FORZANO, Giovacchino
Nacque il 19 nov. 1884 da Andrea, originario della provincia di Messina, e da Elisabetta Lanini a Borgo San Lorenzo, nel Mugello, ove il padre era segretario comunale.
Convittore al "Cicognini" di Prato, passò in seguito al liceo "Michelangelo" di Firenze, e qui, terminate le superiori, prese a studiare il violino e a frequentare la facoltà di medicina, che però abbandonò presto; trasferitosi a Urbino si iscrisse a legge e, contemporaneamente, al conservatorio di Pesaro, per studiarvi canto.
Già nel suo primo periodo fiorentino si era avvicinato al teatro, musicale e non, da cui era rimasto affascinato; ancora studente vi esordì come direttore di scena di un Trovatore a Campi Bisenzio e come baritono in piccoli teatri di paese (a Vicchio in una Serva padrona e a Pescara nel Werther).
Dopo la laurea, però, lasciò il conservatorio e, rientrato a Firenze, esercitò per brevissimo tempo la professione, mentre faceva le prime esperienze come giornalista. Cominciò a scrivere sul foglio umoristico Il Vero Monello di A. Novelli, il quale lo presentò all'editore G. Nerbini con cui il F. pubblicò alcuni romanzi di storia e di avventura a dispense (fra gli altri una Pia dei Tolomei con lo pseudonimo di Diana de Toledo). Fondò quindi un suo giornaletto umoristico, Cirano, e collaborò al Fieramosca. D'estate si trasferiva a Montecatini, dove, come segretario comunale, si era spostato anche suo padre, e dove curava una pubblicazione estiva per i frequentatori della stazione termale. Non per questo aveva abbandonato il teatro; sviluppando una vulcanica attività - che era e rimase un suo tratto caratteristico almeno fino agli anni Cinquanta - prese a scrivere libretti d'opera, drammi e commedie, e a curare la messa in scena dei suoi lavori.
Il F. esordì come librettista e régisseur (all'epoca non esisteva ancora il termine, oltreché il ruolo, del regista) occupandosi principalmente di piccola lirica e di rivista. Il primo libretto lo scrisse per E. Wolf-Ferrari nel 1903, La gabbia dorata, quindi, per il suo amico e collega di conservatorio a Pesaro L. Ferrari Trecate, curò le commedie Galvina, andata in scena nel 1904 ad Alessandria e, nello stesso anno, Fiorella (seguirà per lo stesso autore nel 1922 la favola Ciottolino). Intanto venivano rappresentate le sue riviste Lo sciopero delle acque, Papè Satan papè Satan… über alles e, nel 1911, con grande successo, Monopoleone (sui rapporti fra Giolitti e i socialisti). E a Montecatini, nel 1912, ormai abbastanza noto - dirigeva Il Giornale apuano a Carrara, dove intanto si era trasferito stabilmente, ed era collaboratore della Nazione -, conobbe R. Leoncavallo, il quale, reduce da una prima non felice esperienza nell'operetta, gli chiese un libretto che fu, invece, un buon successo, La reginetta delle rose.
Per il Leoncavallo il F. si attenne strettamente ai più ortodossi statuti della tradizione operettistica "viennese", immaginando una storia d'amore tra il principe ereditario, in incognito, di un Regno di Portowa (il Pontevedro di lehariana memoria aveva fatto scuola e per F. Lehár più tardi il F. trasformerà Der Göttergatte in Mademoiselle Porte-Bonheur) e una modesta fioraia con tutti gli immaginabilissimi sviluppi del caso.
Comunque il buon risultato - sempre per Leoncavallo il F. scrisse nel 1915 un'altra operetta, La candidata, e, nel 1920, un'opera seria, Edipo re -, unitamente alla coeva affermazione come autore drammatico, gli aprirono le porte della grande lirica e, in particolare, della collaborazione con i due più prestigiosi esponenti della "giovane scuola": P. Mascagni e G. Puccini.
Per Mascagni il F. scrisse il libretto di Lodoletta (andata in scena al Costanzi di Roma il 30 apr. 1917), da un romanzo di Ouida (Marie-Louise de la Ramée), ambientato tra l'Olanda e Parigi; una storia che oscilla tra l'idillio campestre e una tragica melanconia, che il F. non aiutò eccedendo nei particolari zuccherosi e nel sentimentalismo. Più interessante Il piccolo Marat (Costanzi, 2 maggio 1921); Mascagni aveva chiesto un argomento collegato alla Rivoluzione francese, periodo prediletto dal F. che lo aveva già usato, e ancor più spesso lo userà in futuro, per ambientarvi le sue pièces teatrali. Il F. prescelse la storia di un giovane nobile che, per strappare al Comitato di salute pubblica e alla morte la madre, riesce ad arruolarsi nella guardia rivoluzionaria (i marat appunto), con annessa abituale storia d'amore fra il giovane e la nipote del presidente del Comitato rivoluzionario. Il colore che il F. dette alla narrazione, tra la fiaba simbolica (la maggior parte dei personaggi non ha nome proprio, è una sorta di maschera: la spia, il carpentiere, l'orco) e l'epos popolare, lascia trapelare il carattere anarcoide e giacobino, ma anche ideologicamente indistinto e socialmente ambiguo, che è al fondo dell'ispirazione del F. e lo collega naturalmente al fascismo nascente, di cui sarà infatti, in piena buona fede e in istintiva affinità, un fedele esponente.
Particolarmente significativa e ricca di risultati fu la collaborazione con Puccini il quale, sempre alla ricerca di soggetti da musicare nonché di librettisti, gli si rivolse, spinto anche dalla sua costante attrazione per il teatro minore ma di sicuro mestiere, di cui il F. era di già esponente di un qualche rilievo. Del Trittico, cui Puccini andava pensando già da tempo, il F. curò i libretti per Suor Angelica e Gianni Schicchi.
Nella prima al F. si devono il felice e rapido succedersi dei piccoli episodi iniziali, il naturale sciogliersi della tensione narrativa nell'aria più celebre della partitura "Senza mamma", nell'ambito, però, di un libretto che non manca di squilibri nel rapporto tra questa prima parte e l'episodio dell'avvelenamento suicida e dell'apparizione salvifica della Vergine nel finale. Perfettamente riuscito è invece l'episodio comico, di "falstaffiana" ascendenza, quel Gianni Schicchi in cui il F. torna nell'amata Firenze di Dante (città al centro di tanta sua produzione sia musicale sia in prosa, sia più tardi per il cinema, colta nei secoli più vivi della sua storia, fra Duecento e Cinquecento, e uno dei luoghi deputati di quel gusto eclettico della ricostruzione storica che percorre tutto un filone della nostra cultura nella prima metà del Novecento). Nella vicenda del furbo imbroglione, ricordato da Dante nell'Inferno per aver sottratto una ricca eredità agli avidi parenti, il F. realizza una comicità scettica e asprigna come il protagonista, in cui la vivacità dell'azione è in perfetta rispondenza con la musica, e dove, ancora una volta, nella lode della "gente nova" traspare quel sentimento ambivalente tra la simpatia anarcoide per l'irregolare e l'adesione a un ordine nuovo che in Italia si sarebbe concretato ben presto (la prima del Trittico si ebbe a New York nel dicembre del 1918).
Il F. continuò negli anni successivi a lavorare per alcuni fra i maggiori operisti italiani del suo tempo, sia con soggetti originali sia traendoli da testi da lui scritti per il teatro di prosa, in ambedue i casi spesso prendendo spunto da eventi storici o dalla letteratura precedente. Così per A. Franchetti scrisse Notte di leggenda (1915), Glauco (da una pièce di E.L. Morselli, 1922), Il finto paggio e Il gonfaloniere (non rappresentati); per C. Iachino, Giocondo e il suo re (1924, da un episodio del XXXVIII canto del Furioso di L. Ariosto); per E. Wolf-Ferrari ancora Gli amanti sposi (1925, dal Ventaglio di C. Goldoni) e, da una sua commedia, Sly (1927); per P. Riccitelli, I compagnacci, di argomento savonaroliano (1923) e più tardi Madonna Oretta (1932); la favola surreale de Il re per U. Giordano; per G. Marinuzzi Palla de' Mozzi (1932), e, fra gli ultimi - ma aveva diradato l'attività di librettista fin dagli anni Trenta - per M. Peregallo Ginevra degli Almieri (1937) e Lo stendardo di S. Giorgio (1941), questi ultimi tutti di ambientazione storica medieval-rinascimentale.
Il F., seguendo sempre personalmente la realizzazione scenica di tutti i suoi libretti, si trovò a occuparsi di messa in scena proprio nel momento in cui il vecchio ruolo del librettista-direttore di scena di tradizione ottocentesca si andava trasformando in quello del regista; e al F. va senz'altro il merito di aver sentito e propugnato tra i primi la necessità, nella messa in scena, di una visione globale dello spettacolo - sia d'opera sia di prosa - che tenesse conto di tutte le componenti: dalla trama alla musica, alle voci, agli elementi tecnici che meglio potessero far risaltare il testo.
Egli non intese, però, questa funzione in una prospettiva teorica e di riflessione intellettuale, bensì la risolse sul piano di un accurato artigianato, che sopperiva alla mancanza di sensibilità nei confronti dei problemi di fondo della regia con il fasto, l'accuratezza realistica e grandiosa, retaggio di certo dannunzianesimo che era parte integrante della sua cultura. Ciò detto, il lavoro del F. contribuì in modo eminente a imporre una più decorosa e curata messa in scena e alcune sue regie fecero epoca (il F. fu , al fianco di A. Toscanini, régisseur stabile al teatro alla Scala dal 1923 al 1930 e diresse periodicamente, oltreché al Costanzi, poi Reale dell'Opera, di Roma, e nelle principali piazze d'Italia, anche all'estero, in particolare al Covent Garden di Londra).
Collateralmente all'attività nel teatro musicale il F. ne condusse un'altra, altrettanto ricca e fortunata, nel teatro di prosa. Aveva debuttato nel 1907, al Niccolini di Firenze con Il settimo sacramento, ma il riconoscimento di un suo ruolo centrale nella prosa italiana di quegli anni, seppur non a livelli culturalmente significativi, si ebbe qualche tempo dopo, quando, nel 1916, la compagnia Falconi - Di Lorenzo rappresentò con gran successo di pubblico Le campane di San Lucio, la storia di un pretino di campagna tentato da una maliarda.
I temi affrontati dal F., comunque, non si limitarono, come in questo caso, al teatro borghese di evasione e di sentimenti; più spesso a sollecitarlo furono gli argomenti storici, nell'ambito dei prediletti filoni - già evidenziati per quanto concerne il teatro lirico - della Rivoluzione francese e dell'Impero, e della storia medieval-rinascimentale, soprattutto fiorentina, ridotti a coinvolgenti bric-à-brac dannunziani.
In questo ambito il F., quindi, dette vita a un teatro che potremmo chiamare d'appendice, affine, d'altro canto, al teatro francese di boulevard, ben noto ai palcoscenici italiani; dotato di una certa dignità formale ma, soprattutto, strutturato in base a un meccanismo spesso perfetto nel trattenere l'attenzione dello spettatore e nell'impedirgli di accorgersi della meccanicità e dell'artificio sottesi: il suo dramma è solo azione, intreccio, sorpresa, i quali suppliscono alla carenza di profondità intellettuale.
In buona sostanza, un teatro d'intrattenimento, fatto per il grande pubblico, che, infatti, corrispose sempre, almeno fino alla seconda guerra mondiale, alle sollecitazioni del Forzano. Non stupisce, quindi, che questi fosse corteggiato e richiesto dai maggiori attori della scena italiana. Del F. furono rappresentate 34 commedie (per un elenco completo si rimanda alla voce dell'Enciclopedia dello spettacolo); qui ricordiamo Sly, scritta per R. Ruggeri (1920) che, prendendo spunto da un personaggio della Bisbetica domata, ripropone, con garbo e con una vena malinconica, il tema del diseredato cui viene fatto intravvedere per un solo momento il paradiso; Il conte di Bréchard, con A. Betrone (1924) in cui campeggia la figura di un aristocratico ricattato dai suoi antichi sottoposti durante la Rivoluzione francese, il quale scopre infine un animo nobile e un amore sincero nella figlia del suo aguzzino, che è stato costretto a sposare. Gutlibi, del 1925, per la compagnia Pavlova, in cui si affronta il tema della razza (il protagonista è un pugile di colore); Ginevra degli Almieri, per Dina Galli, del 1928 che racconta una burla per un'eredità come lo Schicchi, ma in cui la protagonista è una donna; e tutti gli altri, commedie e drammi, in cui i temi e le ambientazioni, le più diverse e le più varie, sono solo un pretesto al déclenchement del meccanismo teatrale.
Ciò che caratterizza il F. rispetto ad altri teatranti artigiani è quella connaturata ambiguità ideologica, già notata nei libretti d'opera, che si potrebbe forse definire con una sola parola: populismo. Spettacolarità e populismo furono i caratteri che contraddistinsero anche l'attività registica del F. nel teatro di prosa (in particolare si ricorda una messa in scena della Figlia di Iorio al Vittoriale nel 1927, alla presenza di G. D'Annunzio, all'aperto, con costumi di Caramba (E. Boutet), l'utilizzo di grandi masse e un doppio palcoscenico, che mutava al mutare dell'atto, ideato da G. Maroni) e che lo portarono a ideare, almeno in parte, e a guidare in molte tournées, i Carri di Tespi, sorta di teatri popolari itineranti per le campagne e i piccoli centri, appoggiati e voluti dal regime. Spettacolarità e populismo formavano un binomio tanto attraente e tanto proprio da portare a una collaborazione diretta fra il F. e B. Mussolini.
I due si erano incontrati a Roma nel '29, in occasione della prima dei Carri di Tespi al Gianicolo con l'Oreste di V. Alfieri; quando il duce pensò di darsi al teatro, non potendo farlo in prima persona si affidò proprio al F. come estensore delle sue idee e coautore. Nacque così la trilogia "eroica": Campo di maggio (1930), sui Cento giorni di Napoleone; Villafranca, sul noto episodio risorgimentale (1932); Giulio Cesare (1939), in cui l'attenzione al tema dell'eroe solo e in difficoltà, spesso tradito dai suoi, ben più corrisponde alla problematica e/o alle esigenze di "immagine" del duce che non alle consuete tematiche del Forzano.
Una personalità poliedrica come quella del F. non poteva rimanere estranea all'arte del futuro, la cinematografia; negli anni del successo ebbero i maggiori riconoscimenti le sue opere più spettacolari e di ambiente storico come Campo di maggio, del 1935, con la presenza di grandi masse, Villafranca, Mastro Landi o Camicia nera del 1933, una delle poche vere opere di regime della cinematografia italiana, commissionata al F. dall'Istituto Luce.
Quest'ultima inizia con la riunione di piazza San Sepolcro e si conclude con una parata del regime, di cui racconta le vicende attraverso la storia di una famiglia di contadini delle paludi pontine; l'opera risente, però, della scarsa pratica del F. nell'uso degli attori non protagonisti e comunque della sua incompatibilità con un cinema realistico. Migliori ci appaiono oggi lavori più leggeri e raccolti come Sei bambinee ilPerseo del 1939 e Tredici uomini e un cannone, su un episodio della prima guerra mondiale, del 1936. In campo cinematografico, comunque, il maggior merito del F. fu quello di aver voluto e attuato gli Stabilimenti di Tirrenia, con l'appoggio economico di Giovanni Agnelli.
La guerra e la caduta del regime portarono a un drastico ridimensionamento dell'attività del F. (negli anni precedenti aveva continuato anche a collaborare con vari giornali tra cui La Stampa e il Corriere della sera) il quale, ormai superato non solo dagli eventi politici ma anche dal clima culturale radicalmente mutato, lavorò ancora, ma in modo molto ridotto, come regista presso il teatro dell'Opera di Roma e scrisse qualche libro di memorie (Mussolini autore drammatico, Firenze 1954; Come li ho conosciuti, Torino 1957).
Il F. morì a Roma il 28 ott. 1970.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Cart. riservato, b. 85; Necr. in Il Messaggero e Il Tempo, 29 ott. 1970; Chi è?, 1931, ad vocem; E.F. Palmieri, Il teatro del nostro tempo, Bologna 1939, pp. 76, 172-175; A. Galletti, Il Novecento, Milano 1939, ad Ind.; R. Simoni, Trent'anni di cronaca drammatica, Torino 1951, ad Ind.; S. D'Amico, Cronache del teatro, Bari 1963, ad Ind.; R. Paolella, Storia del cinema muto, Napoli 1966, ad Ind.; A. Cassi Ramelli, Libretti e librettisti, Milano 1973, ad Ind.; F. D'Amico, in Cavalleria rusticana - Gianni Schicchi, progr. di sala del teatro dell'Opera di Roma, stagione 1974-75, pp. 280-284; Storia dell'opera, a cura di G. Barblan - A. Basso, Torino 1977, ad Ind.; R. Radice, La regia, in Duecento anni alla Scala (catal.), Milano 1978, pp. 65 ss.; C. Casini, Puccini, Torino 1978, ad Ind.; Duecento anni di teatro alla Scala, G. Tintori, Cronologia, Milano 1979, ad Ind.; P.J. Smith, La decima musa, Firenze 1981, ad Ind.; F. Nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, ad Ind.; B. Traversetti, L'operetta, Milano 1985, ad Ind.; J.-A. Gili, L'Italie de Mussolini e son cinema, Paris 1985, ad Ind.; G. Puppa, La Francia in Italia e l'Italia in Francia, in Il teatro degli anni Venti, a cura di L. Vazzoler, Roma 1987, pp. 213 s., 217, 219, 221; Storia della letter. ital. (Garzanti), Il Novecento, Milano 1987, ad Ind.; Storia letter. d'Italia (Vallardi), Il Novecento, a cura di G. Luti, Padova 1993, ad Ind.; L. Pinzauti, Storia del Maggio, Lucca 1994, ad Ind.; Encicl. dello spettacolo, ad vocem.