GIOLITO DE' FERRARI, Gabriele
Nacque, probabilmente nel primo decennio del XVI secolo a Trino, nel Vercellese, da Giovanni senior e Guglielmina Borgominieri. Doveva essere il primogenito, o comunque quello tra i figli che il padre, tipografo, elesse per avviarlo all'arte e trasmettergli l'impresa familiare. Così il G. seguì Giovanni nei suoi spostamenti tra il Piemonte e Venezia, e si stabilì infine con lui nella città lagunare nel 1523. All'inizio degli anni Trenta doveva già avere raggiunto una conoscenza dell'arte tipografica sufficiente, se il Giovanni gli affidò l'officina veneziana prima di recarsi a Torino, dove avviò una nuova azienda.
Dopo la morte del padre (1539 o 1540), il G. dovette a sua volta recarsi da Venezia a Trino, per chiarire le spinose questioni ereditarie. Il G. e i figli nati dai primi due matrimoni di Giovanni si opponevano al riconoscimento dei fratellastri Ludovica, Cornelia, Eleonora e Giovanni Cristoforo (II), nati dalla terza moglie, Dorotea dei conti di Tronzano, sposata da Giovanni posteriormente alla stesura del testamento il 31 ott. 1527. La vedova insisteva per una rapida compilazione degli inventari delle officine, e pensava a una sollecita liquidazione dell'azienda - che comunque non sarebbe stata in grado di gestire - anche per favorire i suoi quattro figli, tutti minori. Il G. mirava invece a salvaguardare l'impresa editoriale e tipografica creata con tanto successo e abilità dal padre, essendo anche l'unico a poterne garantire una gestione efficiente. La lite fu affidata a un arbitro, il magistrato Guglielmo da Biandrate, il quale stabilì che il G. dovesse inventariare tutti i beni e renderne conto a lui entro un anno, affinché si potesse procedere a una divisione tra gli eredi. In realtà, il G. non mantenne le scadenze, accampando come scusa sia il fatto che il patrimonio era disperso in varie città sia la situazione di guerra di quegli anni. A una conciliazione tra le due parti non si giunse neanche quando, nel 1545-46, il G. iniziò finalmente a preparare gli inventari. Fu poi lui stesso, ormai nel pieno dell'attività, a decidere di sanare la situazione, nel 1550, costituendo una società commerciale ed editoriale con i fratelli Giovanni Francesco e Facino (Bonifacio) e con il fratellastro Giovanni Cristoforo. Egli avrebbe goduto da solo della metà degli utili, mentre l'altra metà sarebbe stata divisa tra i soci. Le edizioni sociali furono sottoscritte "Appresso Gabriel Giolito de' Ferrari e fratelli", fino al 1556, quando la società fu sciolta.
Il G. aveva iniziato la sua attività circa dieci anni prima della società, nel 1541, a Venezia, dove risiedette stabilmente ed ereditò l'azienda paterna, di cui conservò la marca, la fenice che risorge dalle fiamme, con la sola sostituzione delle proprie iniziali a quelle del padre, ma in italiano ("G. G. F."), e alternando vari motti: "De la mia morte eterna vita io vivo", "Semper eadem", "Vivo morte recepta". A giudicare dai caratteri delle prime edizioni veneziane, alquanto logori, a parte alcune iniziali istoriate e alcuni fregi, il Bongi formula l'ipotesi che il padre Giovanni, e all'inizio anche il G., usassero i caratteri delle officine di Bernardino Giolito de' Ferrari detto lo Stagnino, proveniente anche lui dalla stessa famiglia di Trino, e di B. Zanetti, tipografo bergamasco trapiantato a Venezia, che proprio nel 1541 aveva cessato le pubblicazioni e che in seguito forse era andato in rovina, a giudicare da un'invettiva scritta contro di lui da A.F. Doni (inclusa nel volume delle Lettere, Firenze 1547). Lo Stagnino aveva cessato l'attività tipografica nel 1538: nel 1543 il G. stampò il commento del venerabile Beda alle Epistolae di s. Paolo aggiungendo in fine: "Characteribus Domini Bernardini Stagnini sibi accomodatis".
L'inizio dell'attività del G., nel 1541, è con tre facili ristampe: i Dialogi piacevoli e Il Petrarchista di N. Franco (stampati da Giovanni Giolito senior nel 1539), ma anche il Cortegiano di B. Castiglione (prima di una serie di ristampe). L'anno seguente fece uscire tredici volumi, tra i quali un Decameron e un Orlando furioso ornati di xilografie, ma ancora ricorse al prestito di caratteri di altri: B. Stagnino e Comin da Trino, un altro compaesano che aveva bottega a Venezia, con il quale il G. stampò, sempre nel 1542, l'Interpretazione dei sogni di Artemidoro Daldiano.
Nel 1544 il G. sposò Lucrezia Bin, dalla quale ebbe dodici figli, la metà dei quali morirono in tenera età (una delle figlie, dal nome singolare di Fenice, si fece suora intorno al 1570). Parte dei 2500 scudi portati in dote dalla moglie furono utilizzati per potenziare la tipografia, provvedendola di caratteri nuovi, fregi e iniziali figurate; l'officina divenne in questo modo non solo una delle meglio provviste di Venezia, ma anche una delle più apprezzate per novità e distinzione.
Il G. può essere considerato il miglior rappresentante di quel rinnovamento dei caratteri nel senso di una maggiore leggerezza ed eleganza che verso il 1540 si era diffuso nelle tipografie veneziane, soprattutto nelle stamperie nuove (quelle di F. Marcolini, M. Tramezzino, Comin da Trino, V. Valgrisi, G. Grifio). La disponibilità di capitale iniziale rese indipendente il G. e gli diede la possibilità di scegliere clienti e commissioni. Egli era un uomo colto, frequentava eruditi e uomini di cultura, e riuscì a intessere una trama di relazioni che poi mise a profitto ai fini della sua attività. Seppe attrarre intorno alla sua officina, tra gli altri, l'Aretino, N. Franco, che lo definì il suo più caro amico (nel Dialogo delle bellezze, Torino [ma Casale Monferrato] 1542), E. Bentivoglio, C. Tolomei, B. Tasso, G. Giraldi Cinzio, A.F. Doni, G. Landi, O. Lando.
Il G. si trovò in qualche modo coinvolto nell'acerrima disputa tra il Franco e l'Aretino: nel 1539, al culmine della lite, l'Aretino giunse a inviare persone a controllare che nelle opere che Franco stava stampando in quel momento nell'officina del padre del G. non vi fosse scritto nulla contro di lui. L'Aretino stesso si affidò poi al G. quando, tra il 1545 e il 1549, il suo stampatore favorito, F. Marcolini, fu assente da Venezia: gli commissionò, fra l'altro, la stampa del terzo libro delle Lettere (1546), di cui lamentò però la scarsa correttezza, senza peraltro interrompere i rapporti con il G.: anzi affidandogli in seguito le sue commedie e tragedie, e nel 1557 il sesto libro delle Lettere, ultima opera dell'Aretino a essere pubblicata in Italia prima di un lungo oblio che sarebbe durato quasi tre secoli. Da una lettera di ringraziamento dell'Aretino per il dono di un esemplare di lusso dell'Orlando furioso del 1542, si ricava una delle migliori lodi al G., spesso citata, nella quale l'erudito toscano riconosce al tipografo di fare "mercantia più d'onore, che d'utile".
Nel 1548 e 1549 il G. stampò un singolare volume, intitolato Lettere di molte valorose donne, nelle quali chiaramente appare non essere né di eloquentia né di dottrina alli huomini inferiori, sorta di falso letterario, perché tutte le lettere erano state scritte da O. Lando, che figurava invece come raccoglitore. Altri letterati furono alle sue dipendenze e anche al suo soldo come compilatori, traduttori, correttori, spesso ospiti nella sua casa, come accadde a L. Dolce, curatore redazionale di testi per i Giolito fino alla morte (1568), che si valse del tipografo anche per pubblicare suoi lavori. Collaborarono con il G. anche A. Brucioli, L. Domenichi, F. Sansovino, F. Baldelli, R. Nannini, T. Porcacchi da Castiglion Fiorentino, O. Toscanella, F. Turchi, Alfonso de Ulloa. Tutti costoro erano soprattutto esperti di letteratura volgare, e la loro scelta era in sintonia con l'intenzione del G. di rendere fondamento principale del suo commercio opere in lingua. Era una scelta non del tutto esente da rischi, in un periodo nel quale ancora molti osteggiavano il volgare e aborrivano i volgarizzamenti, ritenuti profanazioni.
Tra il 1522 e il 1560 il G. stampò 22 edizioni delle Rime del Petrarca, 28 dell'Orlando furioso (l'ultima delle quali nel 1560, quando l'indirizzo centrato sulla letteratura in volgare era stato abbandonato dall'officina), 9 del Decameron. Dell'Ariosto stampò anche le Satire (1550) e le commedie (dal 1553 in poi). Dante fu pubblicato solo due volte: nel 1536 da Giovanni, per la stampa di Bernardino Stagnino, con otto incisioni tratte da disegni del Botticelli; e nel 1555 dal G., con postille marginali del Dolce, edizione che porta per la prima volta l'appellativo "divino", riferito al poeta, che divenne poi familiare al titolo dell'opera. Il Dolce non si peritò, in una edizione del Furioso del 1542, di ritoccare arbitrariamente il testo: fu lo stesso G., nel 1555, a fare ammenda di tali ritocchi, annunciando di voler ripartire dall'esemplare ferrarese del 1532. Nel 1557 stampò la Libraria del Doni, uno dei primi saggi di bibliografia italiana. Nel 1552-53 pubblicò una dozzina di libri spagnoli, curati per lo più da Alfonso de Ulloa, letterato castigliano residente a Venezia; ma anche in seguito continuò a stampare versioni italiane dallo spagnolo e due edizioni delle Osservazioni della lingua castigliana di G. Miranda, una delle prime grammatiche spagnole a uso degli Italiani.
A far cambiare direzione alle scelte del G. fu la nuova situazione maturata dopo la metà del secolo: la restaurazione cattolica, il concilio di Trento, la pubblicazione dei primi Indici dei libri proibiti colpirono soprattutto la letteratura che il G. prediligeva ed egli fu rapido nel cambiare direzione. Abbandonò le stampe di letteratura volgare amena e si rivolse completamente alle opere di devozione e alle traduzioni di autori greci e latini. Di questi ultimi ebbe l'idea, precorrendo i tempi, di fondare una collana, introducendo tra i primi questo concetto nell'età moderna. La chiamò "Collana istorica" e si proponeva di pubblicarvi tutti gli storici greci e latini tradotti e i principali italiani. Curatore fu T. Porcacchi, che pubblicò il programma della collana nelle dedicatorie delle traduzioni di Polibio e di Tucidide, uscite nel 1563, e di Ditti cretese e Darete frigio del 1570. Il programma degli storici greci prevedeva testi storici alternati a opere moderne di erudizione, tra cui alcune del Porcacchi stesso, sugli usi e le istituzioni degli antichi, con il fine di facilitare la comprensione dei primi. Il G. non riuscì a portare a termine l'impresa per fatti indipendenti dal mercato librario, che aveva risposto positivamente all'idea, cioè a causa della peste che infuriò a Venezia tra il 1575 e il 1577, alla quale egli sopravvisse, ma per morire poco dopo. I figli e successori non continuarono l'impresa.
Anche i libri di argomento religioso fornirono ampia materia di stampa, fin dall'inizio dell'attività del Giolito. Rimanendo fedele ai suoi principî, si dedicò, però, soprattutto a testi in volgare di pratica religiosa, di pietà, rivolgendosi a un vasto pubblico di devoti. Anche per questo tipo di libri tentò una sorta di collana, basata su scritti ascetici e di predicazione, che chiamò "Ghirlanda spirituale". Il primo volume raccoglie le opere del domenicano Luigi da Granata, in traduzione, nel 1568. Nonostante le buone intenzioni, anche il G. fu però accusato di vendere libri pericolosi o proibiti. Intorno agli anni Quaranta aveva stampato opere di Erasmo e di altri autori evangelici, in buona fede e prima del concilio di Trento. Fu processato per la sua succursale di Napoli, affidata prima al bresciano P. Ludrini e poi al bolognese G.B. Cappello. Il Ludrini denunciò il Cappello, che lo aveva soppiantato, accusandolo di tenere libri proibiti dall'Inquisizione napoletana. Il Cappello fu imprigionato e processato e il G. fu chiamato dinanzi al S. Uffizio di Venezia, accusato, tra l'altro, di essersi espresso in modo favorevole nei confronti di B. Ochino, che aveva sentito predicare nella chiesa dei Ss. Apostoli, e di aver ospitato persone sospette. Si difese però talmente bene di fronte al tribunale da convincere i giudici a mettere fine al processo (la lista dei libri proibiti del Cappello e i documenti relativi ai processi al Cappello e al G. sono in Bongi, I, pp. LXXXV-CIX).
Oltre al buon intaglio dei caratteri, tra i quali si lasciano preferire i corsivi, dei quali aveva un larghissimo assortimento, soprattutto quelli che imitavano la scrittura cancelleresca, si fa credito al G. di avere usato buona carta e buon inchiostro. Molto belle poi le iniziali istoriate, quasi sempre parlanti, che divennero modello per altre contemporanee e successive. Fece intagliare xilografie per illustrazioni dell'Orlando furioso, del Decameron, delle Rime del Petrarca, e possedeva una serie di intagli rappresentanti scene bibliche o cristiane. Le sue illustrazioni furono lodate da G. Vasari. Raramente fece uso di frontespizi incisi; tra i pochi, bellissimo quello del Decameron del 1542. Nei Salmi penitenziali di diversi eccellenti autori, scelti dal padre Francesco da Treviso (1568), un grazioso in-dodicesimo, inserì una incisione elegante, ma audace, raffigurante Betsabea al bagno, poco consona a un volume di pietà, tanto è vero che nella maggior parte degli esemplari la si trova lacerata o coperta d'inchiostro. Nella ristampa del volume del 1572 l'immagine fu sostituita da quella del crocefisso. Le figure erano utilizzate anche per altre opere, e il G. adoperava i legni finché erano logori. La stamperia, oltre ai torchi, doveva avere anche macchine per tirare figure in rame; per queste, il G. si valse soprattutto dell'opera di E. Vico, famoso incisore parmigiano, e di G. Gastaldi per le carte geografiche. Annesso alla tipografia era anche un laboratorio di legatura. Bellissima la legatura delle Rime di Petrarca edite da A. Vellutello nel 1545, in marocchino rosso e piccoli ferri, con lussuose dorature e tagli dorati, e al centro dello specchio posteriore la figura della fenice che risorge dalle fiamme.
Tra le edizioni più belle dal punto di vista tipografico, le Lettere di C. Tolomei (1547, con numerose ristampe), in quarto, con nuovi caratteri disegnati dal Tolomei stesso; poi l'elegantissimo Asino d'oro di Apuleio nella traduzione di A. Firenzuola, del 1550; le Metamorfosi di Ovidio, tradotte da L. Dolce, del 1553, illustrato da 95 vignette, 79 delle quali approntate per quella specifica edizione forse su commissione del Dolce stesso, raffinato conoscitore di disegni e stampe. Di quest'ultima edizione il G. vendette in quattro mesi le 1800 copie che, secondo il Bongi, corrispondevano alla prima tiratura, e dovette procedere a un'altra tiratura già prima della fine dell'anno. Il volume venne ristampato nel 1555, 1557, 1558 e 1561. Il G. predilesse peraltro i piccoli formati, soprattutto l'in-dodicesimo e stampò pochissimi volumi in folio, tra cui la Retorica di B. Cavalcanti, del 1559.
Come tanti tipografi contemporanei e successivi, il G. usava aggiornare edizioni di cui erano rimasti fondi di magazzino, cambiando la data, soprattutto quelle in numeri romani, che si prestavano facilmente prima di riproporle sul mercato come se fossero ristampe originali. Fu anche uno dei primi tipografi a tirare edizioni in carta turchina, color cenere, l'unico conosciuto nelle cartiere in alternativa al bianco, ottenuto con un'erba detta "guado". Alcuni esemplari sono stampati su pergamena.
Tra il 1555 e il 1560 l'officina fu coinvolta nel generale peggioramento dell'arte tipografica veneziana. Improvvisamente, ai caratteri nitidi ed eleganti ne successero di meno eleganti e sbavati, l'inchiostro divenne meno brillante, la carta di qualità peggiore. I frontespizi persero la sobrietà e divennero verbosi, mal distribuiti e con caratteri male armonizzati fra loro. Anche i caratteri, prima proprietà del singolo editore, divennero comuni a più tipografi, anche di altre città d'Italia; in particolare un carattere introdotto intorno al 1556, chiamato "lettera moderna" o "comune antico", che si diffuse rapidamente nella penisola. Tutte queste vicende e difficoltà non determinarono, però, un rallentamento dell'attività dell'officina; anzi, in particolare gli anni 1566 e 1567 sono quelli della maggior produzione.
D'altronde il G., forse per la solida situazione economica di partenza, non ebbe mai a soffrire delle crisi improvvise cui era soggetta l'attività tipografica. La sua bottega a Venezia, la cosiddetta Libreria della Fenice, era posta nel cuore commerciale della città, in Rialto, in contrada S. Apollinare. Casa e officina coincidevano, come spesso per i tipografi, e la bottega era anche luogo d'incontro per uomini di lettere. La casa doveva essere sufficientemente comoda e decorosa, visto che nel 1566 vi alloggiò il duca di Mantova Guglielmo Gonzaga. Aveva poi botteghe succursali, che nel 1565 risultavano tre: a Napoli, a Bologna e a Ferrara, probabilmente tutte e tre con l'insegna della fenice. Manteneva inoltre intensi rapporti commerciali e corrispondenza con librai italiani (a Mantova F. Osanna, G.B. Moscheni, A. Palazzolo) e stranieri. Tra i librai stranieri ebbe stretta relazione soprattutto con G. Rouillé di Lione. Donava regolarmente esemplari con belle legature, tagli dorati e fogli in carta turchina ai grandi del suo tempo e ne era ricambiato. Da Carlo V ricevette un'opera d'arte (non è noto di che oggetto si trattasse esattamente) raffigurante la fenice, oltre a un privilegio attestante antica nobiltà, confermatogli da Massimiliano II. Il Senato veneto gli conferì la cittadinanza. Ottenne anche delle cariche: nel 1571 era uno dei due consiglieri che, insieme con il priore, reggevano l'università dei librai e stampatori di Venezia.
Verso il 1570 si avverte un rallentamento nella produzione, e così negli anni successivi, travagliati, tra l'altro, dalla pestilenza del 1575-77.
Il G., la cui salute era declinante, superò incolume l'epidemia, ma morì subito dopo, nei primi mesi del 1578, anno nel quale furono stampati dall'officina volumi con il suo nome e altri con la dicitura "Eredi". Fu sepolto nella chiesa di S. Marta.
Il G. godette della lode indiscussa dei contemporanei. T. Tasso, in una lettera a Scipione Gonzaga del 15 ott. 1584, gli conferisce, insieme con Aldo Manuzio, il primato fra i tipografi; Orazio Lombardelli, autore di un singolare studio intitolato Arte del puntare gli scritti (Siena 1585), lo loda per la corretta ortografia, ponendolo tra quelli che considerava i sei maggiori di quell'arte: i veneziani Aldo e Paolo Manuzio, il G. appunto, V. Valgrisi, S. Grifio di Lione e F. Giunti di Firenze.
Le migliori edizioni del G. furono in seguito sempre apprezzate e ricercate dai bibliofili; alcune sono rare o introvabili: del suo Indice dei libri proibiti del 1554 non è rimasto alcun esemplare.
Il figlio Giovanni iunior, nato tra il 1554 e il 1555, alla morte del G. condivise la proprietà della ditta con il fratello Giovanni Paolo. Secondo la tradizione familiare, si applicò nello studio, forse avendo come maestri i tanti amici eruditi del padre. Entrò nella vita della stamperia dal 1568, con dediche e traduzioni dal latino e dallo spagnolo. Per volontà del padre studiò diritto a Padova. Alla morte del G. assunse l'intera responsabilità dell'officina, dato che il fratello minore Giovanni Paolo aveva solo sedici anni. Non dovette rimpiangere molto gli studi legali, perché non se ne occupò più, rivolgendosi semmai alla letteratura, e non stampando neanche libri di diritto. Con il fratello seguì le orme del padre e pose ancor più l'accento sui volumi di religione, tra i quali nel 1588 stamparono il testo della Vulgata.
Nel 1584 aveva instaurato contatti con il libraio-editore G. Martinelli, attivo a Roma, che divenne corrispondente dell'azienda veneziana; in questo modo i Giolito si inserirono nel mercato romano del libro, consentendo al Martinelli di usare la loro marca.
Morì prematuramente, nei primi mesi del 1591.
L'officina fu presa in mano dai figli e dal fratello Paolo, ma era in declino, e Paolo non sembrava avere la volontà di continuarla. La produzione si interruppe dal 1593 al 1596 e nel 1600, poi, dopo una sola edizione nel 1601, di nuovo fino al 1606, quando uscì l'ultimo volume dell'officina veneziana di Giovanni junior. Probabilmente Paolo mantenne in vita l'officina fino allo svuotamento dei magazzini. La conferma di ciò è nella pubblicazione, nel 1592, quindi dopo la morte di Giovanni, dell'unico catalogo delle stampe dei Giolito con i prezzi, che ha tutta l'aria di essere stato stampato per facilitare lo smercio delle giacenze. Probabilmente anche caratteri e suppellettili furono venduti.
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