LEVALDIGI, Giovanni Battista Truchi conte di
Nacque a Marene, presso Savigliano, il 29 ag. 1617, da Gian Bartolomeo, secondogenito di cinque figli.
Il padre, notaio, fu consigliere comunale a Savigliano, dove rivestì anche, per breve tempo, la carica di sindaco. I tre fratelli maschi del L. seguirono percorsi ecclesiastici e militari. Domenico, lettore in leggi presso l'ateneo di Torino, diventò vescovo di Mondovì (1667) e fece costruire a Levaldigi l'abbazia di Sorba, oggi distrutta, su cui la famiglia esercitò il patronato. Cristoforo, entrato nell'Ordine domenicano, fu vescovo di Ivrea (1669), dopo aver svolto funzioni di agente diplomatico del duca Carlo Emanuele II di Savoia a Napoli e di priore nel convento di Tursi in Basilicata (1666). Michele Antonio, di cui le genealogie non offrono date di nascita e di morte, abbracciò il mestiere delle armi: partecipò a campagne militari in Italia, Fiandra e Spagna, fu nominato infine governatore della cittadella di Mondovì (1668) e comandante a Savigliano (1677); ottenne il titolo cavalleresco dei Ss. Maurizio e Lazzaro, venendo infeudato, con il titolo comitale, di una parte del feudo di San Michele di Ceva, acquistato con il Levaldigi. La famiglia aveva ottenuto la semplice "concessione d'arma", cioè il diritto di usare uno stemma, nella persona del nonno paterno, Domenico, ufficiale del Soldo a Savigliano, in seguito a patenti sottoscritte dal cardinale Maurizio di Savoia (2 nov. 1613). Lo zio del L., Gian Matteo, uno dei dodici figli di Domenico, fu anch'egli notaio e sindaco a Savigliano e ottenne l'infeudazione con titolo comitale sul feudo di Paglieres, che non riuscì tuttavia a trasmettere all'unico figlio maschio, morto in tenera età, e che lasciò quindi in eredità alla moglie, Bona Maria Salvio, prima che questa linea della famiglia si estinguesse. Fortuna assai diversa ebbe un altro zio paterno del L., il referendario Gian Giacomo, che nel 1693 fu giustiziato a Torino con il figlio Stefano, capitano, accusati entrambi di fellonia e aperta ribellione al duca.
Avviato alla carriera pubblica nell'ufficio di causidico presso il Senato di Torino, il L. - privo di laurea in giurisprudenza, che pure avrebbe desiderato conseguire - si mise presto in luce per la capacità nel comporre dissidi giuridici. Le sue nozze a Torino, il 7 genn. 1640, con Maddalena Quadro (morta nel 1702) dimostrano che, poco più che ventenne, il L. si era trasferito nella capitale, dove, nel volgere di un decennio, maturarono le condizioni per la carriera al servizio dei Savoia. Questa era stata sicuramente favorita dalla mediazione offerta dal cugino Gian Giacomo, il figlio secondogenito di Gian Matteo, che fu avvocato patrimoniale generale (1644), auditore generale di guerra (1657), secondo (1656) e primo presidente della Camera dei conti (1663).
La situazione economica piemontese presentava elementi di ripresa dopo una serie quasi ininterrotta di guerre e di momenti di profonda crisi istituzionale: la prima e la seconda guerra del Monferrato, nel 1613-18 e nel 1627-28; lo scontro con Genova, nel 1625-34; la guerra civile fra i madamisti (sostenitori di madama reale, la reggente Cristina di Francia) e i fautori dei principi cognati, il cardinale Maurizio e Tommaso di Savoia, nel 1638-42, con strascichi sino alla pace dei Pirenei del 1659, quando la Francia, Paese alleato ma anche occupante, desistette infine dalle incursioni contro le città lombarde. In tale fase di ripresa il L. riuscì a trasformarsi nel principale fautore e artefice dei piani di risanamento finanziario, auspicati da Carlo Emanuele II e dai successivi governi della seconda reggente, Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, e di Vittorio Amedeo II.
La strada era stata aperta al L. dal sistema della venalità delle cariche, in uso in Piemonte sino almeno ai primi anni del Settecento. Si sa infatti che il cugino Gian Giacomo, nel 1663, aveva versato 13.500 lire di Piemonte per ottenere la carica di primo presidente della Camera dei conti e che, due anni dopo, lo stesso L. versò 31.500 lire per occupare l'ufficio di presidente e generale delle Finanze, pur accollandone 23.625 a Maurizio Filippone, al quale aveva ceduto la carica di procuratore patrimoniale generale.
Fin dallo scorcio degli anni Cinquanta, stando all'attribuzione proposta da C. Rosso (in Merlin et al., pp. 253 s.), il L. si era messo in luce inviando alla reggente Cristina di Francia un parere (anonimo, in Arch. di Stato di Torino, Tutele e reggenze, m. 5, n. 11: Memoria a madama reale sul nuovo ordinamento del Piemonte).
Oltre a proporre linee di politica economica analoghe a quelle discusse, negli stessi anni, da altri consiglieri di madama reale, il parere suggeriva di introdurre un nuovo tipo di imposta, il sussidio militare, destinato a sostituire e razionalizzare una serie di tributi precedentemente riscossi a fini bellici. Il sussidio militare (che, come il tasso, gravava sui beni a catasto) si aggiunse allora al tasso e alla gabella sul sale e divenne uno dei principali cespiti delle entrate sabaude.
Nominato inizialmente consigliere e procuratore patrimoniale generale (16 marzo 1654), il L. passò alla carica di generale conservatore e sovrintendente giudice delle imprese e diritti (4 febbr. 1661). Il suo ruolo era tuttavia destinato ad acquisire importanza crescente a partire dalla nomina a presidente e generale delle Finanze (10 marzo 1665), seguita da quelle a primo presidente delle Finanze nonché capo del Consiglio delle finanze e di quello delle Fabbriche e fortificazioni (25 apr. 1673) e membro del Consiglio segreto di Stato (14 maggio 1680). Sotto il duca Carlo Emanuele II il L. aveva assunto, ormai, il controllo pressoché totale della gestione finanziaria piemontese. Conosciuto dai contemporanei con il soprannome con il quale era stato qualificato dall'ambasciatore veneto Caterino Belegno, "il Colbert del Piemonte", il L. era consapevole della differenza che lo separava dal ministro del re Sole e dalle risorse incomparabilmente superiori a disposizione della corte francese; e tuttavia molti ed evidenti risultarono i punti di contatto fra la sua azione e la prassi del mercantilismo europeo. Jean-Baptiste Colbert aveva preso il posto di Nicolas Fouquet, facendolo processare insieme con uno stuolo di finanzieri malversatori, analogamente al L., che esordì liquidando con una serie di inchieste e processi un finanziere corrotto, Carlo Antonio Violetta, e assunse la direzione diretta della riscossione del sussidio militare dall'esazione del quale Violetta si era indebitamente arricchito. Di impronta colbertiana era, del resto, la condotta politica del L., che inviò in più occasioni lettere e relazioni al duca sostenendo la necessità di introdurre bilanci preventivi annui, di dare impulso allo sfruttamento delle miniere, di promuovere le attività artigianali e manifatturiere, di incentivare il commercio marittimo con la valorizzazione di Nizza e del vicino scalo di Villafranca, il cui sviluppo, come ideale emporio dello Stato, fece temere, tuttavia, da ultimo la creazione di una nuova gerarchia fra le città sabaude, che avrebbe potuto nuocere al ruolo dominante rivestito da Torino. Il L. tentò di frenare, per quanto fu in suo potere, spese eccessive destinate all'ampliamento della capitale, che sottraevano fondi agli investimenti nel Nizzardo. I contatti da lui stabiliti con alcuni agenti inglesi in Italia al fine di favorire il potenziamento dello scalo marittimo portarono, nel 1669, alla stipula di un trattato commerciale con l'Inghilterra, che non avrebbe dato vita ad alcuna fattiva collaborazione: le ambizioni sull'ingrandimento di Torino erano incompatibili con la crescita del ruolo di Nizza.
Il potenziamento dell'accesso al mare avrebbe potuto dirottare verso Villafranca parte delle correnti di traffico che facevano capo a Genova e Livorno, liberando il Piemonte dall'antica alternativa tra l'inserimento nell'orbita economica francese e quello in area d'influenza spagnola. Le attrezzature di terra furono potenziate e, grazie all'esenzione dai diritti di dogana, il porto iniziò a richiamare un intenso traffico. Dopo un avvio promettente, l'attività portuale cominciò tuttavia a diminuire, mentre il riavvicinamento franco-inglese dirottò parte del traffico su Marsiglia.
Le scelte amministrative del L. inflissero un duro colpo ad antiche solidarietà di ceto, generando malumori tra la nobiltà feudale, che cercò di reagire alla politica di risanamento delle finanze locali, ritortasi contro i creditori e i beneficiari di censi o obbligazioni di vario genere. Le tensioni crebbero in occasione del conflitto con Genova, dichiarato da Carlo Emanuele II nel 1672 con il sostegno della vecchia aristocrazia militare. La posizione antibellicista del L. non riuscì a frenare le ambizioni di conquista del duca, il quale, ripresi gli scontri con Ginevra (1666-70), sopiti da una sessantina d'anni, si gettò in un'impresa destinata a incidere sensibilmente sugli equilibri fra i ceti dirigenti piemontesi.
La guerra riservò una cocente sconfitta alle truppe sabaude, a capo delle quali era stato posto il conte Catalano Alfieri, tra i più anziani e sperimentati comandanti dell'esercito di Carlo Emanuele II. Lo scontro aveva tratto pretesto da antiche liti di confine, che avevano fatto sperare al duca, in contatto con un patrizio avventuriero come Raffaele Della Torre, di potere scalzare l'oligarchia della città ligure, assicurandosi uno sbocco marittimo (forse Savona) più facilmente raggiungibile di Nizza. A dispetto dei costi esorbitanti (circa 7 milioni di lire piemontesi contro le poche centinaia di migliaia di lire impiegate nella risistemazione della politica finanziaria, secondo i calcoli di Bulferetti), l'impresa si risolse in un fallimento.
Contrario a quella campagna, come attestano alcune sue lettere inviate al duca nel 1672, il L. iniziò a essere oggetto nel 1674 di pesanti attacchi da parte dell'aristocrazia militare, che lo accusava di aver condiviso, con i funzionari della Camera dei conti e con i direttori delle province, atti di malversazione nella revisione dei bilanci comunali e di aver abusato del suo potere, essendo uomo privo di fede in Dio e nella legge, "tiranno della nobiltà, nemico della Chiesa, carnefice dei poveri", fedele solo nel "divino Machiavelli" e nell'"ateismo" (Torino, Biblioteca reale, Storia patria, 97: Discorso tra l'opinione e verità della corte di Savoia e ministri, di autore anonimo). Terminata la guerra contro Genova, i progetti mercantilistici furono ripresi con la creazione di una Camera di commercio, presieduta dal L. e diretta dal francese Philippe Bailly, che avrebbe dovuto ispirarsi al modello d'Oltralpe per istituire rigide norme corporative nel mondo delle arti e dei mestieri.
Di tale progetto si persero presto le tracce. Il frutto più duraturo della collaborazione del L. con Carlo Emanuele II furono gli incentivi alla diffusione della trattura serica con il mulino alla bolognese, che a partire dai primi anni Sessanta aveva iniziato ad affiancare gli impianti manuali, creando una nuova cooperazione fra mercanti, banchieri, investitori e tecnici. Il sostegno dello Stato allo sviluppo manifatturiero tendeva, in realtà, a favorire il Piemonte a scapito degli altri domini sabaudi, contribuendo ad allargare il divario fra il centro, più dinamico, e le periferie. Con la città di Torino il L. era entrato in trattative pochi anni prima della dichiarazione della guerra contro Genova. La pace del 1659 e i primi risultati della politica mercantilistica avevano favorito la crescita demografica ed economica della capitale, il cui bilancio si era giovato di entrate più certe e della molto minore frequenza delle richieste di donativi da parte del sovrano.
Dal 1669 al 1672 al L. toccò gestire l'unica vertenza di una certa gravità fra Stato e Municipio, per ottenere la restituzione di una parte delle gabelle che da oltre trent'anni la città aveva indebitamente trattenuto. Un uomo del L., il patrimoniale Gian Pietro Marelli, intentò una causa contro il Municipio, consentendo al L. di arrivare infine a una transazione grazie alla quale, in cambio di 225.000 lire versate al duca, sarebbe stato restituito alla città l'usufrutto delle imposte. In quegli stessi anni, fra il 1669 e il 1670, il L. dovette affrontare le conseguenze di una carestia che aveva impoverito le scorte delle città. Ordinato al Municipio di Torino di acquistare provviste di grano, promettendo il rimborso delle somme spese, impose ai governatori delle piazzeforti di trattenere in provincia i cereali strettamente necessari all'uso degli abitanti, facendone confluire il resto nella capitale: scelta che sanciva la preminenza di Torino in caso di emergenza, assegnando alla capitale un ruolo paragonabile a quello che, da secoli, era rivestito dalle maggiori città italiane. La stessa volontà spinse il L. a progettare intorno al 1670, in un promemoria intitolato Miei pensieri per la fondatione d'un collegio de' nobili (Arch. di Stato di Torino, Biblioteca antica, Mss., Jb.IX.11), un piano per aprire un nuovo istituto da affidare alla Compagnia di Gesù.
Il progetto anticipava, con illuminanti considerazioni sulla ricaduta economica, la decisione, che sarebbe stata presa alla fine degli anni Settanta dalla seconda reggente Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, di inaugurare quasi contemporaneamente il collegio dei nobili e l'Accademia reale, futura Accademia militare. La scalata alle cariche amministrative si accompagnò a un crescente ruolo del L. nel sistema degli onori sabaudi. Nominato cavaliere "di grazia" (25 maggio 1668, non avendo ancora titoli di nobiltà sufficienti) e cavaliere "gran croce" dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro (31 luglio 1668) - riconoscimento che lo inseriva, come altri membri della sua famiglia, in uno dei due ordini cavallereschi legati alla dinastia sabauda -, arrivò a rivestire la carica di vicecancelliere e consigliere mauriziano (26 giugno 1674), vedendosi assegnare i proventi delle commende di S. Marco di Chivasso (bolla del 28 maggio 1668) e di Stupinigi (1681). Parallelamente, grazie ad abili operazioni di compravendita di terreni, il L. era riuscito ad accumulare un piccolo patrimonio. Acquistò, come si è detto, con il fratello Michele Antonio, che ne fu infeudato, parte del feudo di San Michele di Ceva, venendo a sua volta infeudato, nel 1673, con il baronato della cascina "La Generala", così denominata dalla carica di generale delle Finanze che egli allora ricopriva; il terreno, smembrato dal patrimonio della città di Torino, era stato acquistato dal L. nel 1649, ed era destinato a essere sottratto ai Truchi, per essere riunito al Regio Patrimonio, nel 1722.
Nel settembre 1683, il L. fu infeudato, con il titolo comitale di Levaldigi presso Saluzzo, feudo di modesta entità messo all'asta dalla famiglia del conte Crotti e acquistato con atto notarile sottoscritto, per conto del L., dal cugino Carlo Giacinto (29 luglio 1683). Il 12 giugno 1673 era iniziata a Torino, su disegno dell'architetto Amedeo di Castellamonte, la costruzione del sontuoso palazzo che avrebbe preso il nome dal titolo comitale.
Gli atti di vendita, rogati fra il 29 marzo e il 5 sett. 1673, quando già i lavori edilizi erano stati avviati, avevano sottratto una vasta porzione di terreno ai padri agostiniani scalzi, in un'area adiacente la chiesa dedicata a s. Carlo Borromeo. Al palazzo, ultimato nel settembre-ottobre 1677, si accedeva da un prezioso portone d'ingresso, noto come "porta del diavolo", commissionato ad artigiani parigini e tuttora visibile, sistemato, secondo un progetto architettonico del tutto innovativo per la capitale sabauda, su un angolo smussato. L'edificio, in cui sarebbe stata raccolta una preziosa pinacoteca, fu inaugurato il 1° febbr. 1680, con una grande festa in onore della seconda reggente.
Il 6 nov. 1686, avendone ricevuta l'autorizzazione dall'arcivescovo di Torino Michele Beggiamo (16 febbr. 1685), il L. fondava, nella zona del Lingotto, sulla proprietà della Generala, un "priorato con cura d'anime" dedicato alla Vergine e a S. Giovanni Battista, dipendente dalla chiesa parrocchiale torinese di S. Eusebio. Nel 1693 il L. fece inoltre costruire l'altare maggiore della chiesa di S. Giuseppe dei ministri degli infermi (nell'attuale via S. Teresa, poco distante dal suo palazzo).
La carriera folgorante del L. si era intanto progressivamente eclissata per volere della reggente Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, che affidò la direzione della politica economica e finanziaria del Ducato ad Antonio Garagno, figura al centro di quel gruppo di banchieri e commercianti che dominavano ormai i settori della produzione e del commercio della seta. Per ottenere il sostegno dell'antica nobiltà feudale, la duchessa aveva infatti abbandonato i progetti di risanamento del bilancio intrapresi dal defunto marito Carlo Emanuele II e, sorda ai richiami del L. per un maggiore contenimento della spesa, aveva inaugurato un decennio di grande prodigalità verso le casate più illustri presenti a corte.
Il L. trascorse gli ultimi anni praticamente esautorato dal controllo degli uffici economici, avendo modo di pianificare attentamente la propria successione patrimoniale. Dettati ben quattro testamenti (26 giugno 1688, 7 aprile e 6 giugno 1691, 12 maggio 1693), in assenza di prole lasciò erede universale la moglie Maddalena, cedendo il feudo di Levaldigi al cugino Carlo Giacinto Truchi (figlio di Giovannino, fratello di Gian Bartolomeo), che fu investito con il comitato il 5 sett. 1698, l'anno prima della sua morte (5 nov. 1699); il feudo fu poi trasmesso per primogenitura alla discendenza maschile di Carlo Giacinto.
Il L. morì a Torino il 25 ag. 1698, e fu seppellito nel vicino convento di clausura delle cappuccine, in seguito distrutto, che si trovava nell'attuale via Alfieri, sotto la parrocchia di S. Eusebio (oggi S. Filippo).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Corte, Lettere di particolari, T, m. 32; Materie economiche, Commercio, cat. III, m. III: Discorso del presidente e generale delle Finanze Trucchi per lo stabilimento del commercio nel porto di Villafranca (1672); Camerale, Art. 86, par. 3 (1665); Torino, Arch. storico della Città, Ordinati, CXCVI, ff. 237-238 passim; CXCVII, ff. 8-189 passim; P.G. Galli della Loggia, Cariche del Piemonte e Paesi uniti, III, Torino 1798, pp. 166 s.; D. Carutti, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Torino 1856, p. 13; G. Claretta, Storia del regno e dei tempi di Carlo Emanuele II, duca di Savoia, Genova 1877-78, II, pp. 467-486; G. Prato, Le ambizioni commerciali e marittime di un ministro piemontese del secolo XVIII, in Miscellanea di studi storici in onore di Giovanni Sforza, Torino 1923, pp. 11-23; L. Bulferetti, Assolutismo e mercantilismo nel Piemonte di Carlo Emanuele II (1663-1675), in Memorie dell'Acc. delle scienze di Torino, s. 2, LXXIII (1953), pp. 180-264 passim; G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena 1957, pp. 242, 378, 381; E. Stumpo, Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma 1979, pp. 22, 140, 151, 179, 196 s., 261; D. Rebaudengo, Palazzo Levaldigi-Torino, Torino 1982; P. Merlin et al., Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, Torino 1994, pp. 254-259, 263, 410; Storia di Torino, IV, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), a cura di G. Ricuperati, Torino 2002, ad nomen; Torino, Biblioteca reale, A. Manno, Il patriziato subalpino, vol. TISS-TUR (dattiloscritto), pp. 317-319.