BEMBO, Giovanni
Secondo dei cinque figli di Agostino di Benedetto e di Chiara Del Basso, nacque a Venezia il 21 ag. 1543. Famiglia d'antichissima nobiltà la sua, la cui non più florida situazione economica si stava risollevando grazie alle sostanze del nonno materno Bonadio, un ricchissimo mercante di drappi di origine bergamasca.
Robusto di complessione, il B. fu avviato, appena dodicenne, alla vita di mare: "ancor fanciullo passaste dalla quiete delle piume a' moti procellosi dell'onde, da gli agi della Patria a' disagi del mare, et provaste prima i pericoli dell'acque, che conosceste le delitie della terra", gli dirà con enfasi Agostino Onigo, "ambasciator della città di Trivigi", nell'Oratione... nella sua essaltatione al principato (edita a Venezia, poi a Treviso nel 1616). Sopracomito di galera nella guerra antiturca (1570-73), si distinse nella battaglia di Lepanto, ove, nonostante le ferite riportate, catturò tre galere nemiche; partecipò quindi alla presa di Sopotò e di Margariti, e, agli inizi del 1572, a un tentativo d'impadronirsi di Santa Maura; altre imbarcazioni sottrasse al Turco nei pressi del golfo di Lepanto. Dal 1577 al 1579 fu capitano della guardia a Candia: suo compito in particolar modo era quello della sorveglianza delle coste dell'isola, insidiate dai corsari. Governatore poi delle "sforzate", continuò la lotta contro la pirateria come capitano del Golfo dal 1581 al 1583: "con grandissima diligenza ho atteso a tener netto questo Colfo da' corsari" dichiarava in Collegio il 1° febbr. 1584 (Arch. di Stato di Venezia, Collegio Secreta, Relazioni, b. 63, cc. 84r-85v). Tornato a Candia in veste di capitano generale, vi rimase dal 1588 al 1591, occupato soprattutto a dirigere il rafforzamento delle fortificazioni, la costruzione di terrapieni e i lavori di scavo volti a evitare l'interramento del porto principale (ibid., b. 81, n. 12).
Provveditor d'armata tra la fine del 1591 e l'inizio del 1595, il B. presentò al Senato una relazione (Relation de ser Zuanni B. provveditor dell'armata presentata alla Signoria il 25 apr. 1595; fu pubblicata a Venezia nell'anno 1875 per le nozze Dionisi-Bembo) per molti versi interessante: oltre a suggerire un più funzionale controllo e un più accurato contenimento delle spese, che avrebbero permesso d'aumentare gli stipendi, il B. denunciava con vigore i metodi poco scrupolosi e i guadagni esorbitanti dei "barbieri" (cui spettava l'assistenza sanitaria a bordo), spesso avidi e venali.
Nel 1596 sostenne, per poco, il provveditorato generale della fortezza di Palma: costretto a letto da un'infermità, il Senato gli concesse la licenza e lo sostituì con Marcantonio Memmo. Cattive condizioni di salute lo afflissero anche durante il suo provveditorato generale nel Golfo, Dalmazia e Albania (1597-98): frequenti gli accenni nelle lettere indirizzate al Senato (Arch. di Stato di Venezia, Senato. Lettere provveditori da Terra e da Mar, f. 1263) alla "febre assai più gagliarda del solito", al "cattivissimo stato di salute". Ciononostante, proseguì con vigore l'energica condotta del predecessore Almorò Tiepolo, morto a Zara nel pieno della sua azione contro gli uscocchi.
La decisa repressione iniziata dal B. indusse l'imperatore Rodolfo a chiedere a Venezia una tregua; ma, se non altro, per la mancata collaborazione dell'arciduca di Graz Ferdinando, la sua richiesta appariva sempre più come una manovra dilatoria. Pertanto, di fronte ai rinnovati, crudelissimi, attacchi degli uscocchi, il B. riebbe libertà di movimento: di qui dure rappresaglie, tra cui il blocco del commercio arciducale, la sorveglianza il più possibile rigida delle coste, le spietate esecuzioni di quanti tra i pirati gli capitavano tra le mani, l'espugnazione di Novi, feudo dei conti Frangipani, sudditi arciducali che davano ricetto ai corsari. Né gli uscocchi erano da meno: a Rovigno saccheggiarono una galera e dieci navi cariche di mercanzia, a Veglia sorpresero cinque barche d'albanesi, che trucidarono tutti. Nel febbraio del 1598 il B. fu sul punto di sterminarli: era riuscito infatti a bloccare gli uscocchi, reduci da una razzia ai danni dei Morlacchi, a Rogosnizza, nei pressi di Sebenico, e i Turchi a loro volta si apprestavano ad impedime lo sconfinamento nei loro territori. Chiusi così per terra e per mare, essi si videro perduti; ma, con la forza della disperazione, la notte del 17 febbraio, approfittando di un impetuosissimo scirocco, "sicuri della loro rovina, si risolsero - narra il B. nella Relation... presentata e letta nell'eccellentissimo Senato a' dì 12 settembre 1598 (pubblicata a Venezia nel 1875, per nozze Dionisi-Bembo) - più tosto, pigliando il vento in puppa, di mettersi al pericolo di affogarsi tutti, che di stare ad aspettarmi per combattere". La fortuna arrise alla loro temerità: il vento e la notte favorirono la fuga frammezzo alle galere venete: "Si può concludere - scriveva il B. - che il signor Iddio, per cause secrete, non habbia voluto permettere, che seguisse quella fattione, la quale veniva a riuscir segnalatissima con estirpatione di quella pessima gente". Sempre in questa relazione denunciava al Senato la situazione della Dalmazia, che trovò "veramente molto afflitta e travagliata, et ridotta in un misero stato di povertà"; scarse simpatie vi godeva la Repubblica, specie da parte dei nobili.
A Venezia, dopo esser stato savio grande e consigliere, il B. fu elevato, il 14 ag. 1601, alla dignità di procurator de ultra, in luogo di Alvise Giustinian, e nel gennaio 1607 fu eletto capitano generale da Mar. Non a tutti, però, data la particolare gravità della situazione, la scelta di lui apparve felice: Antonio Querini lo definiva "soggetto nella professione marittima di lunga et invecchiata esperienza, ma giudicato da molti miglior operatore et essecutore de gl'ordini altrui che rettore e capo supremo di quei consigli che a carica così grande si ricercavano" (C. P. de Magistris, Per la storia del componimento della contesa tra la Repubblica veneta e Paolo V [1605-1607], Torino 1941, p. 282).
La notevole flotta, la cui direzione gli era stata conferita, era destinata a parare eventuali violazioni spagnole della giurisdizione dei Golfo che la Repubblica temeva si verificassero, con la complicità della S. Sede, e l'aperto incitamento di alcuni membri della Curia, in concomitanza a un'azione aggressiva scatenata sul confine occidentale dal conte di Fuentes, governatore di Milano. Ma il ricomporsi della contesa con Roma toglieva ogni pretesto alla Spagna, alla quale il permanente conflitto nei Paesi Bassi sconsigliava di disperdere altrove le forze; per cui, a differenza dell'anno precedente, non entrarono nel Golfo navi armate spagnole. Le operazioni del B. quindi, che aveva fatto di Corfù la sua base, si limitarono a una funzione utilmente dimostrativa, a preoccupare, senza peraltro mai provocare, gli Spagnoli con vari spostamenti nello Ionio (Arch. di Stato di Venezia, Senato. Lettere provveditori da Terra e da Mar, f. 1077). Al suo ritorno, nella relazione del 12 genn. 1608 (Ibid., Collegio Secreta. Relazioni, b. 75, n. 2), vantava il suo operato volto, malgrado le "gravissime indispositioni" fisiche, "alla riputatione et sicurezza delle cose publiche", a "consolare li sudditi", a "mantenere libera la navigatione", a "dar buona regola et forma alle cose dell'armata". Ma le esplicite lagnanze per la mancanza di chiare disposizioni da parte del Senato - i cui "ordini ambigui et oscuri" lo avevano posto "in gran travaglio" -, se testimoniano la tensione e confusione del momento, confermano quanto aveva osservato Antonio Querini, come cioè difettassero al B. le eccezionali doti di decisione che la carica in quelle circostanze esigeva.
Nel 1612 il B. fu tra gli elettori del doge Marcantonio Memmo, ma già allora era tra i concorrenti alla massima carica dello Stato. Né molto doveva attendere per esserne investito: morto il 31 ott. 1615 il Memmo, gli elettori, per la manifesta impossibilità che riuscisse uno dei quattro principali candidati, si accordarono finalmente, il 2 dicembre, sul suo nome. Conclave lunghissimo quello da cui risultò eletto, che, in ventiquattro giorni, vide ben 114 votazioni, malgrado le pressanti intimazioni della Signoria sollecitante una rapida scelta, poiché la vacanza dogale paralizzava tutta l'attività politico-legislativa. Frutto appunto della minaccia di convocare il 3 dicembre il Maggior Consiglio, "perché prendesse al riguardo le più opportune deliberazioni", fu l'imprevisto confluire dei voti sul B., il quale venne così ad usufruire dell'incapacità degli opposti gruppi di far prevalere il proprio candidato.
D'altra parte, una figura politicamente scialba quale quella del B. - che, privo ormai d'ambizioni, pago di quanto aveva fatto, trascorreva una placida esistenza in villa - era tale da non attirare né provocare rancori, si prestava a una soluzione di compromesso. E la sua lunga milizia marittima non lo rendeva indegno dell'altissima carica: "era ben giusto - si complimentava con lui Francesco Contarini in un'Oratione (una delle tante in onore del nuovo doge, pubblicata a Venezia nel 1616) - che chi per lo spatio di quaranta e più anni haveva sempre comandando pellegrinato, finalmente nel porto della sua patria reggendo sedesse". Era per di più, grazie alla sua munifica generosità, caro al popolo: "grandemente amato dalla nobiltà, et più dal popolo il quale sì come istraordinariamente lo desiderava per doge, così ne ha sentito grandissimo gusto", scriveva, il 5 dic. 1615, al cardinal Borghese il nunzio pontificio Berlinghiero Gessi (Arch. Segr. Vat., Dispacci del nunzio a Venezia alla Segreteria di Stato, f. 42 C, c. 175 r). Nei due anni e tre mesi del suo dogado, turbati dal conflitto gradiscano e dalle provocazioni spagnole, non si può certo affermare ch'egli si imponesse, né d'altra parte la carica stessa facilitava indirizzi e prese di posizioni individuali; solo personalità della forza di un Leonardo Donà erano state in grado di permetterselo. L'ambasciatore inglese Wotton scriveva che il B. era dotato più moralmente che intellettualmente; non eloquente, anzi impacciato e stentato nel parlare, di scarsa cultura, lento nell'intuire, incapace di approfondire, era tuttavia stimato per il dignitoso passato, il sincero patriottismo, la tranquilla devozione.
Andrea Morosini nell'Elogium fattone in obitu (Opuscolorum... pars prima, Venezia 1625, pp. 143-149) metterà in rilievo la sua "religio in Deum, ac pietas in Patriam". Idealmente affine al settore più moderato del patriziato, sostanzialmente immune da sia pur filtrate suggestioni sarpiane, il B. consentiva al nunzio di rassicurare la segreteria di stato sulle sue intenzioni: "Io credo - scriveva il Gessi il 19 dic. 1615 - che riuscirà prencipe di buona mente et, sebene è molto amatore della patria, non sarà però autore di pernitiosi consegli" (Arch. Segr. Vat., Dispacci del nunzio a Venezia ..., f. 42 C, c. 183 r).
Né questa previsione incontrò smentite; e sarà un beffardo rimprovero, cui seguì un'irriverente risata generale, mosso in Collegio al B. dal savio grande Sebastiano Venier perché troppo remissiva era stata una sua risposta al nunzio (il quale energicamente aveva protestato per le percosse inflitte da alcuni nobili a un benedettino), ad amareggiare - per i contemporanei addirittura ad affrettare - la fine del vecchio doge.
Tornato a casa cocentemente umiliato, cadde ammalato e, di lì a pochi giorni, il 16 marzo 1618, morì.
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