RAMUSIO, Giovanni Battista
RAMUSIO (Rannusio, Ramusius, Rhamnusius, Rhamusius), Giovanni Battista. – Secondo la Cronaca Ramusia di Girolamo Ramusio juniore, nacque a Treviso il 20 giugno 1485, da Tomaris Macachiò e da Paolo, figlio dell’egregius vir magister Benedetto e di Elisabetta di Stefano degli Uberti, nato a Rimini nel 1443.
Per la Cronaca, Paolo si trasferì a Padova nel maggio del 1458; ma la prima attestazione della sua presenza è in un manoscritto marciano da lui ricopiato tra il settembre del 1471 e il novembre del 1472. Nel settembre del 1474 partecipò con il fratello Girolamo al dottorato in utroque di Lorenzo Beraldi. Nell’atto risulta studente in iure civili, abitante in contrada S. Leonardo, a Padova. Si addottorò il 5 aprile 1481, e poco più tardi conseguì anche la laurea in diritto canonico.
Di lì a poco, e fino alla morte, Paolo Ramusio ricoprì l’incarico di giudice criminale al seguito dei rettori di Terraferma. Intanto consolidava la propria posizione nella società veneziana: importante fu, nel 1484, il matrimonio con Tomaris, figlia di Orsa Navagero, che gli diede, oltre a Giovanni Battista, Girolamo (m. 1488), Eugenia (anch’essa morta in tenera età), Cornelia (m. 1496), Livia e Faustina. Secondo la Cronaca, avrebbe avuto un altro figlio prima del matrimonio: Tiberio, morto alla nascita nel 1482. Gli sono attribuite diverse opere d’argomento giuridico, oggi perdute; ma è per i suoi interessi letterari che Ramusio fu annoverato tra gli esponenti minori dell’umanesimo veneziano del Quattrocento.
La riedizione latina, a sua cura, del De re militari (Verona, B. de Boninis, 1483) del conterraneo Roberto Valturio fu dedicata al signore di Rimini Pandolfo Malatesta, mentre il volgarizzamento dell’opera fu indirizzato a Roberto di Sanseverino, capitano generale dell’esercito veneto (Opera de facti e precepti militari, Verona, B. de Boninis, 1483). Anche a Marco Marin e a Giovanni Alvise Dandolo, quaestores patavini, dedicò un trattatello giuridico-morale, De ieiuniorum observatione (1481), per l’aiuto ricevuto negli studi; per Marco Marin scrisse anche una novella (1484), documento letterario delle peripezie tardo-quattrocentesche del volgare. I suoi versi latini, sparsi in vari codici e spesso legati alla cronaca politica (la guerra di Ferrara, la discesa di Carlo VIII, la guerra veneto-turca del 1499-1502), attestano la sua sintonia con l’ideologia dominante.
La Cronaca serba traccia delle sue relazioni con membri dell’aristocrazia veneziana, laddove afferma che Ramusio «fu amato grandemente» (c. 1v) da vari esponenti della nobiltà, tra cui Ermolao Barbaro, Girolamo Donà, Domenico Marin. Con quest’ultimo avrebbe collaborato, nel complesso scenario delineatosi dopo la morte del Valentino, per convincere i signori di Rimini a cedere la città alla Repubblica in cambio di Cittadella; per gratitudine, Pandolfo Malatesta gli concesse esenzione fiscale sulle sue proprietà nel territorio di Paviola e Persegara, poi denominati Villa Ramusia (Cronaca, cc. 1v-2r). La vicenda non è confermata da altre fonti, tuttavia l’esenzione fu goduta a lungo dalla famiglia. Testò il 27 giugno 1506 a Padova, ove abitava «in contrata burgi Patriarchatus» (Archivio di Stato di Padova, Notarile, Simon Pietro del Cortino, reg. 2792, c. 216r) a favore di Giambattista; morì a Bergamo il 19 agosto successivo.
Le buone relazioni costruite da Paolo influirono tanto sull’assunzione del figlio come ‘straordinario di Cancelleria’, il 28 maggio 1505, quanto sulla sua partenza per la Francia, l’ottobre seguente, come segretario dell’ambasciatore Alvise Mocenigo: un altro degli estimatori di Paolo, per la Cronaca (Donattini, 2007, pp. 322 s.).
La formazione di Giovanni Battista ebbe luogo a Padova. Qui, assecondando la volontà del padre (che nel testamento gli ingiunse di dedicarsi litteris graecis et latinis), intraprese per tempo lo studio dei classici. I versi con cui Pierio Valeriano gli ricordò i giorni giovanili trascorsi assieme a Padova autorizzano l’ipotesi che l’ambiente dello Studio fornisse al giovane Ramusio – fino al 1505 – non solo amici, ma anche maestri quali Calfurnio, Sabellico, e soprattutto Niccolò Leonico Tomeo.
In Francia, Ramusio restò fino al maggio del 1507; l’esperienza fu importante per l’apprendimento della lingua, e fors’anche per le relazioni avviate Oltralpe. Si tratta dell’unica missione documentata; tuttavia Ramusio ricoprì altre volte l’incarico di segretario d’ambasceria: lo attesta la lettera scrittagli da Paolo Manuzio, nel 1553, per congratularsi dell’elezione a segretario del Consiglio dei dieci, ricordando «tot peregrination[es] quas in Galliam, ad Helvetios, Romam, etiam ad hostes armis infestos, Reipublicae causa, suscepisti» (c. 82rv).
Per Marin Sanudo, fu ‘amicissimo’ di Francesco Fasolo, cancellier grande dal 1511, di cui pronunciò l’orazione funebre (Orationes..., 1559) nel gennaio del 1517. Durante il suo cancellierato fu eletto ordinario (30 aprile 1513), quindi segretario del Senato (30 gennaio 1516).
Il 5 giugno 1522 e il 10 novembre 1526 si candidò senza successo per la carica di residente, rispettivamente ‘in l’Arzipelago’ e a Milano. I Diarii di Sanudo sono l’unica fonte quanto alle mansioni svolte: Ramusio vi figura come segretario interprete per il francese e lo spagnolo; fa le veci del cancellier grande; legge per ore documenti e lettere in Senato. Nel maggio del 1521 fu inviato all’abbazia di Praglia, ove era in corso un travagliato capitolo generale della Congregazione benedettina di S. Giustina, per ammonire i monaci a non adottare innovazioni sgradite al governo. A fine novembre del 1530 incontrò David Reubeni, apostolo della riunificazione degli ebrei a Gerusalemme, allora a Venezia; dopo la relazione presentata da Ramusio, il Senato lo allontanò dalla città.
Il salario, dai 30 ducati annui iniziali, lievitò a 70 ducati nel 1518; 94 nel 1522; 149 nel 1553 quando, dopo la nomina a segretario del Consiglio dei dieci, passò a 250 ducati annui. I 52 anni di servizio dello Stato furono una struttura portante della sua biografia e della sua personalità: gliene venne uno stile di riservatezza e dedizione, ma anche il contatto quotidiano con il patrimonio di notizie confluenti a Venezia in un periodo di radicali trasformazioni dell’immagine del mondo. I doveri d’ufficio si intrecciarono poi sempre con interessi umanistici e scientifici, che gli valsero la lunga amicizia di alcuni tra i principali esponenti della scena culturale veneziana, da Andrea Navagero a Pietro Bembo a Girolamo Fracastoro.
Il rapporto con Navagero (a cui fu legato da lontani rapporti di parentela) si consolidò probabilmente durante gli anni padovani. In seguito, forse per suo tramite, Ramusio entrò in contatto con l’officina aldina nell’ultimo, denso periodo di attività (ottobre 1512-gennaio 1515), quando Marco Musuro per le opere greche e appunto Navagero per le latine furono i principali collaboratori di Aldo Manuzio, che nel 1514 dedicò a Ramusio l’Institutio oratoria di Quintiliano. Inoltre, di lì a poco, Aldo lo nominò tra i suoi esecutori testamentari. Le poche lettere di Navagero a Ramusio in questi anni (Cicogna, 1853) confermano un intenso lavorio su Quintiliano, ma anche su altri testi stampati da Manuzio (Columella, Virgilio, Lucrezio).
I contatti con l’ambiente aldino proseguirono anche dopo la morte del fondatore: Francesco d’Asola gli dedicò la terza deca di Tito Livio, nel 1519; Bernardino Donato, il Macrobio e Censorino uscito nel 1528. Quell’anno, forse su interessamento di Navagero, ambasciatore a Carlo V, Ramusio seguì la pubblicazione, presso gli eredi di Aldo, del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, nunzio pontificio in Spagna. Già il 9 aprile 1527 Castiglione aveva disposto l’invio del manoscritto a Ramusio, che si sarebbe poi incaricato di «parl[are] alli stampatori, e dar[e] ordine a tutto quello che occorrerà»; Ramusio condivise l’onere con Bembo, che rivedeva i ‘quinterni’ appena stampati per l’ultimo controllo (P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, 1987-1993, II, p. 494).
Anche la relazione di amicizia con Bembo iniziò assai presto. È probabile che per Bembo, portato lontano da Venezia dalle proprie scelte di vita, fosse importante poter contare sui buoni uffici di un membro della burocrazia di Stato. Ma questa non fu l’unica ragione di un rapporto complesso, nutrito da gusti e curiosità condivise.
La corrispondenza tra il futuro cardinale e Ramusio comprende una novantina di lettere del primo (tra il 1508 e il 1546), cui si aggiungono 45 lettere spedite da Ramusio a Bembo (luglio 1537-ottobre 1538: per lo più rapidi aggiornamenti sulle operazioni militari per la guerra della Prevesa). Fin dalle prime lettere, Ramusio è inserito nel gruppo dei più fedeli amici di Bembo (oltre a Navagero, Trifone Gabriele, il riminese Giovanni Aurelio Augurelli, Giovan Francesco Valier, Niccolò Tiepolo), da lui incaricati, tra febbraio e aprile del 1512, di rivedere la parte già composta delle Prose della volgar lingua. Da altre lettere, del pari riferibili al cantiere delle Prose, apprendiamo che anche Ramusio possedeva un codice di ‘canzoni degli antichi toschi’, richiestogli da Bembo tra il novembre del 1511 e il febbraio del 1512 (P. Bembo, Lettere, cit., pp. 55 e 57). Pubblicate le Prose, il 10 gennaio 1526, Bembo si rivolse a Ramusio per ottenere il sequestro di un’edizione contraffatta e la punizione dei responsabili (ibid., pp. 329 s., 334 s.). In altre occasioni, Bembo ricorse a Ramusio per questioni di ‘politica culturale’: tra agosto e ottobre del 1525 gli chiese di convincere i Riformatori allo Studio ad aumentare lo stipendio del filosofo Juan Montesdoch, intenzionato ad abbandonare Padova; le speranze di Bembo andarono deluse allora come nel 1532, quando pregò l’amico di intercedere presso lo stesso doge per la chiamata a Padova di Giovanni Andrea Alciato.
Ramusio considerava l’eredità classica in tutta la sua complessità, scientifica non meno che letteraria: lo dimostra la richiesta rivolta al collega Francesco Masser, in missione in Ungheria nel 1520, «di intender di le cose de qui, come sono libri, semplici et altre cose» (M. Sanudo, I diarii, XXVIII, coll. 539-542). Analoga richiesta di informazioni e libri traspare dalle cinque lunghe lettere inviategli da Navagero, ambasciatore in Spagna, tra il maggio del 1525 e il maggio del 1526.
«Fin in qui ho notato tutto il viaggio [...] sì ch’io vi porterò una buona Spagna», gli scriveva Navagero il 5 maggio 1525: ossia notizie su epigrafi e specie botaniche, e osservazioni sulla toponomastica antica, problema cruciale per la geografia del Rinascimento. Soprattutto, Ramusio richiedeva materiali sulle recenti scoperte americane: «Delle cose de las Indias qui non si truova niente di stampato, ma io con tempo vi manderò tante cose, che vi stancherò [...]. Vi scriverò anco di Panama, che mi chiedete», scrisse Navagero l’11 settembre 1525, precisando, il 31 maggio 1526, che «i libri spagnoli delle cose dell’Indie vi si manderanno quando si troverà commodità migliore» (Lettere di XIII huomini illustri…, 1561, pp. 665, 668). Navagero rientrò a Venezia nel settembre del 1528, portando con sé molti materiali, tra cui le Decades tres di Pietro Martire d’Anghiera (Alcalá 1516) e il Sumario de la natural hystoria de las Indias di Gonzalo Fernández de Oviedo (Toledo 1526). Lo stesso Navagero potrebbe aver procurato la Suma oriental di Tomé Pires e il libro sulle Indie orientali di Duarte Barbosa, che nel 1530 il geografo Jakob Ziegler scrisse di aver consultato a Venezia assieme alla descrizione dell’Africa di Giovanni Leone. Tutti questi testi sarebbero poi stati pubblicati nelle Navigationi et viaggi.
La morte improvvisa di Navagero, nel maggio del 1529, ebbe notevoli ricadute sulla vita di Bembo e di Ramusio. Il primo accettò dal Senato di Venezia (settembre 1530) l’incarico di storico pubblico già di Navagero, a cui si collegava la gestione del lascito librario del cardinale Bessarione.
Abitando a Padova, la collaborazione di Ramusio fu essenziale, sia per ricevere, uno dopo l’altro, i volumi dei Diarii di Sanudo, fonte principale delle Historiae venetae di Bembo; sia per gestire il prestito dei libri niceni, soprattutto dopo il trasferimento di Bembo a Roma per la sua nomina a cardinale, nel 1539. Solo nel 1543, con la nomina a bibliotecario di Benedetto Ramberti, Ramusio poté sgravarsi di un compito che gli aveva procurato anche qualche noia (P. Bembo, Lettere, cit., IV, pp. 335 s., 341 s.).
Inoltre, dopo la morte di Navagero, Ramusio iniziò a pubblicare – senza che il suo nome comparisse – testi legati ai viaggi di scoperta. Nell’ottobre del 1534, ‘in Vinegia’, fu stampato un Libro ultimo [...] de le Indie Occidentali, sulla conquista del Perù; solo in dicembre apparvero i volumi che logicamente precedono, il Libro primo e il Libro secondo delle Indie Occidentali, tratti rispettivamente dalle opere di Anghiera e Oviedo portate a Venezia da Navagero (Parks, 1955, pp. 136 s.) e corredati di un’ottima carta dell’America (Holzheimer-Buisseret, 1992). Per essa, e per il solo testo di Oviedo, i fratelli di Andrea ottennero (febbraio 1530) un privilegio di stampa ventennale. Questi testi fornivano ai lettori italiani la più aggiornata informazione disponibile sul Nuovo Mondo; il ruolo di Ramusio nell’operazione risulta evidente.
Nel gennaio del 1536, la presenza di Ramusio (o quella del suo futuro editore, Tommaso Giunti, nominato fin dal 1530 tra i conoscenti del segretario) è individuabile dietro la richiesta di privilegio per alcune opere, tra cui la prima parte della Historia general y natural de las Indias dello stesso Oviedo (Siviglia 1535) e il testo di Antonio Pigafetta, poi stampato quell’anno, certamente a cura di Ramusio, assieme alla relazione di Massimiliano Transilvano, con il titolo Il viaggio fatto da gli Spagnuoli atorno il mondo. Anche questi testi sarebbero confluiti nelle Navigationi.
Negli anni successivi, le testimonianze su raccolta e analisi dei materiali geografici si intensificarono. Dopo il 1535 fu in rapporti con i fratelli Hans (vescovo di Uppsala) e Olaf Månsson, giunti a Venezia dalla Scandinavia divenuta protestante: qui pubblicarono la Carta marina terrarum septemtrionalium (1539) che Ramusio fece pervenire a Gonzalo Fernández de Oviedo, storico delle Indie e governatore di Hispaniola con cui, dopo il 1534, intrattenne una corrispondenza (estesasi nel tempo a Fracastoro e Bembo; questi ne ebbe la relazione di Francisco de Orellana sul Rio delle Amazzoni, poi trasmessa a Ramusio). I vantaggi furono reciproci: oltre alla Carta marina, egli inviò a Oviedo materiali aztechi, avuti dall’ambasciatore spagnolo a Venezia, Diego Hurtado de Mendoza, fratello del viceré della Nuova Spagna. La relazione si tradusse altresì sul piano economico, con il varo di una società per il commercio di prodotti delle Indie, di cui Oviedo e Ramusio furono soci assieme al banchiere Antonio Priuli; l’accordo fu siglato a Venezia nell’agosto del 1538, per la durata di sei anni, rinnovabili (Gerbi, 1975). Nel 1538 Ramusio era alla ricerca dello scritto di Erich Walchendorff sulla Nidrosiensis diocesis (Trondheim), che avrebbe poi ottenuto da Alvise da Mula; il portoghese Damião de Goís gli procurò la relazione di Francisco Álvares (Navigazioni, a cura di M. Milanesi, 1978-1988, II, pp. 13 s., 79). Al ritorno da una missione in Fiandra presso Carlo V, nel 1541, Francesco Contarini gli portò un antico manoscritto della Conquête de Constantinople di Geoffroy de Villehardouin sulla quarta crociata, e fors’anche una serie di documenti ufficiali (le relazioni di Francisco Ulloa, Francisco Vásquez de Coronado, fra Marco da Nizza e altri), noti unicamente grazie alle Navigationi. Nel 1545, l’abate Gregorio Cortese ricordò il piacere recatogli dalle lettere di Ramusio, «perché per il più erano piene di avisi e nuove [...] delle Indie occidentali», e gli richiedeva copia di una «historia che voi già mi deste delle Sette Cittadi» (Fragnito, 1983, p. 457): forse la relazione di fra Marco da Nizza. Inoltre Ramusio affermò di essere stato in rapporto epistolare, «già molti anni sono» (Navigazioni, a cura di M. Milanesi, cit., V, p. 12), con un protagonista delle grandi scoperte, Sebastiano Caboto; certo è che il suo nome compare in un dispaccio (1551) di Peter Vannes, ambasciatore inglese a Venezia, come persona «whom Cabot put in trust», cui affidare le ricerche per il recupero di beni veneziani di famiglia (Tarducci, 1892, p. 413).
Tra il 1544 e il 1548 organizzò presso la propria abitazione un paedagogium per l’educazione dell’unico figlio, Paolo (avuto nel 1532 da Franceschina Navagero, sposata nel 1524, morta nel 1536), dei due figli del conte bergamasco Giangirolamo Albano e – dal 1546, su richiesta di Bembo – di Orazio Gualteruzzi. Gli studi comprendevano greco, latino, matematica, e «non veterem modo, sed recentem quoque istam et novam geographiam» (P. Bembo, Lettere, cit., IV, p. 560, lettera dell’8 aprile 1546); i maestri, che vennero ospitati da Ramusio in casa propria, erano – oltre a lui stesso e a un ‘messer Cristoforo’ – l’umanista Giovita Rapicio e il cartografo Giacomo Gastaldi.
Quanto a quest’ultimo, ben si comprende l’utilità reciproca di un lavoro teso a dedurre dalle relazioni di viaggio le coordinate da trasferire sulle carte. I rapporti con Ramusio restarono stretti anche dopo il 1548, sia perché fu Gastaldi ad approntare le carte per il primo (a partire dall’edizione 1554) e il terzo volume delle Navigationi, sia per l’incarico conferitogli dal Consiglio dei dieci per la realizzazione di due grandi carte per la sala dello Scudo in Palazzo ducale, raffiguranti l’una Africa e America centro-meridionale; l’altra, Asia e America settentrionale. Le relative deliberazioni (6 maggio 1549 e 17 giugno 1550 per la prima, 9 agosto 1553 per la seconda) precisavano le fonti da utilizzare (Leone Africano, Ca’ da Mosto, Duarte Barbosa, Francisco Álvares per la prima carta; Cabeza de Vaca, Jacques Cartier, João de Barros, Marco Polo per la seconda): materiali in gran parte ancora inediti, evidentemente forniti da Ramusio che fu, se non l’ispiratore del progetto, mediatore tra Gastaldi e gli organi di governo.
Questo intenso lavoro di documentazione e analisi si riflette nelle sette lettere scritte a Ramusio da Fracastoro – dedicatario dei tre volumi dell’opera – lungo il ventennio 1533-52, attestanti l’ampiezza di orizzonti di un lavoro scientifico animato dal «desiderio [...] che si [debba] scriver contra l’opinioni de gli antichi» (Lettere di XIII huomini..., 1561, p. 731), dando conto delle conoscenze acquisite nell’ultimo secolo, ma soprattutto della nuova immagine del mondo che esse fondano, sostituendo quella tolemaica. Il medico veronese attestò poi autorevolmente la natura non solo geografica, ma genuinamente scientifica della cultura di Ramusio, quando elencò nell’ultimo capitolo del De sympathia et antipathia rerum (Venetiis 1546) una serie di obiezioni e osservazioni rivoltegli dall’amico, a cui il testo era stato dato in lettura prima della stampa.
La ricerca ramusiana si articolò in progetto tardivamente: solo ad agosto del 1543 i Giunti chiesero al Senato un privilegio di stampa di 15 anni per una serie di relazioni poi distribuite tra il primo e il secondo volume delle Navigationi, e occorsero altri sette anni prima che l’opera iniziasse a essere pubblicata. Vivente Ramusio, uscirono – senza indicazione d’autore – il primo volume (1550, cc. 405; una seconda edizione ampliata seguì nel 1554, cc. 436; altre edizioni rispettivamente nel 1563, 1588, 1606, 1613) e il terzo (1556, cc. 455; altre edizioni nel 1565, 1606). Il volume secondo apparve postumo (1559, cc. 191), con un avviso Ai lettori in cui l’editore, Tommaso Giunti, rivelava l’identità dell’autore, attribuendo il ritardo alla sua morte e all’incendio che aveva distrutto parte dei materiali pronti per la stampa. In effetti il volume aveva dimensioni minori (la seconda edizione, nel 1574, fu portata a 256 cc.; altre edizioni nel 1583, 1606): ma lo squilibrio quantitativo si accompagnava a un diverso grado di rifinitura dei tre volumi, indizio di un certo travaglio compositivo. Ramusio dedicò più attenzione al primo, dove l’abile contrappunto tra materiali antichi e contemporanei (26 relazioni di viaggio alternate a 14 suoi ‘discorsi’, talora assai impegnativi come quelli sulle piene niliache o sul commercio delle spezie) dava evidenza a uno dei postulati dell’opera, ossia il superiore grado di consapevolezza geografica della propria epoca rispetto all’età antica. Nei successivi volumi, la cornice paratestuale si ridusse: 19 relazioni e 5 discorsi nel secondo (edizione 1574), 25 relazioni e 7 discorsi – in genere brevi e tratti dalla traduzione italiana dell’opera di Francisco López de Gomara – nel terzo.
Nell’insieme, i tre volumi proponevano il consuntivo dettagliato di una fase straordinaria della storia europea e del mondo; lo facevano a partire dall’applicazione dei metodi dell’indagine umanistica, abbracciando il globo con uno sguardo eurocentrico, e però laico e razionale. Di qui, anche, la «chiara dimensione geopolitica» (Descendre, 2010, p. 6) connaturata all’opera. Il primo volume contiene testi su Africa e Asia meridionale, ma anche sulle regioni costiere del Brasile: i territori su cui si era organizzato l’Impero portoghese. Nel terzo volume, concentrato sul mondo americano, i materiali riferibili all’Impero spagnolo (la gran parte) vengono distinti da quelli che chiudono il volume, dedicati alle regioni del Nord-Est, oggetto degli sforzi coloniali francesi. I testi caratterizzanti il secondo volume sono quelli di Marco Polo e degli ambasciatori veneziani in Persia, Giosafat Barbaro, Ambrogio Contarini, Caterino Zeno. Nell’insieme, il volume svolge un consapevole progetto di glorificazione di Venezia e del ruolo esercitato nei secoli dalla Repubblica in quell’area.
La storia del secondo volume si intrecciò con altri libri e percorsi di ricerca. Ramusio stesso dichiarò (Navigazioni, a cura di M. Milanesi, cit., III, p. 24) il debito con il Taqwim al-buldan di Abu ᾽l-Fida, giuntogli tra la fine del 1550 e l’inizio del 1553 attraverso Guillaume Postel, conosciuto a Venezia fin dal 1548; testo importante per capire taluni aspetti geografici del libro di Marco Polo, eroe civilizzatore e cardine dell’intero volume. Le pagine su Polo, articolate in tre diversi testi (ibid., III, pp. 21-73), furono scritte tra il 1553 (il discorso introduttivo è datato 7 luglio, giorno della nomina a segretario dei Dieci) e il 1555-56: all’epoca, Ramusio era partito dalla vicenda poliana per farsi storico della quarta crociata. Il 10 dicembre 1556 presentò al Consiglio dei dieci una supplica, proponendo un’ambiziosa impresa editoriale tesa all’esaltazione del ruolo imperiale svolto da Venezia nel XIII secolo, in continuità con le pagine dedicate all’argomento nel volume secondo delle Navigationi. Si trattava di tradurre e pubblicare la cronaca di Geoffroy de Villehardouin in italiano, francese e latino; lavoro da affidare al figlio Paolo, in cambio di un ufficio del valore di 150 ducati annui. Prima di morire, il segretario aveva già approntato la traduzione in volgare (Venezia, Biblioteca Marciana, mss. It. VII. 138 e It. VII. 139).
L’intensa attività degli ultimi anni comprese la cura delle Opera omnia dell’amico Fracastoro (morto nel 1553), uscite presso i Giunti nel 1555. La responsabilità di Ramusio (e di suo figlio, che certo collaborò) si evince da una lettera del domenicano Sisto Medici a Giovanni Battista del 30 gennaio 1555.
Fece testamento in Venezia, il 25 aprile 1557, disponendo la propria sepoltura a S. Maria dell’Orto; nominò erede universale il figlio.
Morì a Padova il 10 luglio 1557.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Padova, Notarile, Simon Pietro del Cortino, reg. 2792, cc. 216r-218r (testamento di Paolo Ramusio); Venezia, Biblioteca Marciana, ms. Lat. XIV. 61 (4241): S. Medici, Stromata, IV, p. 175; ms. It. VII. 138 (8749) e It. VII. 139 (8324); ms. It. X. 143 (6535); ms. It. VII. 325 (8839): Cronaca Ramusia (XVII sec.); Archivio di Stato, Notarile, Testamenti, Atti Marsilio 1209 (454).
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