DELFICO, Giovanni Berardino (o Bernardino)
Nacque a Teramo il 29 dic. 1739 primogenito di Berardo e Margherita Civico, di famiglia patrizia appartenente alla oligarchia teramana dei Quarantotto per il quartiere di S. Giorgio. Tra gli ascendenti si segnalano Pier Giovanni, teologo; Melchiorre, vescovo, ed Orazio, giureconsulto.
Reputata tra le prime famiglie della città di Teramo, una indagine fiscale del 1771 ne faceva ascendere il patrimonio ad once annue 1.765,4, pari ad un imponibile di ducati 529,54 in cespiti di rendita sparsi nella provincia (Teramo, Campli, Giulianova, Pescara, Montesilvano), oltre ai quali figurava un allevamento di bestiame. Non dotata di titoli nobiliari, che legati al servizio di corte non sono presenti nella provincia, nella famiglia vigeva il maggiorascato ed una oculata amministrazione del patrimonio comune.
In occasione dell'invasione austriaca del Regno nel 1744, schierandosi dalla parte borbonica contro l'orientamento municipale, i Delfico avevano rinsaldato i vincoli con la nuova dinastia ed ottenuto in riconoscimento una pensione per lo zio Orazio, un ufficio di sovrintendente ed assistente dei carichi di Gallipoli per il D., e un titolo di alfiere per Melchiorre. L'educazione dei tre fratelli iniziata presso i gesuiti di Atri fu affidata a don Mosè Monti che li accompagnò a Napoli: qui essi frequentarono l'università ed attesero al magistero genovesiano.
Nel 1767 il D. sposò Caterina Mazzocchi, figlia unica di Lorenzo, giudice di Vicaria, che era stato assessore in Teramo dal 1759 al 1765; il matrimonio gli porterà il patrimonio della famiglia Mazzocchi originaria di Santa Maria di Capua, cui apparteneva il noto filologo Alessio Simmaco, e il titolo di marchese alla morte di Filippo Mazzocchi, presidente del Sacro Real Consiglio e membro del Consiglio delle finanze. Caterina morirà in Giulianova il 19 maggio 1769, sei giorni dopo aver dato alla luce Orazio, unico discendente della famiglia.
Dopo la devoluzione avvenuta per l'estinguersi degli aventi diritto alla successione feudale degli Acquaviva d'Atri (1757), questo feudo era stato aggregato al nucleo storico del patrimonio mediceofarnesiano ereditato dalla Corona nella prima metà del Settecento, ed era entrato nell'amministrazione degli allodiali. Il D. ne otteneva il governo nel 1768 a seguito della rinuncia fattane dall'amininistratore Nicola Sanseverino, con il patrocinio del Tanucci. Alla carica era annessa la giurisdizione in seconda istanza sulle sentenze delle corti locali di tutto l'allodiale d'Atri. Eserciterà tale impiego fino alla rivoluzione del 1798-99.
Il periodo dell'amministrazione coincise con un'età di importanti trasformazioni nella provincia, che dopo la scomparsa del grande feudo venne lentamente affrancandosi da un assetto tardofeudale caratterizzato da vincoli del territorio alla pastorizia transumante ("Regi Stucchi" e "Poste d'Atri") e particolari privative e privilegi feudali connessi con la locale coltivazione e commercio del riso. In una provincia il cui assetto socioeconomico era fortemente condizionato dalla distanza dalla capitale, dalla marginalità nel Regno, dalla impervietà e mancanza di strade, dalle amministrazioni doganali, il ceto illuminato si faceva portavoce di un riassetto fondiario vigorosamente privatistico, perorava la libertà di commercio e l'incremento della circolazione economica in primo luogo con la costruzione di strade. Il rientro in Demanio - sia pure nella forma impropria della dipendenza dall'amministrazione degli allodiali - dei territori del feudo d'Atri che coprivano la parte maggiore e più fertile della provincia, apriva nuovi spazi per il consolidamento fondiario della emergente borghesia locale, le cui sostanze si erano in buona parte costituite nella crisi del grande feudo. D'altro canto, nel disfarsi del baluardo acquaviviano, al termine di una secolare tensione fra la potenza degli Acquaviva ed il nucleo demaniale della Municipalità teramana, e con l'amministrazione dell'allodiale affidata al D., la Municipalità teramana riprese il sopravvento nella politica provinciale, il ceto medio poté consolidare le sue basi fondiarie, la locale classe dirigente recuperava una prospettiva globale della realtà provinciale, elaborava una teoria del proprio sviluppo secondo sue idealità, interessi ed iniziative. I Delfico, rientrati da Napoli al termine della formazione genovesiana, pilotavano il processo e fornivano ad esso una evidente specificità. Una parte rilevante del riformismo provinciale si svilupperà attorno allo sbandamento dei regimi feudali dello Stato d'Atri. Alle condizioni locali favorite dall'allentarsi della morsa feudale e dalla ripresa del locale dinamismo borghese si affiancavano le circostanze politiche generali indotte da un lungo periodo di pace e di stabilità italiana, dal riorientarsi della politica napoletana verso il sistema asburgico, da un ampliato traffico intellettuale e di merci tra gli Stati italiani. Un nuovo ciclo riformatore era promosso dalla regina Maria Carolina d'Asburgo moglie di Ferdinando IV di Borbone: gli anni '80 segnano nel Regno il momento di maggiore incidenza del riformismo illuminato nella politica del governo.
Nel 1770 il D. era incaricato della vendita dei beni dei gesuiti espulsi dal Regno esistenti nei tenimenti di Torano, Controguerra e Colonnella: vanterà difensivamente di avere in quella vendita servito l'interesse fiscale con tanto zelo da ottenere in 14.000 ducati un ammontare doppio rispetto alle prime offerte.
Era implicato sia pure marginalmente nella cosidetta "processura per la fuga delle monache di S. Matteo" (1777-1780), che investiva più direttamente il fratello Melchiorre.
In essa l'assessore provinciale Giacinto Dragonetti ed il vescovo aprutino L. M. Pirelli si trovavano coalizzati contro i più noti esponenti del locale illuminismo, detti "laici d'imperversato e pernicioso talento", accusati di empietà, di setta, di avere indotto le monache alla sortita dal conventino e fomentato l'insubordinazione all'autorità vescovile. In uno dei documenti del processo si parla di strapotere ed arroganza della famiglia Delfico nella provincia, a sostenere la necessità che gl'indiziati fossero imprigionati in provincia diversa. Si avanzò dalla controparte l'ipotesi che attraverso il processo l'assessore Dragonetti intendesse anzitutto colpire il prestigio del D., accusato di aver dato asilo in Atri e quindi coperto la fuga di Melchiorre a Napoli dove questi si sottraeva al mandato di carcerazione.
La vicenda giudiziaria si chiuderà con un indulto, ma è probabile che il prestigio della famiglia presso la corte fosse scosso, e può supporsi che la zelante attività spiegata dal D. e da Melchiorre per l'arruolamento delle milizie provinciali (1782) dovesse poi procurare loro una riabilitazione. Di fatto Melchiorre avrebbe ottenuto la nomina ad assessore militare per la provincia - trampolino alla successiva attività presso il Consiglio delle finanze di Napoli -, mentre al D. sarebbero stati attribuiti nel 1789 "grado ed onori di presidente di Camera togato".
Il conflitto allora apertosi tra i laici municipalisti di Teramo ed il vescovo avrebbe costituito un polo di tensione costante nella vita municipale fino alla rivoluzione del '99, coinvolgendo sia pure a livello diverso il D. e Melchiorre nella vicenda repubblicana. Da parte sua Melchiorre avrebbe con successo combattuto a Napoli gli arbitrî dell'assessorato non collegiale, riottenendo per Teramo nel 1787 il tribunale collegiato di cui la provincia era stata privata per aver appoggiato gli Austriaci nell'invasione del 1744.
Secondo il Palma l'amministrazione dell'allodiale, improntata a disinteresse ed a larghezza di disponibilità dal proprio, non avrebbe fruttato al D. alcun personale vantaggio; il Palma accoglieva probabilmente giudizi costruiti nell'ambiente per difendere la reputazione del D. da serpeggianti malevolenze e comunque per promuovere gratificazioni napoletane. Recenti ricerche (condotte sul fondo Allodiali dell'Archivio di Stato di Napoli da G. Incarnato) hanno invece posto in evidenza che non mancarono attriti tra il D. ed i superiori organi napoletani (Camera della Sommaria, Giunta degli allodiali).
Fino al 1771 il trapasso dell'amministrazione non lascia traccia nelle carte napoletane; il ritardo di tre anni nel presentare il primo inventario e bilancio contabile della gestione provocò un sollecito dalla capitale e non ottenne l'esito atteso; il D. rifiutò inoltre di versare la "cautela" di 5.000 ducati all'atto dell'assunzione dell'incarico in garanzia patrimoniale degl'ingenti capitali affidatigli: si tratta d'indizi di una generale impotenza dell'amministrazione centrale nei confronti degli arrendatori, ma anche - è il giudizio di Incarnato - del carattere del D. e dell'arroganza e degli arbitri del suo ceto nei confronti del patrimonio fiscale. Altre e più gravi irregolarità lo stesso autore ha creduto di rilevare ipotizzando che nelle vendite dei grani allodiali il D. agisse in combutta con i locali monopolisti di questo commercio, i Nolli, i Farina ed i Baccher, anche ad esclusione dei minori commercianti teramani e a rischio che questa piazza rimanesse sfornita di frumento. In contrasto con Ferdinando Galiani, che nel ruolo di fiscale interino della Giunta degli allodiali aspirava al massimo concorso di compratori ed al massimo utile per il Fisco, la condotta del D. è apparsa "ispirata al criterio di non sopportare inframmettenze nella sua gestione e negli accordi sottobanco con i monopolisti. La regione teramana era nell'ottica del D. una sorta di grossa fattoria ad indirizzo monoculturale legata alla pratica mercantile - ormai sancita da secoli di esperienza - di svendere tutto il prodotto in blocco ad un solo mercante in modo da realizzare un guadagno sicuro e non avere problemi di immagazzinamento e conservazione delle scorte" (Incarnato).
Altro elemento marcante dell'amministrazione atriana era costituito dalla risicoltura allora assai diffusa nei territori costieri dell'allodiale, dove i fiumi tendevano ad impantanarsi favorendo tale coltivazione. L'ammontare annuo della produzione, praticata su duemila moggia di terreno, è indicata da M. Delfico in ottomila cantara, per un importo di circa 50.000 ducati (Nardi).
Attuata con criteri del massimo utile feudale basato sullo sfruttamento della privativa delle acque e sui privilegi di estrazione, ambita dalle popolazioni rurali cui consentiva l'accesso ad una produzione facilmente smerciabile, essa provocava però insalubrità ed alta mortalità nei territori. L'atteggiamento dei Delfico nei confronti della risicoltura provinciale non appare rettilineo: una Memoria di Melchiorre sulla coltivazione del riso nella Provincia (1783), diretta al re per tramite del Consiglio delle finanze, è ispirata ad istanze mercantilistiche: trattandosi di produzione pregiata e destinata all'esportazione, capace di immettere numerario in una provincia per il resto assai scarsa di commercio e di circolazione monetaria, la risicoltura è indicata come unica risorsa suscettibile di favorire lo sviluppo economico. Al corrente filantropismo la Memoria fa solo concessioni minori laddove auspica una più rigorosa riconfinazione delle colture rispetto agli abitati - ciò che era già stato sancito con decreto del 1763 e che impegnerà il D. ancora nel 1788 -; né sono sostanziali le cautele suggerite per impedire l'imputridimento dei terreni. Più significative invece le proposte abolizioni dei diritti privativi sulle acque e dei privilegi di estrazione, tenuto conto che per essere stati gl'introiti feudali incamerati dal Regio Fisco il D. era preposto alla loro amministrazione. Ma nel corso degli anni '80 si fa strada nella mentalità provinciale un indirizzo diverso e più spiccatamente agricolturista, orientato a destinare i terreni già addetti ai risi ed agli "stucchi" ad un sistema agrario più moderno e diversificato, in cui sono privilegiate le coltivazioni di grano, olivo, vite, canapa, e che presuppongono recinzioni inarginamento delle acque, appoderamento e coltivazione a colonia, allevamento stanziale, rotazione nelle colture, sul modello della Marca ascolana: ad un tale mutamento di prospettiva sono presumibilmente da ricondursi le più radicali riforme nei regimi territoriali della provincia che Melchiorre aveva introdotto con la campagna per l'abolizione dei "Regi Stucchi", cioè dei vincoli alla pastorizia transumante esistenti nel basso Abruzzo. La crescente sensibilità agricolturista trova espressione nei Saggi su l'agricoltura, arti e commercio della provincia di Teramo... di G. F. Nardi (Teramo 1789), e s'incanala nelle Società economiche che nel 1789 vengono istituite nelle tre province abruzzesi come promanazioni del Consiglio delle finanze.
Segnalato tra gli esponenti della cosiddetta "rinascenza teramana", l'intimità con il fratello Melchiorre introdusse il D. alle conoscenze napoletane di questo, avvenne così che le residenze allodiali di Atri e di Giulianova ospitassero visitatori di riguardo; tra di essi il naturalista veneto Alberto Fortis, che Melchiorre aveva conosciuto nel circolo napoletano dei Di Gennaro attorno al 1780 ed a cui si legò di duratura ed intima amicizia. Fortis soggiornò ad Atri nell'ottobre 1782 durante le esplorazioni del regno meridionale che lo portarono alla scoperta della nitriera naturale, il Pulo di Molfetta, ed ai primi tentativi di sfruttamento di questa.
L'amicizia sarà determinante per l'indirizzo degli studi del figlio del D., Orazio, che dal 1788 al '90 compì il curriculum presso l'università di Pavia. Una lettera di M. Torcia, datata Napoli 4 apr. 1789, in risposta all'annuncio fattogli dal D. di una "importante scoperta di statuaria Picena" comprova il fervore anche archeologico di questo momento e l'interesse che il gruppo teramano riusciva a richiamare dall'esterno. Dopo il Codronchi, che nel settembre 1788 venne a stabilire le Società patriottiche nelle tre province abruzzesi, le visite di scienziati ed altre personalità si fecero più frequenti: così L. Spallanzani - mobilitato dal Fortis per predisporre il soggiorno di studio di Orazio e dell'aio di questo B. Quartapelle a Pavia (lettere del 12 febbr. ed 11 marzo 1788 in Illuministi italiani, VII, pp. 377 s.) - passava nella provincia rientrando in patria (lett. di V. Comi a B. Quartapelle, Napoli, 7 nov. 1788, in Opere complete di V. Comi, Teramo 1908, p. 18); ed ancora l'ab. A. De Giorgi Bertola (lettera al D. da Napoli, 7 ag. 1790, in Opere compl. di M. Delfico, IV, p. 178) ed il mineralogista Cermelli (lettera di M. Delfico a Fortis del 26 giugno 1788).
Tra il 1790 ed il '95 avvengono le prime lottizzazioni e vendite dell'allodiale di Atri secondo lo schema proposto da Melchiorre Delfico (in burgensatico, per lotti ed all'asta), a cui anche il D. si dimostra favorevole.
La consistenza delle vendite effettuate in questo periodo - che certo investono il territorio di Giulianova - non è ancora ben nota: si tratta comunque di una tappa interessante della vicenda fondiaria e proprietaria provinciale, agli effetti della costituzione di una più estesa e meglio connotata media proprietà borghese: tanto più che queste vendite precedono di alcuni lustri l'eversione feudale napoleonica e forniscono il modello per una direttiva generalizzata di alienazioni dei feudi devoluti dei Regno, di cui si compiono in questi stessi anni i primi procedimenti (Caroviglio, Serranova, Policoro, Massafra, Decorata). Gli esponenti del nuovo ceto proprietario diverranno ben presto i protagonisti dello sviluppo agrario provinciale ed i rappresentanti politici del nuovo regime.Il riflusso politico seguito nel Regno all'estendersi del movimento rivoluzionario francese, mentre investiva nuovamente Melchiorre accusato nel '93 di miscredenza e di giacobinismo, non toccava per il momento il D., incaricato dal governo di promuovere i reclutamenti e gli approvvigionamenti di questa provincia di frontiera in previsione di una invasione franco-cisalpina: ne otterrà in riconoscimento la croce di commendatore dell'Ordine costantiniano (7 ag. 1797).
Dal 27 sett. 1798 tutta la famiglia Delfico era agli arresti domiciliari nella casa di Teramo per presunte intelligenze con personalità del giacobinismo oltreconfine.
Sembra che la nuova persecuzione fosse originata da risentimento del duca della Salandra, comandante l'ala destra dell'armata napoletana di stanza in Teramo, e dal vescovo Pirelli già da lungo tempo manifestatosi ostile alla famiglia. L'indizio era costituito da lettere intercettate presso una inserviente della giovane moglie ascolana di Orazio, Diomira Mucciarelli, al rientro di questa nella Marca.
Liberati dal contingente d'invasione franco-cisalpino del gen. Rusca l'11 dicembre, mentre Melchiorre assumeva senz'altro la presidenza della Municipalità repubblicana (cfr. lett. a Fortis, Teramo, 30 germinale 1° della Repubblica, in Opere complete di M. Delfico, IV, pp. 112 s.), il D. poté documentare autodifensivamente di avere allora rifiutato una liberazione che non gli veniva dal re a cui rimaneva fedele. Durante la sollevazione sanfedista teramana del 18-19 dic. 1798 culminata con la cacciata dei Francesi e col saccheggio delle case dei più noti giacobini (Thaulero, Tullj, Nardi, Quartapelle, Mazza) e del laboratorio chimico del Comi, mentre Melchiorre riusciva a stento a sottrarsi al furore delle masse, il D., affacciatosi ad una finestra in divisa militare e coccarda borbonica, non solo evitava il saccheggio della loro casa, ma veniva acclamato dal popolo preside interino della città. Riconquistata Teramo dai Francesi qualche giorno più tardi (24 dicembre), la mediazione dello stesso riusciva ad impedire che la città fosse messa a ferro e a fuoco: segno che la potenza ed il prestigio della famiglia, ed un certo giuoco delle parti, lo predisponevano ad una mediazione politica, impedendo estreme ritorsioni anche nei confronti del vescovo Pirelli ritenuto capo del locale sanfedismo. Nei mesi successivi, mentre Melchiorre era chiamato ad incarichi di maggiore responsabilità in provincia e a Napoli, anche il D. fu coinvolto nelle vicende repubblicane. Partecipò all'erezione dell'albero della libertà nella piazza di Sopra di Teramo ed al banchetto patriottico del 24 genn. 1799. Le cronache locali riferiscono che il 7 febbraio "con allegra brigata si reca[sse] a far baldoria nel casino suburbano del vescovo Pirelli e con una pignatta incensa[sse] un ramo d'albero infitto a terra simboleggiante l'albero della libertà" (Cronaca De Jacobis, in L. Coppa Zuccari, L'invasione francese..., III, p. 97). Quando le truppe d'occupazione francesi abbandonarono la Città (28-29 apr. 1799), impedì nuovamente che Teramo fosse saccheggiata e che fossero commesse uccisioni.
Rimasto nella provincia mentre il fratello Melchiorre prendeva la via dell'emigrazione al seguito delle truppe francesi in ritirata, nei mesi successivi il D. si trovò esposto ai colpi dell'anarchia sanfedista: prima eletto presidente del tribunale provvisorio dai capimassa Fontana (2 maggio '99), poi destituito ed arrestato dal capomassa Pronio (24 giugno), infine, ristabilita l'autorità regia nella provincia ad opera del preside G. B. Rodio, arrestato per giacobinismo (12 settembre), fu condannato a venti anni di fortezza da scontarsi nei castelli di Puglia. Escluso dall'indulto del 1800, venne 30 maggio trasferito a Barletta il 20 ag. 1800 con altri maggiori giacobini teramani.
Nel Notamento dei rei di Stato della provincia di Teramo redatto dal Rodio nell'ottobre 1801 il D. si trova indicato come uno de' primi cospiratori, col fratello e figlio, contro la Monarchia fin dall'anno 1775. "Procurò di sostenere il governo [rivoluzionario] con ogni sforzo e non vi è mezzo, che non tentò per mostrare il suo sentimento deciso per la Democrazia; fu condannato ad anni venti di esilio; fu trasportato nei castelli di Puglia, da dove è sortito con l'ultimo indulto generale" del 10 febbr. 1801.
Il D. manifestò la sua convinta adesione al regime napoleonico instaurato nel Regno nel 1806 in un Discorso ... letto in occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla città e provincia di Teramo, tenuto il 29 giugno e pubblicato nella Relazione della festa celebrata ne' dì 28, 29 e 30 giugno 1806 pel giuramento... (Teramo 1806).
Mentre il fratello Melchiorre richiamato da Giuseppe Bonaparte rientrava a Napoli per assumervi l'incarico di consigliere di Stato (3 giugno 1806) e per una nuova fase di attività ministeriale, il D. otteneva posizioni di rilievo provinciale: inviato con altri deputati all'Aquila nel maggio 1807 per invitare Giuseppe Bonaparte a Teramo; deputato a Napoli a presentare al nuovo re Gioacchino Murat l'ossequio della cittadinanza teramana (settembre 1808); nominato dal re presidente del collegio elettorale della provincia nelle elezioni da tenersi nel 1811, il 10 marzo ne apriva la seduta con un discorso rivolto all'intendente; era socio corrispondente dell'Accademia regia di storia e di belle lettere. Presidente della Società agraria della provincia in un periodo di persistente tensione intellettuale della borghesia locale sulla scia della esperienza prerivoluzionaria - V. Comi era nello stesso periodo segretario perpetuo della stessa - , teneva nel giorno dell'inaugurazione (1° nov. 1810) un discorso inserito negli Atti dell'installamento delle Società agrarie nel Regno (Napoli 1810, pp. 65-74), di orientamento fisiocratico; altro ne teneva nella seconda tornata (6 genn. 1811), segnalato dal Palma (V, p. 314).
Le sue qualità di filologo e di archeologo locale restano affidate ad un elegante volume: Dell'Interamnia Pretuzia. Memorie di G. B. Delfico presidente della Società di agricoltura della provincia di Teramo e socio corrispondente della Reale Accademia di storia e di antichità (Napoli, Stamperia Reale, 1812), anch'esso inteso a promuovere il patriottismo e l'iniziativa economica provinciali, vantando le antiche glorie.
In dieci capitoli, l'opera contiene saggi sulle denominazioni italiche e sulla colonizzazione romana, sulla rete viaria consolare e municipale e sugli antichi centri di commercio, sulla distruzione di Teramo nel XII sec.; riproduce il testo della descrizione della città fatta dal vescovo Campano al card. Papiense attorno al 1475: De felici Campani statu, et urbis Interamniae, seu Terami situ atque iucunditate Interamniae Praetutiorum; presenta inedite epigrafi raccolte dall'autore nell'agro pretuziano o conservate nei locali monumenti; riproduce infine le Osservazioni di Orazio Delfico su di una piccola parte degli Appennini nella provincia di Teramo indirizzate allo zio marchese Filippo Mazzocchi.
Il D. morì a Teramo il 17 febbraio del 1814.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Teramo, Fondo Fam. Delfico, non catalogato; Teramo, Bibl. prov., Fondo M. Delfico, non catalogato; San Marino, Bibl. govern., Fondo M. Delfico, passim; Teramo, Bibl. prov., Cronaca teramana di G. Tullj, 1798-1814 (manoscr.), passim; Ibid., Fondo M. Delfico, Della persec. subita dalla fam. Delfico nel 1799. Memoria (ms.); Arch. di Stato di Napoli, fondo Allodiali, serie III, fasc. 93, 96, 104 s., 108, 114, 116. G. De Filippis Delfico, Della vita e delle opere di M. Delfico, Napoli 1836, pp. 47, 53, 55, 58 s., 69, 95, 97 ss., 102 s.; N. Palma, Storia eccles. e civile della ... città di Teramo e diocesi Aprutina…, Teramo 1893, III, pp. 333, 371, 416; V, pp. 212 ss.; C. Campana, Un periodo di storia di Teramo..., Teramo 1911, p. 9, 11, 13, 17 s., 20, 44, 70, 86, 95 s., 204 ss.; M. Delfico, Opere complete, a cura di G. Pannella - L. Savorini, Teramo 1901-1904, ad Indicem; F. Savini, Le famiglie del Teramano, notizie storiche sommarie tratte dai documenti e dalle cronache, Roma 1927, p. 68; L. Coppa Zuccari, L'invas. francese degli Abruzzi (1798-1815), I-II, L'Aquila 1928, III-IV, Roma 1939, ad Indices; Id., Notamento dei rei di Stato delle provincie di Chieti e di Teramo, Teramo 1962, ad vocem; F. Balsimelli, Epist. di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, in Libertas perpetua, II, 1 (ott. 1933-apr. 1934), e 2 (apr-ott. 1934), estr. San Marino 1934, passim; G.De Caesaris, M. Delfico, nel primo centen. della morte, in Atti del XXIII Congr. di storia del Risorg. it., Roma 1940, pp. 78, 80, 84 s., 87-91, 93 s., 103, 123 ss., 127, 129 s., 134; Illuministi italiani, a cura di F. Venturi, III, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, Milano-Napoli 1959, ad Indicem; V, Riformatori napoletani, ibid. 1962, ad Indicem; G.De Lucia, La Società patriottica della provincia di Apruzzo Ulteriore 1° (Teramo): 1788-1798, in Riv. di storia dell'agric., V (1965), 3, pp. 7 s., 12 s., 24, 32 s., 36, 38 dell'estratto; V. Clemente, L'Istituto archeol. germ. di Roma e i corrisp. abruzzesi (1829-1838): spunti sulla scoperta romantica degli Abruzzi, in Centro di ricerche stor. "Abruzzo teramano", Atti del 3° Convegno: Viaggiatori europei negli Abruzzi..., Teramo 1975, pp. 220, 224; G.Incarnato, Grano, riso... e riforme nel Teramano nella seconda metà del sec. XVIII, in Problemi delle campagne merid. nell'età moderna e contemporanea, Bari 1981, pp. 357-366, 368-374; Id., Crisi signorile, ripresa regia e speranze borghesi nel tardo Settecento teramano, in Aprutium, a. 0, n. 0, maggio 1982, pp. 22-23, 31-33; V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798), Roma 1981, ad Indicem; Id., Risi, Stucchi e vendite allodiali: momenti della defeudalizzazione e della riorganizzazione proprietaria borghese in provincia di Teramo negli ultimi decenni del Settecento, in Riv. stor. del Mezzogiorno, XVII-XVIII (1982-83), pp. 3-23; Id., Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane (1711-1831), Roma 1984, ad Ind.; Id., Cronache della defeudalizz. in prov. di Teramo: l'abolizione dei regj Stucchi e Poste d'Atri (1786-1824…),Roma 1988, passim.