GIOSAFATTI
. Famiglia di architetti, scultori e lapicidi attivi ad Ascoli Piceno, alla cui capillare attività edilizia si deve l'attuale facies barocca della città, consolidatasi nel Settecento attraverso i continui rifacimenti e accorpamenti delle unità abitative medievali e rinascimentali. I G. hanno avuto il merito d'importare nell'area adriatica la tradizione artistica berniniana, depurata dal classicismo tardobarocco di Carlo Fontana e di Giovanni Battista Contini. Se questo ha provocato da una parte un ridotto interesse tipologico, dall'altro ha viceversa consentito il libero utilizzo di elementi scultoreo-decorativi che hanno avuto la capacità di ravvivare i compassati organismi architettonici locali (Benedetti, p. 288).
Antonio, figlio di Pietro, nato a Venezia prima del 1550, fu scultore e architetto, capostipite della dinastia di progettisti operosa ad Ascoli nei secoli XVII e XVIII. La sua attività artistica viene per la prima volta documentata a San Severino Marche, dove si celebrò il suo matrimonio con Francesca Lanonia, dalla quale ebbe cinque figli. Nel 1586 si recò ad Ascoli, dove venne incaricato dal governatore della città di realizzare una monumentale porta urbana sulla testata interna del ponte Maggiore in onore di Sisto V Peretti. L'opera, connotata da un ordine rustico a fasce, venne terminata nel 1587 e demolita nell'Ottocento.
Secondo Leporini (pp. 129, 375), Antonio si stabilì con la sua famiglia ad Ascoli nel 1602; in questo periodo la Confraternita di S. Maria della Carità gli affidò il compito di redigere un progetto per l'ampliamento della tribuna della chiesa. Il lavoro fu compiuto fra il 1603 e il 1614 e proprio a partire da questa data la sua attività si concentrò interamente nella città marchigiana.
Verso il 1604 eseguì lavori di scalpello nell'altare in travertino della cattedrale (demolito). Tra il 1605 e il 1607, fornì il disegno, e successivamente realizzò, il pulpito della chiesa di S. Francesco. In questi anni Antonio ricevette incarichi più o meno considerevoli legati alla sua abilità di lapicida: nel periodo 1612-15 scolpì due stemmi del cardinale ascolano Felice Centini; mentre nel 1614 lavorò a un portone in travertino per la casa di Marcantonio Galeotti.
Sono andate distrutte anche le ultime due opere note di Antonio: l'altare in travertino realizzato tra il 1614 e il 1616 per la chiesa di S. Domenico e quello eseguito nel 1619 in S. Agostino, su commissione di Francesco Maria Sgariglia. Verso la fine del secondo decennio del Seicento la sua attività cominciò a ridursi; morì probabilmente ad Ascoli intorno al 1621.
Antonio ebbe numerosi aiuti, tra cui alcuni membri della sua famiglia. In particolare si ricordano il figlio Silvio, nato a San Severino Marche nel 1598 circa (Leporini, p. 130), allievo e collaboratore più stretto dell'artista. Dal 1605 al 1626 Silvio coadiuvò il padre in diversi cantieri ascolani; ma dal 1623 e sino al 1627 compì il suo apprendistato prevalentemente a Roma, dove affinò la sua tecnica scultorea (ibid., p. 375). Indicative della professionalità raggiunta sono le prime opere realizzate come artista indipendente al suo ritorno in Ascoli: la costruzione, dal 1627 al 1647, di due altari in travertino per la cattedrale, ricchi di decorazioni figurate. Queste opere, alle quali collaborarono lo scalpellino ascolano Domenico Madonna e il figlio Giovanni Domenico, sono state demolite alla fine dell'Ottocento; ma nel commento di T. Lazzari (pp. 36-43) si definivano "schematizzati alla vignolesca e molto complessi". Esperto lapicida, scolpì nel 1640 lo stemma della famiglia Conti e nel 1655 lo stemma del cardinale Giulio Gabrielli, vescovo di Ascoli; la sua perizia scultorea è riscontrabile anche nell'esecuzione (nel 1658) delle grosse bugne smussate caratterizzanti il portone d'ingresso del palazzo del Comune. Si ricorda, inoltre, l'esecuzione nel 1650, su incarico della Compagnia dei Muratori, di un modello (distrutto) utilizzato per la costruzione della cappella di S. Antonio di Padova nella chiesa ascolana di S. Francesco, che nella sua configurazione richiamava i precedenti altari realizzati nella cattedrale. Eseguì anche, coadiuvato dal figlio Antonio, l'altare di S. Teresa nella chiesa del Carmine (1656-58), unica sua opera tuttora esistente. Morì nel 1658 circa ad Ascoli Piceno (Leporini, p. 130).
Ventura, fratello maggiore di Silvio, fu prevalentemente lapicida. Se ne ignora sia il luogo sia la data di nascita; è documentato ad Ascoli per la prima volta nel 1605 quando assistette il padre nell'esecuzione del pulpito in S. Francesco. La collaborazione proseguì con una certa regolarità sino al 1626. Ventura fu pure procuratore del cognato Fulgenzio Morelli. Nel 1622 fu incaricato dagli Anziani della realizzazione dell'arme di Giovanni Vincenzo Cataldi (ibid., p. 375); nel 1626, su commissione di Giacinto Centini, lavorò cinquanta balaustri in travertino, avendo come aiuti i fratelli Giovan Domenico e Silvio. L'opera più significativa di Ventura fu un altare per la chiesa di S. Lorenzo in Paggese di Acquasanta, per il quale nel 1626 aveva fornito il disegno.
Anche gli altri figli di Antonio, Pietro e Giovan Domenico, esperti scalpellini, furono impiegati in diverse imprese paterne. In particolare si ricorda di Giovan Domenico la collaborazione con il fratello Ventura alla realizzazione del portone in travertino per la casa ascolana di Marcantonio Galeotti (1614). È menzionato inoltre da Mariano (1996, p. 52) come autore di "alcuni lavori lapidei" effettuati per la chiesa filippina di Cingoli.
Antonio, figlio di Silvio, nacque ad Ascoli intorno il 1630. Nel periodo compreso tra il 1656 e il 1658 collaborò con il padre alla realizzazione dell'altare di S. Teresa nella chiesa ascolana del Carmine (Leporini, p. 376). Diverse volte coadiuvò il più noto fratello Giuseppe, in occasione dell'esecuzione dell'altare (poi demolito) voluto da Giuseppe Sgariglia nella cattedrale (1669), nella realizzazione delle sette cappelle della chiesa di S. Pietro Martire (1674) e nei primi lavori di costruzione del nuovo palazzo Anzianale (1679). Anche lui esperto scalpellino, nel 1675 dimostrò la sua perizia professionale nello stemma di monsignor Giambattista Spinola, già governatore di Ascoli (1675).
Morì ad Ascoli nel 1683.
Giuseppe, anche lui figlio di Silvio, nacque ad Ascoli nel 1643. Inviato a Roma a seguito del cugino Lazzaro Morelli, fu introdotto da quest'ultimo nella cerchia dei collaboratori di G.L. Bernini nel cantiere della cattedra di S. Pietro (1657-66) e in quello di S. Andrea al Quirinale (1658-70). Ebbe dunque un validissimo maestro che gli permise di fare un apprendistato quanto mai vario, non limitato all'ambito scultoreo. Pascoli ricorda come Giuseppe avesse dato ottime prove di sé in diverse opere romane, tuttora non ancora completamente identificate e forse complementari all'attività di Morelli.
Nel 1668 Giuseppe ritornò ad Ascoli Piceno, dove fu in breve incaricato della ricostruzione del palazzo Anzianale (o dell'Arringo), un progetto che lo occupò per tutto il resto della sua vita. Egli iniziò ufficialmente i lavori solo nel 1679, alterando il disegno iniziale del prospetto su strada, redatto nel 1610 da Giovanni Battista Cavagna. La prima fase dei lavori, condotti con l'aiuto del fratello Antonio, si concluse nel 1694 (Leporini, pp. 150 s.).
Operando all'interno dello schema lineare del progetto originario, Giuseppe apportò rilevanti modifiche alle finestre del primo piano aggiungendo dei coronamenti circolari e triangolari. Le modifiche prevedevano pure l'utilizzo di un cornicione più plastico, denso di spunti autenticamente scultorei.
Secondo Leporini (p. 146), un'altra opera significativa iniziata in quegli anni da Giuseppe sembra essere la costruzione di palazzo Lenti (del 1670), la cui attribuzione si basa però principalmente su valutazioni stilistiche.
Il palazzo, infatti, pur non adottando l'ordine gigante, presenta diverse analogie con alcuni modelli berniniani come il portale inquadrato da due colonne tuscaniche, che sorreggono un balcone balaustrato, o come le finestre del piano nobile coronate da timpani alternativamente triangolari e circolari; soluzioni che l'artista ascolano poté studiare nel suo apprendistato romano. Tutti questi etimi saranno, infatti, ripresi nella maggior parte dell'edilizia civile dei migliori allievi di Bernini, tra cui Carlo Fontana, Matthia De' Rossi e Nicodemus Tessin. Le stesse finestre del primo piano sono poi ornate da sculture in forma di cariatidi, tra l'altro spesso presenti in altre future opere della famiglia Giosafatti e probabilmente desunte oltre che da motivi berniniani da una certa tradizione delle arti minori umbro-marchigiane, come le raffigurazioni presenti nella produzione locale di maioliche e ceramiche.
La prima opera su disegno completamente di Giuseppe fu l'altare del Crocifisso nella chiesa del Carmine (1668), che conteneva dei putti ai piedi della Croce e un simulacro al di sopra del cornicione. Nel 1669 lo troviamo impegnato ancora con il fratello Antonio nell'esecuzione dell'altare della famiglia Sgariglia nella cattedrale, demolito alla fine dell'Ottocento. A partire dal 1670 i frequenti incarichi ricevuti, indicano il progressivo riconoscimento della sua abilità scultorea: nel 1671 venne incaricato di eseguire gli stucchi nella nuova chiesa di S. Filippo Neri (demolita); tra il 1674 e il 1678 si occupò del completamento di due cappelle in S. Pietro Martire (con il fratello Antonio); nel 1678 scolpì lo stemma di Giacomo Giandemaria, governatore della città. Negli stessi anni (1677-78), Giuseppe eseguì i rilievi plastici di un non identificato altare nella chiesa di S. Domenico in Atri (Leporini, p. 376).
Giuseppe poteva ormai considerarsi un artista professionalmente arrivato: nel 1684 assunse la direzione del cantiere della chiesa dell'Angelo Custode, per la quale in precedenza Carlo Rainaldi aveva lasciato il disegno della facciata. Il compito dell'artista fu quello di lavorare e mettere in opera le membrature e le semicolonne che costituivano la facciata, la quale tuttavia, nel 1686 rimase interrotta a livello dell'oculo centrale del prospetto (ibid., pp. 135, 143, 376).
In questo periodo (1687) anche i frati della Madonna del Carmine affidarono a Giuseppe il compito di completare la facciata della loro chiesa lasciata incompleta all'altezza del primo ordine ancora una volta dall'architetto romano Carlo Rainaldi. Giuseppe sembra seguire le indicazioni progettuali precedenti, alterando parzialmente la composizione solo per l'inserimento nel 1704 di una scalinata d'ingresso a due rampe che lega la facciata rainaldiana, caratterizzata da tenui risalti verticali, direttamente all'ambiente urbano circostante.
Giuseppe, che era contemporaneamente impegnato nel cantiere del palazzo comunale, è ancora documentato ad Ascoli nel 1688 quando sposava l'ascolana Maria Antolini. Dopo un intervallo di qualche anno nel quale potrebbe aver compiuto dei lavori fuori Ascoli Piceno, Giuseppe risulta attivo in città, dove ancora nel 1692 scolpì lo stemma dell'abate Michelangelo Cauti, mentre nel 1693 eseguì quello del governatore Alessandro Sforza.
Nel 1694 la conclusione dei lavori del prospetto su via Tornasacco del palazzo Anzianale consentì a Giuseppe d'iniziare le fondazioni della facciata principale su piazza dell'Arringo, considerata unanimemente dalla critica il suo capolavoro nel campo dell'architettura civile.
Se alla fine del 1695 il nuovo perimetro murario giungeva sino al livello dello zoccolo di base, già dal 1697 Giuseppe discuteva con i deputati della fabbrica la revisione dell'intero progetto connotato dalla presenza sui fianchi delle finestre di ornati costituiti da cariatidi e telamoni. Orsini (pp. 31-36) descrive minuziosamente la soluzione compositiva adottata dall'artista: la nuova facciata era organizzata in tre campi, uno centrale costituito da cinque assi di finestre e due laterali di tre assi ciascuno, i quali erano inquadrati da pilastri aggettanti rivestiti nella parte inferiore da bugne rustiche e in quella superiore da bugne lisce meno pronunciate. Giuseppe completò la struttura a tre piani con un interessante motivo centrale costituito da cinque arcate che introducevano all'atrio dell'edificio. Il riferimento al berniniano palazzo Chigi Odescalchi è reso ancora più evidente dalla balaustra con statue che doveva sorgere nel settore centrale, per la quale lo stesso Giuseppe aveva redatto un modello. L'aspetto finale rimanda a una felice sintesi tra lineamenti barocchi da un lato, trattamento dei parametri murari vicini a soluzioni manieriste da un altro, e interessanti particolari figurativi tipici della scuola dei Giosafatti. Il palazzo che sarà poi concluso con gli interventi dei figli Lazzaro e Lorenzo mostra soluzioni originali anche per quel che concerne le cornici delle finestre dell'ultimo piano, le quali presentano un coronamento caratterizzato dall'utilizzo di un timpano spezzato con le volute rivolte verso l'esterno della bucatura. Una robusta fascia marcapiano vuole poi dividere la facciata in due blocchi separati e sovrapposti: uno comprendente il piano terreno; il secondo, invece, il primo e secondo piano. Un cornicione insolitamente aggettante chiude in alto la composizione.
Verso la fine del secolo la sua produzione si fece sempre più copiosa: nel 1698 costruì una fontana provvisoria nello slargo antistante porta Romana di fronte la chiesa di S. Maria delle Grazie, che riecheggiava nelle linee principali quella dei fiumi di Bernini.
La progettazione di altari riccamente decorati connotò buona parte della carriera finale di Giuseppe. La prima commissione importante in questo senso sembra essere l'erezione dell'altare maggiore in marmi colorati nella chiesa di S. Venanzio (1697-99). Nella stessa chiesa di origine romanica, inoltre, l'artista seguendo un progetto dell'architetto Emidio Ferretti, curò la rimodellazione in stucco di tutte le superfici murarie compresi i capitelli di un tono molto personale. Alla stessa tipologia si può riconnettere la definizione di una mensa in travertino per S. Pietro Martire (1701), come pure l'altare maggiore e quello dedicato a S. Nicola nella chiesa di S. Cristoforo (1703). Dall'analisi dell'altare maggiore si possono riconoscere ulteriori etimi berniniani, coincidenti con la pianta concava, le colonne binate che sorreggono un timpano spezzato, a sua volta centralmente sormontato da una ricca composizione rappresentante nuvole, raggi e putti festanti con al centro la colomba dello Spirito Santo.
Giuseppe doveva aver già acquisito una certa notorietà quando nel 1704 fu incaricato di trasformare la sezione mediana della cripta della cattedrale dell'XI secolo. Ormai affermato progettista, in quell'occasione incontrò diversi problemi statici, tant'è che nel dicembre del 1706 "mentre si toglievano le armature crollavano le volticelle sostenute dalle colonne [binate], travolgendole" (Leporini, p. 377). Furono necessari ulteriori lavori di consolidamento; e la prima messa nella cripta ricostruita si poté celebrare solo nel gennaio 1708. Giuseppe si cimentò ancora in opere minori con risultati decisamente interessanti, come dimostra l'arma del vescovo Giacomo Bonaventura (1706), o negli stucchi figurati (1712) per la chiesa di S. Filippo Neri (demolita nel 1902). Due altari giosaffatteschi di questa chiesa filippina (S. Antonio e il Sacro Cuore di Gesù) sono stati successivamente rimontati nella cattedrale di S. Benedetto del Tronto (Mariano, 1996, p. 26).
Per incarico dell'Università dei Calzolai, Pianellari e Ciabattai, Giuseppe nel 1713 progettò un grande altare in stucco per la chiesa di S. Agostino. Demolito nel 1960, l'opera, nel giudizio di Leporini (p. 134), presentava un'architettura movimentata e una composizione allegorica complessa con colonne isolate, frontoni spezzati e statue che sottolineavano il tema centrale della Gloria. In questo genere di committenze si inserisce anche la cappella del Corpo di Cristo nel primo chiostro di S. Francesco, costruita nel 1715 secondo un "suo vago disegno" e anch'essa poi demolita nell'Ottocento.
Una delle commissioni più importanti di tutta la carriera di Giuseppe fu il tempietto rupestre di S. Emidio alle Grotte (1716-21) dove, in relazione alla produzione locale, stabilì un nuovo tipo di facciata, ancora una volta memore di esempi barocchi romani.
Egli fu incaricato di dare una significativa veste esterna al prospetto di una piccola cappella scavata nella roccia che conservava i resti di s. Emidio, primo vescovo ascolano. Costruito secondo un modello elaborato dallo stesso architetto, il nuovo fronte in travertino si riconnette all'esempio cortonesco di S. Maria della Pace, sia per ciò che attiene al pronao ovale dotato di otto colonne d'ordine tuscanico, sia nella forma del timpano inflesso che ospita lo stemma papale. Anche i due angeli disposti lateralmente alla facciata sono opera dello scultore ascolano e ricordano gli analoghi soggetti scolpiti dal suo maestro Bernini per il ponte romano di Castel Sant'Angelo (Mariano, 1995, p. 365).
Queste opere mostrano evidente il carattere interdisciplinare della sua produzione, sempre sulla scia del "bel composto" berniniano. Ancora a stilemi berniniani si rifanno le ultime opere significative di Giuseppe: l'altare di S. Eustachio nella chiesa di S. Agostino (1720) e quello della Madonna del Rosario in S. Pietro Martire (1720-24). Il primo progetto, realizzato su incarico della compagnia degli ufficiali e dei soldati "acquartierati in Ascoli", fu organizzato seguendo i modelli di S. Andrea al Quirinale e della cappella Cornaro, mediante sia la collocazione di colonne binate a tutto tondo realizzate con un marmo che ricorda il cottanello impiegato a Roma, sia la cornice concava e gli angeli che si poggiano sulle volute del timpano spezzato; Giuseppe riuscì così a guidare lo sguardo dello spettatore verso l'alto dove una corona di puttini circonda l'emblema dello Spirito Santo. Ovviamente un ulteriore referente a quest'opera è da ricercarsi nella Cattedra di S. Pietro, tra l'altro motivo affiorante anche nel successivo altare realizzato in collaborazione con il figlio Lazzaro che, sia per la policromia sia per le statue poste sopra i piedistalli delle colonne, sembra rimandare a composizioni analoghe di Carlo Fontana. Tuttavia quest'opera esula da una qualsiasi ricatalogazione all'interno di determinati filoni barocchi, in quanto Giuseppe propone soluzioni decisamente originali ai limiti dello stesso repertorio berniniano, come nella pronunciata convessità del timpano spezzato, nelle fluenti linee della trabeazione retrostante, nonché nel ricchissimo apparato decorativo dei raggi dorati e delle figure in stucco che tendono a un vorticoso crescendo che si arresta nell'immagine centrale della Croce. Il tutto appare abbastanza vicino a modelli tardobarocchi boemi piuttosto che romani.
Il nome di Giuseppe compare inoltre nei documenti che si riferiscono all'esecuzione di un'urna in cui dovevano essere riposte le spoglie di fra Serafino da Montegranaro (1727). Leporini (p. 135) tra le opere di Giuseppe enumera pure "l'altare della parrocchiale di S. Maria degli Angeli nella frazione Chiarini di Castel di Lama"; mentre non suffragata da prove documentarie è l'attribuzione della chiesa di S. Maria delle Grazie presso il cimitero di Maltignano, suggerita da Leporini sulla base di analogie stilistiche con l'omonima chiesa ascolana.
Sulla base delle testimonianze di Orsini, sono inoltre attribuibili a Giuseppe una serie di interessanti opere minori ascolane, tra le quali è inclusa l'ex residenza del canonico Candido Malaspina (demolita nel 1870), la cui unica testimonianza è affidata al superstite portale di ordine rustico riutilizzato quale ingresso del giardino della Camera di commercio e alla finestra soprastante, connotata lateralmente da due busti femminili e superiormente da un timpano spezzato inflesso. Attribuito a Giuseppe è pure il palazzo del nobile Corrado Ferri, che presenta la sua severa e austera facciata lungo la via Vidacilio: il portone di ordine ionico con le colonne fasciate da bugne a gretoni è un motivo tipico dell'architetto. Anche la tradizionale attribuzione a Giuseppe del palazzo Ferrucci trae fondamento dall'ordine rustico usato nel portone d'ingresso.
Ancora Leporini (p. 159) accosta poi al nome di Giuseppe pure i cantonali fasciati e gli ornati delle finestre del secondo piano dell'ex edificio conventuale dei filippini e, modificando una precedente attribuzione di Orsini (che lo associava al figlio di Giuseppe, Lazzaro), l'incompiuto palazzo Centini Piccolomini, sulla base di evidenti assonanze linguistiche con alcune sue precedenti opere, quali il palazzo Lenti, il portale di palazzo Malaspina, il frontone di S. Emidio.
Giuseppe morì ad Ascoli il 7 luglio 1731 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria delle Grazie. Dei quattro figli, tre lo seguirono nella professione Lazzaro, Lorenzo e Pietro.
Dopo l'apprendistato romano presso Morelli e lo stesso Bernini, Giuseppe riuscì a proporre ad Ascoli un'architettura che trova la sua peculiarità attraverso lo svolgimento di vivaci composizioni scultoree che qualificano formalmente le sue opere migliori. Fuori dalla coeva sfera ordinatrice di Carlo Fontana, la sua produzione si liberò dalle crescenti tendenze funzionali e classiciste che si affacciavano nella capitale pontificia.
Ma proprio l'impronta romana, e in particolare l'insegnamento berniniano, sono oltremodo riconoscibili nella sua attività di scultore e decoratore, e in particolare in alcune statue realizzate per le due chiese di S. Pietro Martire (statua della Purità) e S. Tommaso. Proprio in quest'ultimo luogo di culto, due delle tre statue in marmo di Carrara presenti sull'altare maggiore, raffiguranti la Madonna col Bambino e un pensieroso e aulico S.Tommaso, vogliono testimoniare la stretta appartenenza di Giuseppe allo scenografico ed eroico barocco della scuola berniniana. Mentre infatti per la Madonna col Bambino la stretta osservanza al modello devozionale e alle contrapposte geometrie dei corpi rimanda a ricordi tardomanieristici seppure filtrati dal trattamento barocco dei panneggi, soprattutto nel S.Tommaso le assonanze con il berniniano S.Longino rimarcano il filo conduttore di tutta la sua ricerca stilistica.
Lazzaro, figlio di Giuseppe e di Maria Antonini, nacque ad Ascoli nel 1694. Cresciuto nell'orbita della professione paterna, assai precocemente il suo nome, in qualità di aiuto, è associato a importanti cantieri ascolani. Nel 1715 compare a fianco del padre nella realizzazione della cappella del Corpo di Cristo nel chiostro di S. Francesco. Nel 1717 dapprima si impegnò a scolpire un altare nella chiesa di S. Filippo Neri (demolito) e successivamente, verso la fine dell'anno, fu inviato a Roma per specializzarsi in campo scultoreo presso lo studio di Camillo Rusconi. Quest'ultimo, influenzato dagli insegnamenti di G.L. Bernini e di Ercole Ferrata, viene comunemente considerato una delle personalità maggiori della prima metà del XVIII secolo. Lazzaro poté così imparare dalle opere rusconiane (in particolare dalle statue per le nicchie di S. Giovanni in Laterano) una maniera che Wittkower definisce "eroico classicismo tardobarocco". Con l'affermato Rusconi, Lazzaro collaborò a Roma alla decorazioni in stucco della chiesa dei Ss. Simeone e Giuda.
Tornato ad Ascoli, dal 1720 al 1724 coadiuvò il padre nella realizzazione dei due altari dedicati rispettivamente a S. Eustachio nella chiesa di S. Agostino e alla Madonna del Rosario in S. Pietro Martire (in particolare per quest'ultimo eseguì la statua in marmo di Carrara raffigurante l'Umiltà).
Dal 1725 al 1729 costruì la cappella dedicata a fra Serafino da Montegranaro nella chiesa dei Cappuccini, e dal 1728 al 1730 eseguì nella cripta della cattedrale il gruppo marmoreo raffigurante S.Emidio nell'atto di battezzare la giovane pagana Polisia. Nel 1731 s'impegnò a terminare la costruzione dell'altare della Madonna della Pace nella chiesa di S. Agostino, obbligandosi entro il termine dei sei anni a finire i lavori secondo il progetto paterno (Leporini, p. 168). La composizione riprende nell'articolazione delle colonne, nel timpano spezzato, nella mensa dal profilo mistilineo le migliori realizzazione del tardo barocco romano (si guardi alle opere di Nicola Michetti e Ludovico Rusconi Sassi e in parte di Tiberio Calcagni); mentre, nell'innesto in alto del plastico gruppo in stucco rappresentante la Gloria, si riallaccia ancora alla tradizione berniniana.
Benedetti (p. 288) tra le opere di Lazzaro enumera la trasformazione del duomo di Teramo (1739), attualmente non leggibile a causa di sconsiderati restauri di ripristino, dai quali è rimasto immune il solo cappellone di S. Berardo. Le idee di Lazzaro per la rielaborazione di quest'ultimo interno sacro, prevedevano la realizzazione di un grande ambiente cupolato - circondato da una serie di cellule spaziali - concluso in fondo da un'abside semicircolare. Una analoga soluzione viene proposta dall'architetto negli stessi anni, ancora in suolo teramano, per l'aula centrale della chiesa di S. Spirito, ove più specificatamente l'articolazione dell'involucro interno è resa interessante da accentuati effetti chiaroscurali che non si sovrappongono alla leggibilità dei singoli organismi spaziali.
A partire dal 1740, Lazzaro riprese la costruzione del prospetto principale su piazza dell'Arringo del palazzo Anzianale seguendo le indicazioni lasciate da suo padre. Il lavoro fu condotto a termine nel 1742 con l'assistenza del fratello Lorenzo. La costruzione, che era rimasta interrotta "al di sopra della cornice di coronamento del portico", non poté essere completata, nel settore centrale, dalla balaustra terminale sormontata da sei statue allegoriche di memoria berniniana.
Tra il 1743 e il 1748 Lazzaro lavorò alla decorazione in stucco del presbiterio della chiesa ascolana di S. Filippo Neri (demolita): di sua mano erano le quattro coppie di putti decoranti le vele della cupola e la postuma statua di S.Filippo collocata sull'altare maggiore e completata da Domenico Paci. Ancora nella città marchigiana la presenza di Lazzaro è ravvisabile nella costruzione dell'altare del Corpo di Cristo commissionato nel 1751 dai conventuali di S. Francesco, per i quali a partire dal 1764 costruì anche l'altare della Purificazione (demolito).
Queste committenze per certi versi maggiormente legate all'attività scultorea di Lazzaro anticipano gli analoghi progetti per il coretto interno al convento di S. Angelo Magno (1754) e per l'altare del Crocifisso in S. Maria delle Grazie (1764-69). Proprio la chiesa di S. Maria delle Grazie è al centro di un interessante problema attribuzionistico. Mentre infatti alcune guide ascolane ottocentesche la assegnano al padre, recentemente i critici locali più accreditati sono propensi ad accostare l'opera a Lazzaro. Infatti, pur esistendo testimonianze che avvicinano l'opera alla fine del Seicento, ulteriori rimandi archivistici precisano una serie di interventi nel corso del secolo successivo. Sulla base di evidenti analogie stilistiche con il successivo tempietto di Campolongo, in primo luogo è Leporini (p. 173), a sostenere un'attribuzione a Lazzaro: un'impronta compostamente barocca è infatti riconoscibile negli ornati, nella cupola e nell'impronta stilistica degli altari, i quali per il loro nitido movimento curvilineo sembrano avvicinarsi addirittura a un misurato stile dientzenhoferiano. Come testimonia ancora Leporini, la chiesa fu riaperta al culto solo nel 1785 dopo la morte di Lazzaro.
Una delle caratteristiche precipue di Lazzaro fu l'impegno profuso dal 1762 sino alla morte come tecnico comunale: aveva lavorato, infatti, al restauro dei ponti Maggiore, S. Spirito (ora Cartaro) e Ss. Filippo e Giacomo; al progetto per il nuovo complesso del Bagno di Acquasanta (1778); al rinnovo del sistema stradale dell'indotto piceno.
Di importanza pari a quelle ascolane furono anche le commissioni più specificamente architettoniche affidategli fuori città, in particolare a Campolongo di Ascoli, ove progettò il tempietto dell'Assunta a pianta centrale con cupola (1777) e la chiesa di S. Maria delle Grazie a Moltignano.
Per certi aspetti il prospetto dell'Assunta, caratterizzato nel secondo registro dalla presenza di un frontone semicircolare, affiancato da due piccoli campanili, segue la tradizione delle facciate con torri laterali caratteristica dell'architettura romana di fine Cinquecento.
Da Leporini vengono inoltre attribuite a Lazzaro la chiesa a navata unica absidata dei Ss. Maria e Lorenzo a Rotella e la collegiata di Offida, realizzata però da Pietro Maggi (dal 1785 al 1798) modificando il disegno dall'artista marchigiano.
Lazzaro continuò simultaneamente a lavorare come architetto ad Ascoli anche negli ultimi anni della sua vita, quando progettò la chiesa del convento di S. Maria del Buon Consiglio (terminata da altri nel 1786) e soprattutto l'altare maggiore, interessante crogiolo di memorie scultoree e architettoniche tardobarocche adoperate con l'intento di dilatare illusionisticamente lo spazio. Al completamento dell'opera scultorea contribuì pure Agostino Cappelli.
Con queste ultime chiese la sua attività sembra essere giunta al termine, per quanto, probabilmente, parecchie opere sono ancora da scoprire e studiare. Solo ad Ascoli, per esempio, Lazzaro lavorò per diversi committenti minori non ancora del tutto identificati. Tuttavia, sia attraverso le testimonianze tardosettecentesche di Orsini, sia attraverso un'attenta analisi stilistica, non è difficile scovare le numerose residenze caratterizzate da portali, modanature, mensole, timpani spezzati di origine giosaffattesca, incluse prevalentemente nell'area intorno al corso della città.
Lazzaro morì ad Ascoli Piceno il 4 apr. 1781 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria delle Grazie (Leporini, p. 378).
Orsini tuttavia avverte che "la carriera di architetto di Lazzaro Giosafatti è secondaria perché egli fu scultore". In verità l'artista ha effettivamente al suo attivo anche una consistente produzione statuaria che giustifica questa asserzione. Tra i diversi gruppi scultorei eseguiti nel corso della sua carriera vanno ricordati, oltre al già citato e notevole S.Emidio nella cripta della cattedrale (1725-28), almeno la statua di S.Giovanni che fa parte del gruppo posto nell'altare maggiore della chiesa di S. Tommaso (1743-47) e la statua dell'Umiltà alla base dell'altare del Rosario nella chiesa di S. Pietro Martire. La quasi totalità delle sue composizioni mostrano tuttavia sia nella scioltezza compositiva delle figure, sia nell'ampio panneggio delle vesti, un riferimento costante al vigoroso tardo barocco rusconiano. Al pari di artisti coevi quali Filippo Della Valle o Pierre Legros, Lazzaro fu un mediatore piuttosto che un innovatore e cercò di raggiungere nelle sue opere un ponderato equilibrio tra l'utilizzo di elementi classici e barocchi.
Anche Lazzaro, come suo padre Giuseppe, ebbe numerosi allievi, tra cui i suoi fratelli più piccoli Lorenzo e Pietro. La sua poliedrica attività anzi, aveva contribuito a creare, nel corso della seconda metà del Settecento, una vera e propria scuola di disegno e modellazione, che ruotava intorno a lui; cosicché diversi giovani si specializzarono in attività diverse sempre all'interno del suo studio. Sembra che il "gran composto berniniano" sopravvivesse in questa officina di provincia alle mode e alle consuetudini del tempo, contribuendo in questo modo alla formazione di una generazione di artisti e artigiani che vedevano ancora nel rapporto scenografico tra scultura e architettura un motivo che connotasse gli edifici.
Tra i tanti artigiani che collaboravano con il G., è degno di menzione, il forgiatore ascolano Francesco Tartufoli, il quale formatosi nella sua scuola è spesso presente in molte fabbriche civili e religiose firmate dal maestro ascolano.
Lorenzo, fratello di Lazzaro, nacque ad Ascoli nel 1696. Collaborò dapprima con il padre Giuseppe e successivamente con il fratello Lazzaro ai maggiori cantieri ascolani intrapresi dalla famiglia. In particolare il suo apporto alle imprese familiari è documentato sin dal 1720 nell'esecuzione dell'altare di S. Eustachio nella chiesa di S. Agostino e dal 1729 nella costruzione della cappella di S. Serafino e nell'altare della Madonna della Pace nella chiesa dei cappuccini ancora ad Ascoli. Coadiuvò il fratello Lazzaro nel completamento della facciata principale del palazzo Anzianale (dal 1740), nell'erezione dell'altare del Corpo di Cristo nella chiesa di S. Francesco d'Assisi (dal 1751) e in quello del Crocifisso nella chiesa di S. Maria delle Grazie. Seppure di Lorenzo non sia emersa alcuna opera significativa, la sua presenza è testimoniata in diverse costruzioni minori, dove è evidente il suo apporto di lapicida e costruttore. Lorenzo morì ad Ascoli nel 1780.
Pietro, fratello minore di Lazzaro e di Lorenzo, nacque ad Ascoli nel 1699. Come Lorenzo operò all'interno della cerchia familiare, presente con i fratelli nei cantieri di S. Agostino (1731), di S. Maria delle Grazie (dal 1744) e di S. Francesco (dal 1751). Al suo nome è accostata la realizzazione del convento degli agostiniani dell'Angelo Custode presso la porta Romana di Ascoli (1741). In quest'ambito, riveste un certo interesse il timbro stilistico adottato per il portale d'ingresso, che adotta forme barocche desunte dalla decorazione degli ingressi seicenteschi del palazzo del Grillo a Roma.
Sulla sua attività indipendente si hanno scarse notizie, in quanto il suo nome si sovrappone con gli altri membri della famiglia. Secondo Leporini (p. 183), tuttavia, Pietro fu probabilmente autore di diverse residenze minori ascolane, curando in particolare l'elemento plastico decorativo. Con la sua scomparsa, avvenuta nel 1785, si chiude la dinastia dei G. che, a differenti livelli d'importanza, svolse il proprio ruolo nell'indotto ascolano per circa due secoli.
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