BICHI, Giovanni
Nato nel 1613 a Siena, da Firmano e da Onorata Mignanelli, sorella uterina di Fabio Chigi, il futuro pontefice Alessandro VII, fu accolto nel 1630 nell'Ordine gerosolimitano. Da una lettera del Chigi, allora nunzio a Colonia, risulta che nell'aprile del 1642 si era trasferito a Roma, ma si ignora con quale ufficio. Il 2 ott. 1646 il consiglio generale dell'Ordine gli affidò il comando di una galera con la quale partecipò alla difesa di Candia contro i Turchi. In premio dei servigi prestati ottenne dal proprio Ordine la dignità di priore di Capua. Nel 1653 il B. fu nominato ricevitore dell'Ordine a Venezia e nel 1655 fu inviato in rappresentanza dei cavalieri a Roma, per rendere omaggio allo zio, eletto al pontificato in quell'anno. Alessandro VII trattenne presso di sé il nipote e l'anno successivo lo incaricò di preparare a Civitavecchia una squadra di cinque navi, pure destinate a soccorrere Candia. Approntata la squadra, il 27 febbr. 1657 ne ottenne dal pontefice il comando effettivo, anche se ufficialmente venne nominato soltanto commissario e luogotenente generale di Mario Chigi, fratello del papa, il quale aveva, ma di fatto non esercitava, la carica di capitano generale di terra e di mare della Chiesa. Il 18 maggio seguente, a Messina, il B. congiunse le proprie navi con la squadra maltese ed il 14 giugno con l'armata veneziana comandata da Lazzaro Mocenigo: obiettivo dei collegati era di chiudere alla flotta turca l'uscita dei Dardanelli, per impedire che fossero portati soccorsi agli assedianti di Candia. L'intento fu provvisoriamente conseguito con la battaglia detta dei Dardanelli, svoltasi il 17-19 luglio 1657, nella quale toccò al B. ed alla squadra pontificia un ruolo di primo piano.
Nella prima fase dello scontro, nella quale fu respinto il tentativo della flotta turca di rompere il blocco, le navi romane, al centro dello schieramento dei collegati, sostennero infatti l'urto maggiore dell'armata ottomana; nel successivo combattimento notturno, al quale il B. si era inizialmente opposto, cedendo infine assai malvolentieri alle insistenze dell'ammiraglio veneto, incendiata la nave ammiraglia veneta ed ucciso lo stesso Mocenigo, il B. assunse di fatto il comando delle navi cristiane e riuscì a portare in salvo anche il rottame dell'ammiraglia. Abbandonati i Dardanelli e le squadre alleate, affrontò nel viaggio di ritorno, tra Parga e Paxo, una squadra turca al comando di 'Alī Bey e la costrinse ad abbandonare quelle acque. I Veneziani imputarono tuttavia alla sua prematura partenza la perdita, avvenuta in quel giorni, delle isole di Tenedo e Lemno che la Repubblica era riuscita a strappare agli Ottomani soltanto l'anno precedente.
Al suo ritorno a Roma, tuttavia, il B. poté giustificare al pontefice la propria condotta e dimostrare infondate le proteste dei Veneziani, sicché il papa lo accolse con grandi onori ed il 13 genn. 1658 lo nominò, pur lasciandolo sempre alle dipendenze di Mario Chigi, commissario generale e, nel successivo 13 marzo, prefetto e capitano generale delle galere pontificie. Al comando di queste e di dieci navi armate a spese della nobiltà romana il B. partecipò nel 1659 alla sfortunata spedizione guidata dal Morosini contro il porto della Canea, a Creta, e, nello stesso anno, ancora con la squadra dei cavalieri gerosolimitani e con i Veneziani, prese parte a varie operazioni navali nel Mediterraneo; in particolare, nell'agosto, al comando di cinque navi ed insieme con sette galere dell'Ordine gerosolimitano ed a quattro della repubblica veneta, assalì l'isola di Santa Maura (Leucade), rompendo il ponte che la univa alla terraferma; dovette però rinunziare ad ogni tentativo contro la fortezza turca a causa dell'insufficienza delle artiglierie di cui disponevano le navi cristiane.
Nel 1662 il B. fu implicato a Roma nel grave incidente sorto tra l'ambasciatore francese duca di Créqui e Mario Chigi. Il Créqui, designato ambasciatore a Roma dopo nove anni di vacanza francese presso la S. Sede, seguiva con molto zelo le istruzioni della propria corte, dirette a esasperare piuttosto che a sanare gli annosi contrasti col papa: non si lasciava sfuggire, perciò, alcuna occasione per provocare discussioni e dissensi, moltiplicando le proprie pretese in materia di immunità diplomatica. Per l'atteggiamento provocatorio del seguito del Créqui nell'agosto del 1662 si verificò presso la sede dell'ambasciata di Francia, in palazzo Farnese, un sanguinoso scontro tra il corpo di guardia francese ed i soldati corsi di una vicina caserma, il cui comando spettava a Mario Chigi. Questo incidente, sapientemente sfruttato dal Créqui, costituì l'occasione da tanto tempo cercata dai ministri di Luigi XIV per una massiccia azione contro la S. Sede, che si articolò nell'occupazione di Avignone e del Contado Venassino e nella votazione, da parte della Sorbona, dei sei articoli gallicani del 1663. In questa fase del contrasto tra Roma e la Francia, conclusosi con le umilianti condizioni imposte ad Alessandro VII nel trattato di Pisa del 1663, il B. ebbe un ruolo secondario, ma non privo di importanza, dapprima come luogotenente di Mario Chigi e poi come collaboratore del cardinale segretario di stato Flavio Chigi, sia negli inutili tentativi iniziali che la Curia moltiplicò per ammansire l'intransigente ambasciatore francese, sia, successivamente, nelle lunghe e drammatiche trattative diplomatiche avviate per scongiurare una definitiva rottura.
Per la gravità della crisi attraversata dalla S. Sede e per gli stessi suoi impegni diplomatici, l'attività del B. al comando della squadra pontificia fu in questo periodo assai limitata. Pare anche che il papa gli affidasse in questo periodo alcuni importanti incarichi in materia economica: un breve di Alessandro VII del maggio 1667 approva infatti l'uso da lui fatto di importanti somme di denaro pubblico. Morto Alessandro VII il 22 di quello stesso mese, il B. fu confermato nelle proprie cariche dal collegio dei cardinali, per disposizione del quale fu inviato nuovamente a Candia. Qui Francesco Morosini gli affidò la difesa di Standita e il B. contribuì anche alla protezione di Cerigo, impadronendosi di cinque navi ottomane.
Tornato a Roma, il B. fece rinunzia nelle mani del nuovo pontefice, Clemente IX, di tutte le cariche pontificie sino allora esercitate e tornò in Toscana. L'anno successivo, però, il granduca Ferdinando II de' Medici lo inviò nuovamente a Roma, con istruzioni del 24 novembre, come ambasciatore di obbedienza a Clemente IX, e lo nominò, subito dopo, residente del granducato presso la S. Sede, carica che il B. ebbe confermata anche da Cosimo III e mantenne sino al 1673. Dopo questa data il B., secondo il Valori, si ritirò a Malta, dove sarebbe morto di peste il 24 giugno 1676.
Un Giovanni Bichi, tuttavia, partecipò nel 1688, insieme con Ferdinando Capponi, a un'ambasceria straordinaria di Cosimo III alla corte di Monaco, in occasione del matrimonio della arciduchessa Violante: potrebbe identificarsi con il B., tanto più che il Rangoni Machiavelli ritiene di poter collocare la data di morte di questo, avvenuta comunque a Malta, nel 1707.
Fonti e Bibl.: Una Relaz. del viaggio delle galere pontificie in Levante l'anno 1657... del cavaliere gerosolimitano M. A. Miniconi è stata pubbl. da G. Cugnoni, in estratto dal Bull. senese di storia patria, IV (1897); altre notizie di contemporanei sul B. in La corresp. antijanséniste de F. Chigi…, a cura di A. Legrand-L. Ceyssens, Bruxelles-Rome 1957, pp. 65 s., 82; La première bulle contre Jansénius, a cura di L. Ceyssens, I, Bruxelles-Roma 1961, p. 349; F. Sforza Pallavicino,Della vita di Alessandro VII…,I, Prato 1838, pp. 282 s., 285; G. Brusoni,Historia dell'ultima guerra tra' veneziani e turchi…, Bologna 1674, pp. 672 s. Vedi inoltre: L. von Pastor,Storia dei papi, XIV, 1, Roma 1932, pp. 225, 272; L. Rangoni Machiavelli, G. F. Bichi Balì Gran Priore di Capua (1613-1707) e la battaglia dei Dardanelli del 1657, in Riv. mens. ill. del Sovrano Militare Ordine di Malta, III(1939), n. 4, pp. 3-6; A. Valori,Condottieri e generali del Seicento, Roma 1943, p. 43; M. Del Piazzo,Gli ambasciatori toscani del principato (1537-1737), Roma 1953, pp. 20, 91, 131.