DEL BARBA, Ginesio
Figlio di Giovanni Francesco, contadino (Mussi, 1916), nacque il 17 ott. 1691 a Massa nel borgo del Ponte (Arch. della cattedrale, Libr. bapt. 1681-1725).
Poiché aveva manifestato una forte inclinazione per il disegno, fu affidato a un pittore che gli insegnò i rudimenti dell'arte. In quel periodo, a Massa, Stefano Lemmi lavorava agli affreschi del teatro e del palazzo ducale: potrebbe quindi essere stato questi il maestro del D., definito mediocre (Campori, 1873) per far meglio risaltare i meriti dell'allievo. Marrini (1766) assicura che il D. cominciò molto presto a "colorir varie tele". Intorno al 1716, non riuscendo a guadagnarsi da vivere, si recò a Roma (Roma, Arch. stor. del Vicariato, Positiones, 1724, Notaio de Rubeis), ove trovò protezione tra gli aristrocratici di Massa ivi residenti: l'avvocato Pietro Guerra e il conte Ceccopieri, che lo introdusse presso monsignor Camillo Cibo.
Quest'ultimo gli avrebbe in seguito offerto di dipingere a tempera alcune sale del proprio palazzo; il Campori (1873) sostiene che il giovane artista rifiutò l'incarico perché non si sentiva all'altezza. E difatti nel 1716 il D. non figurava fra i pittori che decorarono la villa del Cibo a Castel Gandolfo. Non è da escludere, d'altra parte, che in seguito, divenuto esperto, il D. abbia lavorato per questo prelato le cui dimore erano tappezzate di "arazzi finti": in particolare l'eremo di Monteluco, vicino a Spoleto, che egli abbellì nel 1724 con "tele dipinte ad uso di grottesco e boscarecce".Ma poiché era venuto a Roma per curare la propria educazione, il D. si separò da monsignor Cibo per impegnarsi negli studi con un accanimento che tutte le fonti sottolineano. A causa delle sue ristrettezze economiche, dovette comunque entrare al servizio del card. F. A. Gualtieri, che generosamente gli permise di "continuare le sue studiose occupazioni nel museo di sua casa" (Marrini). Nel 1711 e nel 1722 il D. venne censito nella famiglia del cardinale come "cameriere" (Roma, Arch. stor. del Vicariato, S. Lorenzo in Lucina, Status animarum, 1721, f. 66v; 1722, f. 268v). Acquistata in seguito la propria indipendenza, si stabilì definitivamente a Roma, dove si sposò una prima volta nel 1724 (Ibid., S. Francesco di Paola, Libr. matr. 1721-1757, f. 43r). Rimasto vedovo nel 1734 (Ibid., S. Lorenzo in Lucina, Libr. mort. 1725-1737, f. 174r), si risposò l'anno dopo, senza lasciare però la parrocchia di S. Lorenzo in Lucina e abitando prima in via Paolina, poi in via Ripetta.
Ciò che rese famoso il D. non fu la scoperta di nuove tecniche, ma la perizia con cui usava i colori di "sughi d'erba" per imitare le tappezzerie, assecondando così il gusto assai diffuso, soprattutto per le ville della Campagna romana, di rivestire le pareti nude con costi inferiori a quelli delle stoffe vere e proprie. Il Gabburri (1719-41) riassume così il talento del D. "Questo si è fatto conoscere eccellente maestro nel contrastare in pittura gli arazzi, tanto di boscherecce quanto di figure nelle quali si porta assai ragionevolmente. Opera ancora in grottesche all'uso di Perino del Vaga, di Giovanni da Udine e di Monsù Berain, dipingendo con sughi d'erbe, onde i suoi lavori non perdon mai il loro vivace primiero colore benché lavati più e più volte".
Subito ebbe tra la sua clientela le grandi famiglie romane, lavorando all'inizio per i Pamphili (la duchessa di Massa nasceva Teresa Pamphili). Tra l'altro, per i Pamphili egli eseguì una serie di dipinti con Episodi della vita di s. Paolo "persupplire alla mancanza degl'arazzi veri" (Marrini, 1766), mentre per gli Odescalchi ornò con le sue imitazioni, "somigliantissime", tre stanze del loro palazzo (non è stato possibile un controllo nell'archivio).
Un atto notarile del 1° dic. 1730 menziona un pagamento del conte Giovanni Battista Guerra, di Massa, per alcune tele dipinte a Roma per il figlio Pietro (Campori, 1873). Dopo il 1730 il nome del D. compare a più riprese nelle descrizioni di apparati per feste.
Nel gennaio dello stesso anno, in occasione della cerimonia solenne per la beatificazione del lorenese Pierre Fourier, il D. aveva dipinto due miracoli del beato in due grandi ovali, posti all'esterno e all'interno del portico di S. Pietro.
Nella Descrizione del sontuoso sagro apparato fatto erigere nell'insigne basilica de' SS. Lorenzo e Damaso per l'esposizione del SS. Sagramento dall'E.mo e R.mo... Cardinale Pietro Otthoboni..., pubblicata a Roma nel 1734, e in quelle del 1735 e del 1736, egli è citato come pittore di figure per le decorazioni effimere concepite dal cardinale stesso e messe in opera dal suo "architetto" Giovanni Battista Olivieri, che celebravano la Gloria di s. Giovanni Battista, la Supplica dei sette vescovi d'Asia a s. Giovanni Evangelista, e S. Silvestro papa che battezza l'imperatore Costantino.
Seguirono quindi gli anni più fecondi della carriera del D., che sono anche quelli meglio conosciuti grazie alle opere ancora in loco, le quali permettono di apprezzarne il talento. Nella cattedrale di Massa esiste ancora uno dei suoi arazzi finti con La consegna delle chiavi a s. Pietro, spedito da Roma e offerto dal pittore alla collegiale di S. Pietro - poi demolita - in segno di affetto verso la città natale e soprattutto per riacquistare un "livello". Una menzione del 1732, negli atti del capitolo, ricorda che un debito annuale dei Del Barba sarebbe stato rimesso "pro tapetibus" da lui dipinti "ad ornatum nostrae Ecclesiae" (Mussi, 1916).
A Roma, nel palazzo Pamphili sul Corso, ricostruito da G. Valvassori, furono affidati al D. i dipinti delle volte, delle lunette e degli sguinci delle finestre, nelle gallerie settentrionali e meridionali del primo piano.
La decorazione della prima galleria, oggi in cattivo stato, fu eseguita nel 1731. La decorazione della seconda, nel "braccio" lungo S. Maria in via Lata (1734-1735), è costituita da motivi centrali (figure sorreggenti emblemi araldici e trofei, su fondo azzurro), contornati da fronde, fiori e grottesche. Questa decorazione "ad uso cinese" mostra nello stesso tempo la precisione del disegno e la ricchezza d'immaginazione del Del Barba.
Nella villa Belvedere di Frascati, che in quegli anni era passata in eredità dagli Aldobrandini ai Pamphili, il D. realizzò forse il suo capolavoro, lasciandovi eccezionalmente la firma. Su richiesta del principe Camillo, dipinse nel grande salone del primo piano due "arazzi finti a sughi d'erbe": uno, sopra il caminetto, raffigura la Fucina di Vulcano, l'altro, di fronte, Il Monte Parnaso, che richiama il complesso scultoreo di una delle sale del ninfeo. Sul soffitto celebrò il Trionfo della casa Pamphili.Pare che questo lavoro salisse agli anni 1747-1748 e fosse stato appena terminato alla morte del principe.
Nel 1736 la famiglia Corsini acquistò il palazzo Riario a Roma e lo fece trasformare da Ferdinando Fuga; i lavori di decorazione iniziarono subito. Il D. vi lavorò fino al 1753, dipingendo in più tappe, "sguinci e zoccoli" e una sala con storie della Gerusalemme liberata, recentemente identificata (Borsellino, 1987): prima (1737-38) lavorò nella parte antica del palazzo, poi nelle sale del piano nobile e del secondo piano (che corrispondono alla biblioteca installata nel 1748), e infine, tra il 1750 e il 1753, nel corpo di facciata che collega l'antico edificio con il nuovo.
Nel 1749 nella "camera del camino" di palazzo Chigi a piazza Colonna fu posto un "arazzo finto" (del quale non resta traccia) che rappresentava "un fatto di arme di Alessandro Magno con figure grandi al naturale", un paesaggio e un fregio in cui si intrecciavano frutti fiori e sei putti (Bibl. ap. Vat., Arch. Chigi, vol. 1162, n. 101). A Gallese (Viterbo), nella chiesa di S. Famiano, c'erano undici tele con i miracoli del santo titolare (cfr. Bibl. sanctorum, V, Roma 1964, p. 450, e Borsellino, 1987): otto sono state rubate e due, ancora conservate in sagrestia, rappresentano il miracolo della donna cieca e quello del fanciullo che precipita dalle mura. Un'altra tela, a forma di lunetta, restata al suo posto sull'arco di trionfo, evoca l'apparizione dei ss. Pietro e Paolo che ordinano a s. Famiano di recarsi a Gallese. L'insieme era datato 1754.
Il successo del D. è indubbio. Nel 1749 fu eletto primo rappresentante dei pittori di "perspettive, ornati e grotteschi" per negoziare, ma invano, la loro ammissione all'Accademia di S. Luca (Arch. d. Accademia di S. Luca, vol. 33). Il suo patrimonio non era trascurabile e le operazioni finanziarie furono numerose e si concretizzarono nel 1752 con l'acquisto dai Terribilini, artigiani al servizio dei palazzi apostolici, di una bottega di "coloraro", sita in piazza Colonna nel palazzo Spada, dove venivano a rifornirsi molti noti pittori e che il D. affidò in gestione a terzi (Arch. di Stato di Roma, 30 notai capitolini, Ufficio 8, busta 347, ff. 41 s.).
Il suo Autoritratto a fresco, proveniente dalla collezione Pazzi e poi entrato nella collezione del granduca di Toscana, è oggi disperso, ma ne resta un'incisione nell'opera del Marrini, che ritrae l'artista nell'atto di dipingere un'allegoria.
Egli si riteneva pittore di figure e non semplice ornatista. Dalle sue disposizioni testamentarie (Arch. di Stato di Roma, 30 notai capitolini, Ufficio 8, busta 358, ff. 1 s.) traiamo qualche ulteriore notizia sulla sua famiglia (una sorella e un fratello già deceduti e alcuni nipoti, al maggiore dei quali egli lasciò una casa a Massa), sui suoi amici (tra i quali il pittore Carlo Magli detto Vallone, "professore di pittura e mio bene affetto", al quale lasciò 150 disegni fra cui quelli delle logge di Raffaello) e su lui stesso, dato che rivela il soprannome "Franzé" (che portavano i primogeniti della sua famiglia) e sulla ricchezza dei suoi cartoni pieni di disegni ed incisioni, modelli per quegli "ornamenti alla cinese" che gli diedero fama.
Toccante è l'immagine della camera in cui morì il 25 dic. 1762 (Roma, Arch. stor. del Vicariato, S. Lorenzo in Lucina, Libr. mort. 1753-1764, f. 170v), la quale era tappezzata di "arazzi finti a sughi d'erbe" rappresentanti le "Storie del Tasso".
Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. naz., ms. Pal. E. B. 9, 5: F. M. N. Gabburri, Vite di pittori [1719-41], p. 1305; Relazione delle solennità per la beatificazione del beato Pietro Forier..., Roma 1730, pp. 2 s.; Diario ordinario (Cracas), 6 marzo 1734, pp. 8-10; 19 febbr. 1735, pp. 4-7; n° 2891, 11 febbr. 1736, pp. 6-9; O. Marrini, Serie di ritratti di celebri pittori dipinti di propria mano…, II, 1, Firenze 1766, p. 35, n. XVIII; G. Campori, Memorie biografiche degli scultori, architetti, pittori... nativi di Carrara, Modena 1873, pp. 84 s.; G. A. Matteoni, Guida delle chiese di Massa Lunese, Massa 1879, p. 26; L. Mussi, Il pittore settecentista G. D., in Arte e storia, XXXV (1916), pp. 21 ss.; C. D'Onofrio, La villa Aldobrandini di Frascati, Roma 1963, p. 97, ill. 56-60; U. Berti, Guida della basilica di S. Pietro e S. Francesco, cattedrale di Massa, La Spezia 1965, p. 44; M. S. Weil, The devotion of the Forty Hours and Roman Baroque Illusions, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XXXVII (1974), pp. 247 s.; G. Carandente, Il pal. Doria Pamphilj, Milano 1975, pp. 239, 242, 323, 330, figg. 191 s.; S. Meloni Trkulja, La collezione Pazzi..., in Paragone, XXIX (1978), 343, p. 96, tav. 92b; G. Torselli-E. A. Safarik, La gall. Doria Pamphilj..., Roma 1982, ill. 8; S. Rudolph, La pittura del '700 a Roma, Milano 1983, p. 748, tav. 32; E. Borsellino, Le decorazioni settecentesche di Pal. Corsini alla Lungara, in Studi sul Settecento romano, III, Ville e palazzi: illusione scenica e miti archeologici, Roma 1987, pp. 181 s.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, II, p. 439 (sub voce Barba, Genesio del).