Compendio di psichiatria dell'età evolutiva: dalle lezioni del prof. Giovanni Bollèa (a cura sua e dei suoi collaboratori, Roma 1980) raccoglieva le lezioni e l’esperienza didattica e scientifica di molti anni di lavoro.
Collocato a riposo dall’Università di Roma nel novembre 1989, fu nominato professore emerito due anni dopo. Continuò a frequentare l’Istituto di neuropsichiatria, dove intanto era stata affissa una targa che gliene riconosceva la paternità.
Finita l’esperienza universitaria, nell’ultima fase della vita si impegnò nella divulgazione del proprio pensiero attraverso giornali, televisioni e libri rivolti al grande pubblico, accompagnato in questa opera dalla seconda moglie Marika Carniti, interior designer attiva nel mondo dell’arte, dello spettacolo e della cultura, divorziata con tre figli, che aveva conosciuto a Porto Rotondo nell’estate del 1975 e sposato qualche anno dopo.
Nel 1995 pubblicò Le madri non sbagliano mai (Milano 1995), il suo più grande successo editoriale, arrivato alla ventiquattresima ristampa e tradotto all’estero. Attraverso il libro, dal titolo volutamente polemico, Bollèa cercò di placare le ansie delle madri, sovraccaricate di responsabilità rispetto all’infelicità dei propri figli, così da restituire al ruolo dei genitori la dovuta semplicità e spontaneità. Dieci anni dopo in un volume dal titolo Genitori grandi maestri di felicità (Milano 2005) raccolse una selezione dei suoi interventi fra il 1998 e il 2005 in alcune rubriche che teneva sulla rivista Gente.
Non smise mai i panni dell’uomo di parte. A fine anni Ottanta scelse l’impegno ambientalista, fondando l’associazione Alberi per i vivi (ALVI), della quale diventò presidente e che si proponeva di promuovere l’educazione ambientale e stimolare il rimboschimento, anche attraverso la creazione di giardini nelle città, nella convinzione che i bambini e la natura rappresentassero il futuro del pianeta. Nel 2001 portò avanti la battaglia per il diritto di voto a 16 anni e nel 2008 aderì al neonato Partito Democratico (PD), vedendo concretizzarsi in esso un progetto nel quale aveva creduto fin dal secondo dopoguerra, cioè l’unione fra la tradizione cattolica e quella comunista.
Nella sua opera di divulgatore si spese con energia per far conoscere pensiero e azioni di quelli che considerava riferimenti imprescindibili nella costruzione del modello italiano di neuropsichiatria infantile. Molti furono gli articoli o interventi a convegni che dedicò all’attività clinico-psicologia di De Sanctis (La visione della neuropsichiatria infantile di Sante De Sanctis, in Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, 1999, n. 66, pp. 387-392) e a quella psico-pedagogica di Giuseppe Montesano e Maria Montessori (Giuseppe Montesano, in Infanzia anormale, 1961, n. 44, pp. 401 s.; Maria Montessori e il bambino handicappato, in Vita dell’infanzia, 1997, n. 6, pp. 20-26).
Nel 2007 fu ordinato Cavaliere di gran croce, su iniziativa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il quale era amico da tempo.
Poco tempo prima di morire fu angosciato dal rischio che la neuropsichiatria infantile perdesse la propria autonomia universitaria, assorbita da altre discipline quali la pediatria o la psichiatria, come proposto da alcuni organi accademici.
Mentre si trovava in vacanza in Sardegna, nell’agosto 2010, fu colpito da ischemia cerebrale. Ricoverato presso il Policlinico Gemelli di Roma, vi morì il 6 febbraio 2011.
Un fondo archivistico Giovanni Bollèa è stato depositato dalla famiglia presso l’Istituto di storia della medicina dell’Università di Roma La Sapienza. Non ancora inventariato, comprende carte relative all’attività scientifica e professionale oltre che alla vita familiare e privata. Notizie si trovano a: Torino, Archivio storico del liceo classico Gioberti, IV serie, Fascicoli alunni 1900-1965, faldone GLVG 774; Ibid., Archivio storico dell'Università, Facoltà di medicina e chirurgia, Registri della carriera scolastica, aggr. 1 415, matricola 5800; Roma, Archivio del personale dell'Università La Sapienza, Serie personale docente, Bollèa Giovanni; Ibid., Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale demografia e razza, b. 325, Bollea Marco Ernesto. Vedi inoltre: Istituto di neuropsichiatria infantile dell’Università di Roma, Attività scientifica 1956-1975, Roma 1979; L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Torino 1999, p. 103; I. Ardizzone, Intervista al professor B. sulla psicoterapia psicoanalitica infantile, in Quaderni di psicoterapia infantile, 2001, n. 42, pp. 287-295; A. Ossicini, Insieme a B.: nasce il centro medico-psicopedagogico a via Angelo Emo, in Id., La rivoluzione della psicologia, Roma 2002, pp. 140-150; M.A. Grignani, Storia di “Ernesto”, in U. Saba, Ernesto, Torino 2006, pp. 131-145; Un incontro con G. B., in Frenis Zero, IV (2009), 11, http://web.tiscali.it/freniszero/bollea.htm; T.J. Carratelli, Ricordo di G. B., in Richard e Piggle, XIX (2011), 1, pp. 90-95; M. Fiorani, G. B. (1913-2011). Per una storia della neuropsichiatria infantile in Italia, in Medicina & Storia, XI (2011), 21-22, pp. 251-276.