CASTI, Giambattista
Nacque ad Acquapendente (Viterbo) il 29 ag. 1724 da Francesco, nativo di Montefiascone, e da Francesca Pegna, di Cassino. All'età di dodici anni entrònel seminario di Montefiascone, sede anche dei vicari generali e quindi auditorio pubblico di cause civili e criminali. In questo seminario, reso allegramente canagliesco dalla promiscuità dei giovani allievi con la disponibile fauna delle aule giudiziarie spesso (soprattutto quella in gonnella) in sospetta peregrinazione tra i dormitori dei seminaristi e la troppo movimentata foresteria della curia vescovile, studiò fino all'aprile dell'anno 1744.
Nel 1747 egli ottenne un canonicato della cattedrale di Montefiascone e nel 1752, nonostante il suo anticonformismo, peraltro di scarso scandalo in un ambiente così compromesso, tenne, per pochi mesi la gratificante cattedra di eloquenza presso lo stesso seminario. Riottenne la cattedra nel 1759. E intanto intercalava il soggiorno in provincia con continui viaggi a Roma dove poteva contare sull'amico e concittadino abate Giambattista Luciani, segretario di monsignor S. Canale, e su aristocratiche matrone non sempre disposte però a tollerare la disinibita vwulenza del suo linguaggio che dissacrava l'ipocrita confettatura dei loro salotti. A Roma il C. inaugurò la sua lunga carriera di instancabile viaggiatore sostenuto da borghese gauloiserie, accompagnando a Parigi (nel 1759) la marchesa Lepri. Tra il 1760 e il 1761 lasciò definitivamente Montefiascone e si stabilì a Roma. Accolto in Arcadia con il nome di Niceste Abideno, diede alle stampe I tre giulii (Roma 1762), una raccolta di duecentosedici sonetti giocosi in endecasillabi tronchi, dedicata alla principessa Cecilia Mahoni-Giustiniani.
Con alle spalle e accanto solo una dispersiva rimeria d'occasione per lo più destinata ai riti salottieri di una società frivolo-galante e l'esercizio provinciale, benché di pregevole tenuta scolastica, dei Latina carmina (raccolti e pubblicati postumi: Prose e rime inedite nella lingua italiana e latina, Firenze 1834; Ioannis Baptistae Casti olim canonici ecclesiae Faliscodunensis et in seminario rhetoris Latina carmina, a cura di D. Sartinio, Faliscoduni 1859), questa prima fortunatissima raccolta di versi dà l'avvio a una vocazione parodistica alla quale il C. resterà sempre fedele. La banalità del tenia (le persecuzioni di un creditore ripagato a suon di tronche), sfrangiato con ossessive ripetizioni e ostentate trasudanze letterarie nell'ipertrofica misura della silloge, entra in ricercata confricazione con lo sperpero dei mezzi retorici dell'Arcadia più manierata: è il falsetto, nel gusto amabilmente ambiguo di una compromissione contestata, dell'ozioso costume letterario che aveva quintessenziato il "vezzo di vaga e graziosa poesia... nel mentovare. .. l'erbetta e l'agneletta, la quadrella e la pastorella". Affascinato dal "mestier di vagabondo" (e "onorato vagabondo", interessato a studiare "...le persone / di ogni classe, di ogni sorte, / da bordel fin alla corte",continuerà a definrisi in un più tardo Memoriale in versi: Poesie liriche, in Opere, Torino 1851, I, pp. 311-313), il 12 sett. 1764 il C. partì per l'Olanda - attraverso la Toscana, il Genovesato e la Provenza - al seguito di un non identificato marchese "particolare e stravagante". Ma a Marsiglia, per salvare l'"onoratezza",il "decoro" e la propria "convenienza",fu costretto a piantare il marchese che si era "innamorato d'una figlia d'un padron di barca in mezzo a un polverone di "gelosie di "sospetti" e di pericolosi "trasporti". Il ricordo dell'accidentato viaggio è affidato a un mazzetto di diciotto lettere indirizzate al Luciani, con "l'idea di ridurre forse a suo tempo tutte queste cose in forma di piccole memorie".
Si tratta di lettere "narrative" di spigliata inflessione parlata che denunciano subito la attitudine giornalistica dell'abate, il quale sa trasformare la scrittura odeporica in vivace relazione antropogeografica. La sua attenzione è attratta in prevalenza da tutto ciò che è insolito e diverso: dal "gusto d'osteria" dei genovesi che hanno il malvezzo di colorare le case "onde non si vede che muraglie dipinte di rosso, di giallo, verde, paonazzo e mill'altri colori",dal loro "sgraziato e scilinguato dialetto",o dalla loro facilità a divorziare; oppure dalla libertà delle donne di Marsiglia, che "non formano... una metà del genere umano inutile, oziosa e molle: ma sono tutte attive a faccendiere, utilmente impegnate ai lavori, nelle botteghe, nelle manifatture e persino nelle fatiche di campagna". In esse sono da ricercare inoltre remote suggestioni appena leggibili nella filigrana delle opere più mature: è il caso del bassorilievo romano dell'altare a Priapo, con "sopra... un magnifico membro virile con tutti i suoi annessi e connessi",ammirato ad Aix; il reperto archeologico si indovina infatti dietro il "tempierel" consacrato ai maiuscoli falli sottospirito, di cui si parla nel canto X del Poema tartaro (ottava XCIV).
Da Marsiglia il C. rientrò in Toscana. Giunse a Firenze all'inizio di settembre del 1765. Il granduca Pietro Leopoldo (a dispetto delle fosche previsioni del Luciani) lo accolse con onori e, il 15 dic. 1769, lo nominò "Poeta della Real Casa" con lo stipendio annuo di 300 scudi. A Firenze, nel 1769, apparvero le Poesie liriche, nelle quali viene svolta - con più vaste risorse e nel più contratto e cantabile - ritmo delle anacreontiche - l'esperienza parodistica dei Tre giulii. Attratto e insieme borghesemente respinto dalle galanterie della società mondana, il C. fa leva sul suo "gaio unior" per una letteratura leggera d'equipaggio a metà tra placido edonismo inteso come strumento di successo sociale e maliziosa parodia dei luoghi comuni dell'Arcadia crescimbeniana.
L'amicizia stretta a Firenze con il conte Franz Xaver Wolf Orsini-Rosenberg gli valse, nel 1769, la presentazione all'imperatore Giuseppe II in visita al fratello Pietro Leopoldo. Nel 1772 il C. si lasciò convincere dal Rosenberg a seguirlo a Vienna. La fama di apprezzato poeta della corte lorenese e la prestigiosa familiarità col Rosenberg (che diventerà gran ciambellano di corte e poi ministro e principe) gli facilitarono l'acclimatazione nei più alti circoli della società viennese. Qui entrò nelle grazie del figlio del principe di Kaunitz, che accompagnò nei suoi viaggi in Europa (nell'autunno del 1772 è già a Berlino) facendosi sicuramente apprezzare come lucido osservatore politico. Nell'ottobre del 1773 Casanova lo incontrò a Trieste in compagnia del Rosenberg, e lo conobbe come applaudito autore e dicitore di "novelle in ottava rima assai curiose, e nelle quali è gran pittore",in un "genere che non può essere compatito che da filosofi, applaudito da nessuno".
Questo primo disorientato giudizio di Casanova (espresso ad Averardo de' Medici, in una lettera della fine del 1773 pubblicata in Patrizi e avventurieri...,a cura di C. L. Curiel-G. Gugitz-A. Ravà, Milano 1930, p. 230) si evolverà in irrigidito disprezzo nei Mémoires, dove il C. verrà ricordato come ignorante pretenzioso, versaiolo impudico, buffone e ruffiano privato del Rosenberg: "fonctions bien adaptées à la bassesse de son caractère, mais peu convenables à sa qualité d'ecclesiastique" (VIII, Paris, Garnier, s.d., pp. 392 s.). Si integri tanto squallore con l'"amore sfacciato pel gioco, per le donne, per le dissolutezze" e il "carattere satirico, vendicativo e immemore de' benefici",contestatigli dal Da Ponte nelle sue Memorie (a cura di G. Gambarin-F. Nicolini, Bari 1918, I, pp. 112, 121-123), e si avrà la matrice ingenerosa e deformante di un ritratto maledetto rinnovato dal Parini e durato (con l'eccezione della "dignità" riconosciutagli da Croce) fin oltre il Carducci che lo ebbe per "giullare di tutto e di tutti, di favoriti e di favorite" (Letturedel Risorg., in Ediz. naz. delle opere, XVIII, pp. 11 s.). Visto come navigato "abate famelico" ulteriormente guastato dalla concupiscenza di piaceri negati alla sua condizione di uomo di chiesa, il "libertinismo" del C. (da intendere in positivo - con Apollinaire - come opposizione al conformismo ortodosso in nome di un razionalismo volteriano) è stato interpretato come dissolutezza e arbitraria deviazione da un corretto agire pilotate da sregolata sensualità: le sue opere di chiaro impegno illuministico verranno così relegate fra quelle del cosiddetto secondo scaffale, epperò condannate a una circolazione sottomantello o comunque pregiudicata, e i suoi continui viaggi saranno avviliti a smanioso e interessato avventurismo di poeta cortigiano.
In effetti il C. negli anni compresi tra il 1776 e il 1780 viaggiò freneticamente, ma in qualità di "membrino del Corpo Diplomatico" austriaco: come agente imperiale (informatore incaricato di redigere particolareggiate relazioni politico-militari), dette un non trascurabile contributo nelle trattative diplomatiche della casa d'Asburgo. I due viaggi a Pietroburgo, nel 1776 attraverso la Svezia e nel 1777-80 con partenza da Berlino, dovevano permettergli di fornire un giudizio circa le possibilità effettive di un'alleanza austro-russa, con finalità antiprussiane e con l'intento di rilanciare una più vasta politica d'esportazione nei paesi dell'Oriente. E in non taciuta polemica con l'indirizzo ufficiale della politica estera dell'Austria - sia detto a smentita della sua presunta cortigianeria - il C. assunse sulla questione una personalissima posizione antirussa, non mancando di denunciare l'ambiguità della zarina Caterina II che riuscì assai spesso a minimizzare le mire di Maria Teresa e di Giuseppe II; non a caso la zarina ("cogliona in nessuna maniera",e anzi "scaltra" e "ambiziosa") seppe piegare a suo esclusivo vantaggio l'alleanza austro-russa del 1779, rinnovata nel 1781: "Dopo l'epoche tartare dei Gengiscani e dei Tamerlani non offre la storia esempio alcuno de' sì rapidi e vasti progressi di potenza o di dominio, come questi, che in questo secolo ha fatto la Russia",scriverà nella manoscritta Cicalata politica (ms. 1629, ff. 152-161 dei Fonds Italiens della Biblioteca Nazionale di Parigi). Ancora nel 1790, alla morte di Giuseppe II, il C. spererà che Leopoldo si convinca a porsi fuori della vecchia linea politica imperiale e soprattutto a tagliare i rapporti diplomatici con la "rapace, infida, ingannevole, prepotente, inquieta, soverchiatrice, impertinente, pericolosa, insaziabile" Russia: nella ricordata Cicalata arriverà a proporre una diversa "strategia di alleanze internazionali" (Fallico) da contrapporre al "generale e illimitato sistema" politico sancito dall'alleanza. Intanto il C. aveva compiuto altri viaggi.
Alla fine del 1780 (o agli inizi dell'anno successivo) aveva attraversato la penisola iberica fino al porto di Faro, per imbarcarsi quindi alla volta di Genova alla fine del 1781. Dal gennaio del 1782, ammalato di sifilide, si fermò quasi stabilmente per un anno e mezzo a Milano. In questo periodo con molta probabilità lo conobbe Parini, che gli dedicò un sonetto feroce e strappapelle giocato sull'ossimoro tra la "castità" del nome e la "disonestà" della vita: "brutto, vecchio e puzzolente","satiro maligno" e "mostro" lussurioso roso alla gola dalla sifilide gli appariva l'abate che nei salotti milanesi andava recitando, con voce oscenamente sgraziata e nasale, le sue novelle galanti e tartare.
A Milano il C. portò a termine entro il marzo 1783 il Poema tartaro, presentato dall'amico M. Gherardini con pubblica lettura in presenza di pochi ma scelti uditori e con esito di "fanatismo" nella corte arciducale.
Il poema, che avrà a Milano nel 1796 una prima edizione anonima non autorizzata dall'autore, era nato alla spicciolata - con propositi di parodia del poema eroico e di controinterpretazione, su basi illuministiche, della Russia cateriniana esaltata dai philosophes -come serie di novelle tartare in ottava rima poi legate nella misura canonica di un poema di dodici canti. Concepita a Pietroburgo (dopo un primo entusiasmo per la zarina, consegnato all'ode Caterina II imperatrice di tutte le Russie che dà il titolo a un opuscoletto - s.l. né d. - nel quale si legge anche l'ode Per la felice nascita di Alessandro, principe di tutte le Russie), l'opera ebbe una stesura travagliata in coincidenza del sofferto viaggio nella penisola iberica, e spesso scoraggiata dalla certezza di una sua condanna all'inedito finché fosse durata l'alleanza austro-russa: "Dovrò io bruciar le mie Tartare novelle in vece di farle pubbliche?",aveva scritto l'angosciato C. in una lettera da Cadice del 31 ag. 1781 indirizzata a una "Eccellenza" (Parigi, Bibl. Naz., Fonds Ital., ms. 1629, f. 113). E lo stesso Joseph Kaunitz, ricordandogli la sua popolarità e la violenza della "veritiera" satira anticateriniana dei suoi versi, gli aveva fatto intendere chiaramente come l'opera avrebbe potuto causare inopportune noie diplomatiche tra l'Austria e la Russia. Gli enciclopedisti avevano ammirato in Caterina II la riformatrice illuminata di un paese notevolmente arretrato. Il C. nel suo pamphlet racconta invece con tono acrimonioso le vicende dell'"epicurea" corte della zarina dal suo avvento al trono imperiale (1762) fino al 1780 circa, retrodatandole però nel duecentesco impero mongolico dei khan: "...gran kane (che dir gran kagna è error d'ortografia)" è la stessa zarina perennemente in fregola, e l'ex crociato "Tommaso-kano" (con protestata "desinenza in ano"), scampato all'"onore" di una promozione ad eunuco quando era al servizio di un califfo, è il suo amante. La maschera mongolica del poema è decifrata da una "chiave" di lettura: la più completa è l'Indice e spiegazione delle persone e dei luoghi nominati nel poema tartaro colle loro rispettive allusioni (ms. 1628, ff. 370-375 dei Fonds italiens della Biblioteca Nazionale di Parigi).
L'elemento mongolico non è la cornice allegorica del poema (magari per lenire i morsi della satira), come si continua a ripetere. Il C. studiò il Medioevo russo (servendosi delle memorie di viaggiatori o missionari, e di opere storiche quali l'Histoire générale des Huns, ... Mongols.... di J. De Guignes e l'Histoire de Gentchiscan et de toute la dynastie de Mongoux di A. Gaubil), per aver gli strumenti che gli permettessero un'ardita operazione letteraria fondata su un tempo mitico di perenne contemporaneità. L'impero, di Turrachina o Cattuna (com'è chiamata Caterina nel poema) è duecentesco e settecentesco insieme: dernistificandone la velleitaria patina europeizzante e riformatrice, sotto la quale ribolliva tutto un mondo barbarico costruito su una famelica ginecocrazia, sul favoritismo di corte e sullo sfruttamento bestiale dei contadini infine esplosi nella ribellione di Turcano-Pugačëv, il C. intendeva fissare la condizione di perpetuo medioevo asiatico di un paese sterminato che minacciava di riversarsi sull'Europa con la complicità incolpevole della pubblicistica illuministica. La Russia era per l'Europa - secondo il C. - una "contagiosa cancrena",da isolare culturalmente e politicamente in modo da costringerla "a riconcentrarsi a Mosca erinunciare a ogni influenza e ingerenza europea, e ritornare come le altre volte a divenire potenza asiatica". Né questo poema (che tanto piacerà a Byron) ci certifica una immagine eccentrica della Russia della zarina, se l'interpretazione del C. veniva a coincidere (autonomamente) con quella di altri osservatori politici contemporanei, quale, per esempio, l'anticastiano cavaliere de Corberon, che era incaricato d'affari di Francia e che così scriveva: "sembra che vi siano due popoli, due nazioni diverse sulla stessa terra; vi trovate nello stesso tempo nel quattordicesimo e nel diciottesimo secolo".Il C. partì da Milano nel giugno dell'anno 1783. Dopo soste a Parma, Mantova, Verona e Padova, alla fine di settembre egli rientrò a Vienna, con la speranza di ottenere la carica di poeta cesareo rimasta vacante per la morte del Metastasio nel 1782. Già a Pietroburgo, in occasione della nascita (12 dic. 1777) del nipote di Caterina II, Alessandro, figlio di Paolo e della principessa di Württemberg, si era improvvisato autore drammatico con l'"operetta a cinque voci" Lo sposo burlato musicata da Paisiello e stampata a Pietroburgo nel 1779 in una duplice edizione in lingua italiana e in lingua russa.
Nonostante gli evidenti saccheggi dal Socrate immaginario del Lorenzi, probabilmente incoraggiati dallo stesso Paisiello che così aveva avuto modo di utilizzare brani del suo antecedente commento musicale di sperimentato successo, questa prima improvvisazione (che il C. neppure tenne nel conto dei suoi melodrammi) testimonia di una preferenza satirica mai smentita nel corso della successiva carriera teatrale a Vienna. L'operetta, divisa in due parti, è una satira dei poetastri ridicolizzati nella persona di don Totoro, che pretendo di conquistare l'amore di Lesbina (innamorata di Lindoro) con spropositati madrigali. Valerio (un amico di Lindoro, per l'occasione travestitosi da mago e in seguito da sibilla) convince don Totoro dell'inopportunità per un poeta di amare una "donna volgare" come Lesbina; per cui, dopo una spassosa discesa in un tutto ipotetico inferno, il poetastro sarà costretto a sposare la cameriera di Lisetta smerciatagli per rediviva Saffo.
L'arrivo del C. a Vienna coincise con il ripristino dell'Opera italiana, dopo lo scioglimento del 1776, e con l'inaugurazione di una stagione di opere buffe voluta da Giuseppe II e organizzata dal Rosenberg. Per sollecitazione ancora una volta di Paisiello, il C. scrisse il Re Teodoro in Venezia, rappresentato con clamoroso successo al Burgtheater di Vienna il 23 ag. 1784. Il trionfo dell'opera assicurò al C. una fama europea di straordinario librettista, fra l'altro consacrata dagli autorevoli giudizi di Bettinelli, Pindemonte, Foscolo, Goethe e Stendhal. Con il Re Teodoro in Venezia (che - tradotto in francese da Dubuisson - tenne le scene per ben tre mesi al teatro di Versailles) egli si provava in una riforma del teatro musicale, puntando su melodrammi giocosi intesi come occasione di parodia letteraria, soprattutto all'indirizzo dell'eroico melodrammatico, e di satira di costume nella quale si stemperasse il buffonesco della librettistica tradizionale.
Il libretto castiano trae libero spunto dal cap. XXVI del Candide di Voltaire, nel quale Candido e il suo servitore Martino incontrano in una locanda di Venezia il re di Corsica Teodoro con altri sovrani spodestati. L'avventuriero Teodoro, barone di Neuhoff, per breve tempo incoronato re di Corsica, è a Venezia in incognito, per sfuggire ai Genovesi che hanno messo una taglia sul suo capo. Alle strette di denaro e col pericolo di essere sfrattato dalla locanda di Taddeo nella quale alloggia, Teodoro si innamora di Lisetta, figlia dell'oste. Nella medesima locanda arriva il sultano Acmet III, detronizzato ma ricchissimo, che prende una cotta per Belisa. Tra la coppia Teodoro-Lisetta si inserisce la presenza comica di Taddeo, al quale Gafforio (ministro del re spodestato) ha fatto baluginare con sogni di gloria la possibilità di una nomina a generale. Belisa frattanto ha la pretesa, di risultati comici, di costringere Acmet alle gentilezze europee. Il melodramma si chiude con l'arresto di Teodoro, denunciato da Sandrino, al quale Lisetta era stata in precedenza promessa. Il personaggio centrale è ovviamente Teodoro. Su di lui il C. ha giocato tutta la sua malizia parodistico-satirica: nel suo linguaggio viene messo in berlina il meleroico di maniera e nella sua persona è adombrata la figura attuale dello squattrinato re Gustavo III di Svezia.
Nel biennio che seguì il C. continuò a raccogliere altri successi. Nel 1785, al teatro di Lussemburgo, andò in scena La grotta di Trofonio, che si troverà stampata - insieme con il Re Teodoro in Venezia - inun'edizione datata Filadelfia 1803. Nel 1786, in occasione della visita a Vienna del duca Alberto di Sassonia e dell'arciduchessa Cristina, nel teatro di Schönbrunn venne rappresentato il "divertimento teatrale" in un atto Prima la musica e poi le parole di cui esiste un'edizione anonima (Vienna 1786). Entrambi i libretti ebbero la musica di Salieri.
Con reminiscenze dal Socrate immaginario, La grotta di Trofonio è una confusa "commedia" degli equivoci (complicata dall'antro di Trofonio, con la sua virtù magica di cambiare l'umore di chi vi si "ingrotta"), che non sa conquistare l'intento di "deridere il Demonio / ed i magici esorcismi / di stregoni e ciurmatori ed i finti parossismi / d'energumeni impostori". Difatti, come nell'opera del Galiani e del Lorenzi, l'effettivo bersaglio polemico èdato dai filosofi improvvisati. Di più alto rilievo artistico è invece Prima la musica e poi le parole, di duplice indirizzo satirico: verso la letteratura melodrammatica e verso il costume teatrale. Due virtuose, rispettivamente nel genere serio e in quello buffo, si contendono la parte principale di un'opera da confezionare (dietro commissione del conte Opizio) in quattro giorni, improvvisando dei versi quali che fossero su una musica già servita ad altro melodramma. Il C., affrontando i rapporti tra melodramma serio e melodramma buffo (esemplificati nelle due virtuose infine pacificate, a significare la prospettiva di un dramma dove il serio e il faceto fossero fusi insieme), propone con la sua satira un teatro musicale affrancato dalle pretese "commerciali" dei committenti e fondato su una base di armonica collaborazione tra libretto e spartito.
Benché applauditissimo, il C. non era ancora riuscito a ottenere l'ambito titolo di poeta cesareo. Giuseppe II si era limitato a "incoronarlo", in privato con una preziosa tabacchiera e 200 ducati, in segno di apprezzamento per il Re Teodoro e il Poema tartaro. L'invidioso Da Ponte, fra l'altro risentito per essersi ravvisato - anche per suggestione dell'abbigliamento dell'attore, che imitava il suo - nel poeta di teatro del "divertimento" castiano, diffuse invece la notizia dell'irritazione di Giuseppe II alla lettura del "Gengiscano poema tartaro". L'impudenza sarebbe costata al C. l'allontanamento da Vienna. L'abate partì di fatto da Vienna nel maggio del 1786, dopo aver concepito il Re Teodoro in Corsica, al quale lavorerà "a tempi rotti" destinandone la musica al Paisiello: il successo del primo Teodoro gli aveva suggerito di andare indietro negli anni e di sceneggiare l'arrivo in Corsica e l'incoronazione dell'avventuriero. L'opera sarebbe stata strutturata per coppie di personaggi esemplate su quella famosa del Don Quijote di Cervantes. Subito dopo, a Torino, avviò per la musica di Salieri la composizione del Cublai, gran kan dei Tartari:un libretto che prendeva le mosse da un episodio del Poema tartaro (canto XI), di cui continuava la satira contro laRussia (nella cui corte si cercavano di scimmiottare le etichette europee) con un sovrappiù di polemica anticlericale.
Denso di incontri è l'anno 1787, che vede il C. in viaggio verso il Sud. Alla fine di gennaio era a Napoli, "in compagnia del barone Fries, ricco e colto negoziante di Vienna",secondo quanto annunciava una nota di cronaca della Gazzetta civica napoletana del 1° febbraio. Nella città partenopea, oltre a scrivere versi suggeriti da occasioni "piccanti" (e si deve al Croce la ristampa di un'epistola in quinari, spedita alla veronese Camilla Strozzi), il C. continuò ad attendere al Cublai le cui scene spediva di volta in volta al Salieri, che si trovava a Parigi. Fu costretto invece a riporre il secondo Teodoro, che resterà per sempre senza spartito: aveva trovato infatti il Paisiello impegnato in altri lavori, e perciò indisponibile. Mentre veniva lusingato da una lettera del re di Polonia Stanislao Augusto, che gli ricordava l'"ameno risalto e piacevolissimo brio" delle sue recite, fu costretto a registrare a Napoli il quasi fallimento proprio delle sue recite. Le novelle galanti, lette con voce "difettosa" in casa del banchiere triestino marchese Piatti, gli attirarono addosso la scomoda accusa di "indecenza". In compenso la novella L'arcivescovo di Praga (poi in Novelle galanti, XXIV) sarà definita "molto bella" (benché "non proprio decente") da un ascoltatore d'eccezione: da Goethe, incontrato a Roma il 16 luglio 1787 durante un invito a pranzo (Italienische Reise, Hamburg 1951, pp. 368-379). Nel mese di agosto il C. lasciò Napoli. A settembre era in Sicilia. A Palermo si fece un dovere di visitare Giovanni Meli, al quale si presentò per ben due volte tutto biancovestito ("vestito di bianchi abiti e con guanti e cappello e scarpe dello stesso colore") per essere confortato dal suo giudizio sulle novelle galanti: "si ebbe da lui gli elogi che ben meritava, per lo spirito e la spontaneità; ma gli fece osservare che per motivo degli argomenti trattati non avrebbe potuto pubblicarle",testimonia lo scrittore palermitano Agostino Gallo nella Biografia del Meli (p. XIII) premessa alle Poesie scelte del poeta "ridotte in italiano" (Palermo 1857). Il C. visitò anche Messina, Siracusa e poi Malta, prima di risalire a Napoli, per essere a Milano nel febbraio del 1788. Il Salieri aveva intanto portato a termine la partitura del Cublai;ma l'opera non poté essere rappresentata, per gli stessi motivi che avevano indotto la corte viennese a sconsigliare la pubblicazione del Poema tartaro. Del tutto vane saranno le proteste del poeta, al quale resterà soltanto l'arida consolazione di fare circolare l'Argomento (manoscritto e poi a stampa: in italiano e in tedesco) del "dramma eroicomico",chiedendo venia della mancata esecuzione "per alcuni incidenti sopravvenuti". Dati i tempi "melanconici",il Rosenberg scrisse al C. che non era neppure il caso che egli ritornasse a Vienna, dove ci si preoccupava dei preparativi per la guerra dichiarata alla Turchia. Il C. approfittò allora di un'occasione propizia, che gli consentì di realizzare un viaggio progettato sin dal 1783: il 30 giugno 1788 si imbarcò a Venezia al seguito del bailo Foscarini e, dopo aver navigato lungo le coste dell'Istria e dalmate, il 19 ottobre sbarcò a Costantinopoli. Si fermò qui per venti giorni. Il 7 novembre ripartì da Costantinopoli, imbarcandosi col bailo uscente Girolamo Zulian. L'11 marzo del 1789 era di nuovo a Venezia.
Con la "libertà d'un'amichevole e non istudiata lettera famigliare",il C. raccontò l'esperienza del viaggio a Costantinopoli in un opuscoletto pubblicato a Milano nel 1802 con il titolo Relazione d'un mio viaggio fatto da Venezia a Costantinopoli. Altri appunti o "Articoli" sullo stesso soggetto restarono manoscritti. La stringatezza della prosa e l'acutezza delle osservazioni antropogeografiche e politiche, nelle quali si espandono le qualità giornalistiche già esibite nelle "giovanili" lettere al Luciani e adesso maturate da un intenso tirocinio di diplomatico, isolano questo resoconto dalle cromatiche memorie orientali di altri viaggiatori e lo accostano alle relazioni classiche degli ambasciatori veneziani. In un momento in cui la questione orientale era all'attenzione dell'Europa intera, il C. da smaliziato "politico" prospettivizzava il problema:"O si vuol considerare la nazion turca isolatamente o in rapporto alle altre culte nazioni; se si considera nel primo riguardo, il Turco è naturalmente buono e sovente di una buona fede che va alla dabbenaggine... Che se poi si consideri la nazion turca riguardo all'università ed alla massa comune degli uomini, pei progressi dello spirito umano, pei vantaggi e pei miglioramenti della società, per la reciproca comunione delle cognizioni e dei lumi fra le nazioni colte e sociabili, essa non solamente non è atta a contribuire in cosa alcuna al bene universale, ma in questo riguardo deve dirsi nociva, perniciosa e pessima". Sempre attento alla condizione femininile, il C. individua nell'occlusa "comunicazione de' sessi" la causa della seriosa tristezza di una società che esige la segregazione della donna. Il ritratto di questa condizione orientale è agli antipodi di quello della società marsigliese, del quale si era compiaciuto nelle lettere al Luciani. In Francia il C. aveva ammirato nelle donne la parità con gli uomini in fatto di "libertà" ("Le donne francesi hanno non meno libertà che gli uomini: zitelle e maritate di tutte le condizioni vanno sole per le strade della città"); a Costantinopoli condanna i "serragli ottomani" e conclude, con arguzia galeotta: "Dite pure alle nostre belle che sian contente delle costumanze europee, che procuran loro ammiratori e adoratori".
Alle donne "che accoppian la virtù colla ragione" sono dedicate le Novelle galanti, pubblicate a Roma nel 1790 in una prima edizione parziale. Cominciate a scrivere intorno al 1766, la loro composizione si protrasse persino a Pietroburgo e quindi negli anni successivi fino al 1802. Nell'edizione completa (Parigi 1804), le Novelle sono in tutto quarantotto: di esse due (XVII e XLVIII: L'origine di Roma e L'apoteosi) sono divise in due parti, e un'altra (XXXII: La papessa) in tre parti. Le prime due novelle (Il berretto magico e La camicia dell'uomo felice) costituiscono un dittico orientale: la prima trae forse spunto dai Bijoux indiscrets di Diderot (1748), la seconda si attacca ad essa come "coda".
Il C. si rivolge a una ipotetica "società" di donne, in qualità di "placido narrator di cose liete" e di precettore galeotto che ammicca con complicità allo "stimol fornicario" delle ascoltatrici. La sua vivace affabulazione ha per temi prediletti le "argute celie" e i "furtivi amori": dalla "smania... d'uterin furore" alle "armature taurine" dei mariti, alle copule e "trappolerie" della "pretaglia" e dei "frati bordellieri". Si riallaccia alla tradizione postboccacciana più obliqua (importante è in tal senso la presenza del Novellino di Masuccio Salernitano, non solo nella novella XXXVIII, Le brache di S. Griffone, che deriva dalla masucciana novella III, ma anche negli attacchi ai "frati venturieri" che "van ronzando come gli sparvieri / per torre altrui l'onor, la roba e l'oro"), contaminata con Grécourt e Voltaire. La narrazione si muove - come sempre - tra parodia e satira: parodia del cruscame e dell'epico, con l'orecchio rivolto alla dizione "canterina" del Pulci (il che spiega la dimensione "parlata" delle ottave, scambiata per floscia e banale insufficienza di stile); satira sociale condotta secondo un razionalismo illuministico (laico e antimetafisico), che pizzica molto di materialismo: "La musa mia, che tutta è per la fisica / ... s'occupa sol della materia". Con realismo antieroico, che bolla le "belle imprese" "dei tempi romanzieri" e la "fatal gloria" pagata dal sangue dei "miseri viventi", il C. affronta ogni problema "dal tetto in giù": demistifica l'impostura religiosa, denuncia il temporalismo papale e la politica dei gesuiti (i "neri cosiddetti di Gesù",in un sonetto del 1773), dichiara il mercanteggiamento dei "deboli" e degli "oppressi" nelle "cancellerie" dei potenti e "ne' politici congressi", si fa suggeritore di una politica antibellicistica e di tolleranza, si dichiara per il divorzio ("giusto e saggio" se "a fin di prole ei fassi, o per ragione / d'antipatia o delitto..."). La liberazione del piacere è per il C. connessa sempre a principî di libertà sociale. La sua polemica all'indirizzo di una morale sessuale in gramaglia controriformistica, che faceva perno su concetti negativi quali l'astinenza e la castità, è portata avanti anche in nome di una religiosità più allegra: "... son buon cattolico; / ma l'allegro amo più che il malinconico".
Attraverso la troppo facile accusa di oscenità è stato desemantizzato il messaggio politico e civile del malfamato C., chiamato "uomaccio" dal Manzoni (R. Bonghi, Diario, in Colloqui col Manzoni, a cura di G. Titta Rosa, Milano 1954, pp. 328 s.) e aggredito dal Porta ("a panscia averta") per i suoi "porscellarj" (Le poesie, a cura di G. Barbarisi-C. Guarisco, Milano 1964, II, p. 830). E non meno capziosa è risultata anche la nomea di incapacità stilistica (già cucitagli addosso dal Tommaseo: Il serio nel faceto, Firenze 1868, pp. 164 s.), che ha messo al bando le Novelle con snobistico silenzio sulla loro presunta, lascivia. Eppure dalle Novelle di argomento romano partirà il Belli dei Sonetti; a tacere dell'insospettabile Manzoni che su di esse eserciterà la penna ancora inesperta degli anni giovanili: castiana doveva essere infatti la distrutta "novellaccia in ottave... pessima per ogni verso" (Lettere, a cura di C. Arieti, Milano 1970. I, p. 129), come inducono a credere le sfumate reminiscenze delle Novelle nei Sermoni e l'evidente ritorno nel Cinque maggio - insiemecon altri riecheggiamenti - della "scandalosa" rima nui-lui, che era stata della novella III (ottava 59, vv. 7-8) del "vecchio" abate.
Il 20 febbraio 1790 si era spento l'imperatore Giuseppe II. Il C. confidava adesso nel successore Leopoldo (lo stesso che a Firenze lo aveva nominato poeta di corte), sia per un mutamento di rotta politica sia per la nomina a poeta cesareo. Nel settembre del 1791 era ancora a Venezia; ma nel gennaio del 1792 Da Ponte lo incontrò a Trieste, diretto a Vienna La sfortuna continuò però a perseguitarlo: Leopoldo morì infatti il 1º marzo 1792, senza avere avuto il tempo di concedergli nulla. Tuttavia il C. non s'arrese; così - nello stesso marzo - presentò all'imperatrice Maria Teresa, moglie del nuovo sovrano Francesco II, il "dramma tragicomico in due atti" Catilina, offrendosi per altri drammi ("composti sullo stesso piano") che potessero valergli "l'insigne titolo e l'alto onore di poeta" della corte viennese. Finalmente Francesco II lo nominò poeta cesareo (sempre nel marzo del 1792) con il parsimonioso stipendio di 2.000 fiorini: la metà di quanto mensilmente aveva percepito il Metastasio. Era stato il Rosenberg a suggerire all'imperatore di risparmiare sullo stipendio: con "zelo inopportuno e vile per l'economia del sovrano",commentava il C. indispettito. Nel corso dell'anno Salieri portò a termine la partitura del Catilina, che però non giungerà alle scene per le circostanze storiche poco propizie al teatro: l'Austria era difatti in guerra con la Francia.
Il Catilina (incluso con il Re Teodoro in Venezia, La grotta di Trofonio, Prima la musica e poi le parole, e il Cublai, nelle Poesie drammatiche stampate postume nel 1821con la falsa indicazione di Parigi, ma in effetti pubblicate a Pisa) venne scambiato dal Foscolo per una caricatura della romanità, scritta "affinché Cicerone e Catone paressero al volgo buffoni": "Taluno me ne declamò alcune scene perché io ridessi e non risi",conclude la stroncatura foscoliana. In realtà il libretto del C. era nato non come satira del mondo romano, bensì come parodia della Rome sauvée di Voltaire, probabilmente attraverso la traduzione del Bettinelli (1788). E se non fece ridere il Foscolo (Saggio d'un gazzettino del bel mondo, a cura di M. Fubini, Firenze 1951, p. 448) suscitò la "folie de la gaieté" in Stendhal (Promenades dans Rome, a cura di V. Del Litto, Paris 1973, p. 883) e provocherà al Croce un "riso a cuore aperto" (La letteratura italiana del Settecento, p. 324).
Da una lettera al ministro plenipotenziario d'Austria a Torino, Maurizio Gherardini, datata Vienna 7 aprile 1796, si ricava che all'altezza di questa data il C. aveva scritto altri drammi rimasti manoscritti e senza musica: Idormienti in due atti (su due crociati che si risvegliano nel Settecento, sperimentando la prosaicità del mondo contemporaneo), pubblicato postumo nella Raccolta di melodrammi giocosi del sec. XVIII (Milano 1826), l'Orlando furioso in tre atti (sulla pazzia del cavaliere, con la quale si allude all'irrazionalità dei governi reazionari dell'Europa postrivoluzionaria), la Rosmonda in tre atti (che introduce nel teatro - con anticonvenzionale finale tragico - i "coronati malfattori" e il tirannicidio) e l'incompiuto Bertoldo (nel quale l'"eroe" crocesco riassume tutta la polemica anticortigiana del C.), che era stato da lui iniziato quattro anni prima.
Quest'ultima produzione drammatica va letta sulla falsariga dei mai trascurati interessi politici del C., documentatici in questa fase dalle lettere viennesi a Paolo Greppi e al Gherardini sul "sistema degli affari interni" e su quello degli "affari esteri". Risultano evidenti gli orientamenti filodemocratici dell'abate, sempre più polemico verso le "coglionerie" della conservatrice politica dell'Austria. A Vienna, dove compose (nel 1794) quattro apologhi (L'asino, Le pecore, La lega dei forti, La gatta e il topo, che "narrano" - nei modi del favolismo zooepico - le proteste antiautoritarie e antibellicistiche dell'autore, nonché la denuncia dell'avidità delle grandi potenze coalizzate e una visione contrattualistica del potere) e iniziò a scrivere sempre in sestine gli Animali parlanti (di "materia... troppo delicata"), il C. cominciò a puzzare di "giacobinismo",in un clima che si arroventava di minacce inquisitorie e poliziesche. Venne persino isolato, con la proibizione di frequentare i corpi diplomatici stranieri e in particolare i ministri della Prussia e della Sardegna. Esasperato dall'insostenibile situazione, il C. si decise a chiedere ai principe Starhemberg (che dall'ottobre del 1793 sostituiva nella carica di gran ciambellano l'ammalato Rosenberg), il permesso di allontanarsi da Vienna, anche per cercare un editore disposto a pubblicargli l'edizione completa delle opere. Gli venne quindi concesso un permesso di sei mesi, che gli consentiva di riscuotere regolarmente lo stipendio. Il 21 dic. 1796 lasciò Vienna. Una spiacevole sorpresa lo aspettava però al confine di Graz: nell'ispezione doganale la polizia gli sequestrò gli incartamenti. Soltanto a Trieste poté rientrare in possesso dei pacchi. A Firenze, nel febbraio del 1797, lo raggiunse un messaggio imperiale che gli intimava di non rientrare più a corte; anzi, gli si ordinava di scegliere - al termine del congedo - una località di provincia di suo gradimento nella quale gli sarebbe stato pagato solo la metà dello stipendio regolare: veniva cioè umiliato - in quanto a stipendio - a un Metastasio in sedicesimo, fra l'altro neppure gradito. Il C. scrisse allo Starhemberg perché gli ottenesse una liquidazione di 4.000 o anche 3.000 fiorini. La richiesta non fu accolta.
D'ora in poi il C. attenderà quasi esclusivamente alla revisione delle sue opere e alla ricerca di un editore, che non gli riuscirà di trovare in Italia. Si trasferì allora (nel luglio del 1798) a Parigi, puntando alla costituzione di una società editoriale composta da amici. Attraversò la frontiera stanco e ingrigito: con "cheveux et sourcies gris, front découvert, yeux gris", è descritto nel verbale di un interrogatorio presso il Bureau central du Canton de Paris. Benché costretto a "far economia",il C. trascorse a Parigi degli anni sereni tra lavoro letterario e conversazioni politiche. Frequentava cospiratori antinapoleonici oltre a profughi e viaggiatori italiani. Fra gli altri gli furono amici i fratelli Corona, Scrofani, Lancetti, Pindemonte, Mascheroni, Monti, Fantoni, Pananti, Ginguené. Nell'estate del 1801 venne ospitato da Giuseppe Bonaparte nella villa di Montfontain. Nelle riunioni serali della villa, frequentate dal conte Filippo di Coblenz, dalle sorelle di Napoleone, da Luciano Bonaparte e da madame de Staël, l'abate leggeva i versi del poema sugli Animali parlanti ormai in fase di ultimazione. Stando alla testimonianza di lady Morgan, pare che l'abate s'incontrasse anche con Napoleone al quale ardiva presentarsi come democratico. Nonostante la riconoscenza per la famiglia Bonaparte, il C. era sostanzialmente antinapoleonico. Si disse (non si sa con quanto fondamento) che arrivò a progettare un attentato alla vita del dittatore. Sta di fatto che all'aneddoto si credeva in Italia. Nel novembre del 1801 apparve a Parigi il primo volume degli Animali parlanti. La pubblicazione del poema in ventisei canti fu portata a termine nel 1802. In appendice a quasi tutte le edizioni di quest'ultima opera si aggiungeranno i quattro apologhi del periodo viennese. Gli Animali parlanti ebbero un successo strepitoso. Se ne stamparono parecchie edizioni, in Francia e in Italia, spesso senza l'autorizzazione dell'autore. Da essi prenderà le mosse il Leopardi traduttore della Batracomiomachia e autore dei Paralipomeni, che nel Discorso sopra la Batracomiomachia ne rileverà l'"uso felicissimo" delle sestine. La loro presenza si avvertirà fin dentro all'Ottocento più periferico: con la loro citazione si aprono Le parità e le storie morali dei nostri villani del siciliano Serafino Amabile Guastella.
Il C. finge di derivare la materia del poema favolistico-satirico da un testo braminico, che narrava eventi di "antiche età preadamitiche": quando "gli aligeri-volatili-pennuti" e i "Pelosi-quadrupedi-cornuti" erano forniti di intelletto e parola. Gli animali si sono dati una monarchia assoluta, sotto il Leone. Alla morte del monarca, il dispotismo della reggenza della Leonessa esaspera gli oppositori (i Clubisti) e fa precipitare la situazione verso la guerra civile. I realisti vengono battuti in guerra. Si arriva a un armistizio. Sull'isola di Atlantide viene convocato un congresso generale. Un cataclisma fa però sprofondare l'isola. Gli animali che riusciranno a salvarsi perderanno le loro preistoriche "virtù". La caustica narrazione ripercorre - in veste zooepica - le vicende politiche della Francia del Settecento, attraverso lo scontro tra assolutismo monarchico e nuovo spirito repubblicano. Lo scetticismo pernicioso che Foscolo contestava all'opera, nel saggio sui Poemi narrativi (pp. 2-30 dell'ediz. a cura di C. Foligno, Firenze 1958), altro non è che realistica consapevolezza delle precarie conquiste dell'età rivoluzionaria; nella necessitante certezza, tuttavia, di istituzioni "illuminate" dalla ragione. Un limite è nella lungaggine della macchina narrativa; ma l'"ottuagenaria età" non concesse al C. "il tempo d'esser breve",com'egli stesso era disposto a confessare.
Il C. morì a Parigi la notte del 6 febbr. 1803, probabilmente a causa della grippe che in quei giorni imperversava. Una morte troppo anodina per i guardiani dei costumi, che dell'abate europeo temevano il materialismo e la forza delle idee ancor più che il chiacchierato libertinaggio. Preferirono quindi immaginare che morisse "di colica prodotta da viziosa indigestione": "Morì barzellettando sulla sua indigestione e sulla sua morte",scrisse l'avventuriero Francesco Apostoli in una lettera a Francesco Reina citata da Menghini (La Vita italiana, n.s., I [1897], pp. 445-467). La salma fu accompagnata, fra gli altri, da Saverio Scrofani. L'ex ministro degli Interni della Repubblica romana, il giacobino C. Corona, pronunciò il discorso funebre riprodotto sulla Décade philosophique.
Fonti e Bibl.: La più antica biografia castiana è l'anonimo (ma in effetti di P. L. Ginguené) ritratto incluso - senza numerazione di pagine - nelle Vite e ritratti de' famosi personaggi degli ultimi tempi, Milano 1819. Sempre del Ginguené è la voce inserita nella Biografla univers. antica e moderna, Venezia 1823, pp. 281-283. Si aggiunga il profilo della Nouvelle biographie générale, a cura di I. C. F. Hoefer, Paris 1878, p. 107. Si deve però a T. Ruspantini la giusta indicaz. della data di nascita, in un "discorso" del 1887 riprodotto come prefazione agli Animali parlanti, Roma 1893, pp. 5-12. Dopo il saggio di C. Piermattei, G. B. C. (seguono alcune poesie inedite), Torino 1902, la biografia più completa rimane quella di G. Manfredi, Contributo alla biografia del C., da documenti inediti, Ivrea 1925. Dal Manfredi, in massima parte, dipende la tesi dottorale di H. Van Den Berg, G. B. C., abbé galant, poète et politicien, Amsterdam-Bruxelles 1851. Gli unici nuovi docum. sul periodo giovanile sono stati scoperti e utilizzati da B. Governatori, nello Sviluppo della critica su G. B. C., tesi di laurea discussa alla facoltà di magistero dell'università di Roma nell'anno accademico 1968-1969. Di A. Neri è il saggio Il C. a Genova, in Giornale ligustico, XI (1884), pp. 282-292. Sul periodo viennese, si vedano i documenti pubblicati da J. Koltay-Kastner (Ilsoggiorno di G. B. C. a Vienna, in Acta Litteraria Academiae Scientiarum Hungaricae, VI[1963], 1-2, pp. 176-179), la puntuale ricostruzione di R. Benaglia Sangiorgi (L'abate C., poeta melodrammatico e successore del Metastasio a Vienna, in Italica, XXXIII[1956], 3, pp. 180-192) e - soprattutto - le Notizie e appunti sulla vita e l'operosità di G. B. C. negli anni 1776-90 (con documenti inediti) di A. Fallico, in Italianistica, I (1972), pp. 520-38 (sulle quali vedi la rec. di W. Binni nella Rass. della letteratura italiana, LXXVII [1973], p. 425). Sul viaggio in terra iberica vedi R. Barchiesi, L'abate C. in Portogallo, in Estudios Italianos em Portugal, XIX(1960), pp. 62-86. Sul soggiorno napoletano vedi B. Croce, Una raccolta di autografi [1891], in Aneddoti di varia letter.,II, Bari 1942, pp. 357-364 (in particolare pp. 363 s.), e Un aneddoto della società napoletana del Settecento narrato in un'epistola in versi dall'abate C. [1946], in Nuove pagine sparse, Napoli 1949, pp. 238-241. Del viaggio in Sicilia si è occupato E. Di Carlo, in L'abate C. in Sicilia, in Atti dell'Accademia delle scienze, lettere ed arti di Palermo, s. 4, VII(1946-47), pp. 103-110, poi ripreso in L'abate C. e G. Meli, in Idea, VIII(1956), 26, pp. 1-4. Altri documenti e notizie in A. Saviotti, Una lettera inedita dell'abate C.,in Giornale ligustico, XII (1885), pp. 1-6; Id., Lettere d'avventurieri, in Orlando furioso, 11 febbr. 1886, pp. 57-59; F. Novati, Una lettera del C. su gli ultimi suoi giorni, in Rassegna bibliografica della letteratura italiana, IV(1886), pp. 55 s.; G. Sforza, Il march. C. Lucchesini viaggiatore e diplomatico, in La Rassegna nazionale, 1º agosto 1886, pp. 463 s.; M. Menghini, La morte del C., in La Vita italiana, n.s., III (1896-1897), 1, pp. 465-467; L. Torretta, Il poeta M. Serpieri e alcune lettere inedite del Monti e del C.,in Giornale storico della lett. ital., XLVII (1906), pp. 318-330; P. Vigo, L'abate C. e un'edizione clandestina del "Poema tartaro",in Rass. bibl. della lett. ital., XV (1907), pp. 184-186; G. Fertetti, Nuove tracce d'Italiani a Parigi nel 1800, in Fanfulla della domenica, 16 maggio 1809; C. G. Sarti, Lettere parigine: l'abate C.,in La Tribuna, 26 ag. 1921; L. Gasilier, Le dernier jour de l'abbé C., in La Nouvelle Revue, LXV (1923), pp. 5972; L. A. Sheppard, Per una ediz. londinese degli Animali parlanti, in Giorn. storico della lett. ital.,XCII (1928), p. 212; A. De Rubertis, Satira e censura in Toscana, ibid., CIII (1934), pp. 280-286 (poi in Studi sulla censura in Toscana, Pisa 1936, pp. 211-218, e in Nuovi studi sulla censura in Toscana, Firenze 1951, pp. 107-109). Dopo il saggio del Croce (La letteratura ital. del Settecento, Bari 1949, pp. 312-324), la rivalutazione critica del C. si deve a C. Muscetta (Poesia del Settecento, a cura di C. Muscetta - M. R. Massei, Torino 1967, I, pp. XXVIII-XXIX; II, pp. 1391-1485) e a W. Binni (La letter. del secondo Settecento, in Storia della letter. ital.,a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, VII, Milano 1968, pp. 532-534, 574). Seguono G. Muresu, Le occasioni di un libertino, Messina-Firenze 1973 (sul quale vedi la rec. di A. Fallico, in Italianistica, IV[1975], I, pp. 199-200), e G. Compagnino, Tematica libertina e satira del dispotismo in G. B. C.,in Letter. ital., Storia e testi, a cura di C. Muscetta, VI, 2, Roma-Bari 1974, pp. 347-365. Vedi anche la nota critico-biografica di G. Petronio, nell'Antol. della lett. ital.,a cura di M. Vitale, IV, 1, Milano 1967, pp. 145-147. Per una visione d'insieme si rimanda alla voce stesa da N. Mangini per il Dizion. critico della lett. ital.,a cura di V. Branca, I, Torino 1973, pp. 539-541. A. Fallico ha ricostruito, con ampia document. talvolta inedita, le fasi della fortuna dell'abate: La fortuna critica di G. B. C.,in Critica letter.,IV(1967), pp. 650-688. Le lettere al Luciani sono state pubblicate, per cura di Q. Ficari, nell'Epistolarioinedito, Montefiascone 1921. E. Greppi ha raccolto le lettere spedite da Vienna nel 1793 a P. Greppi e al Gherardini: Lettere polit. dell'ab. Casti, Torino 1882 (anche in Miscell. di stor. ital., s. 2, VI [1883], pp. 133-247). Sempre a cura di E. Greppi è la Lettera dell'ab. Antonio [sic] Casti al conte Antonio Greppi, in Arch. stor. ital., s. 4 t. IV (1879), pp. 200-202. Molto materiale giace ancora inedito nei Fonds Italiens della Biblioteca Nazionale di Parigi, mss. 1623-30. Per le poesie inedite vedi i tre sonetti pubblicati da G. De Angelis, nel Commentario storico-critico su l'origine e le vicende della città e chiesa cattedrale di Montefiascone, Montefiascone 1841, pp. 193 s., e Poesie inedite di G. B. C. Falisco, Montefiascone 1843. L'inedito Teodoro in Corsica è stato pubblicato da E. Bonora e R. Leydi nel Giorn. storico della lett. ital.,CXXXIV(1957), pp. 169-248. G. Muresu ha invece pubblicato gli inediti Orlando furioso e la Rosmonda, nella Rass. della lett. ital.,LXXII (1968), rispettivamente pp. 364 e 297-344. Un'ampia scelta di rime, curata da M. Fubini, è contenuta nei Lirici del Settecento a cura di B. Maier, Milano-Napoli 1951, pp. 825-867. Nei Letterati, memorial. e viaggiatori del Settecento (Milano-Napoli 1951, pp. 1023-1055) E. Bonora ha ristampato la Relazione di un viaggio a Costantinopoli e ha antologizzato Gli animali parlanti. La Relazione (sulla quale ha scritto un saggio critico F. Visconti, Un viaggio a Costantinopoli, Rocca San Casciano 1912) è riprodotta anche nei Viaggiatori del Settecento, a cura di L. Vincenti, Torino 1962, pp. 497-524. In appendice alle Opere di Metastasio, a cura di M. Fubini (Milano-Napoli 1968), E. Bonora ha aggiunto una scelta dai libretti. Ma per Prima la musica e poi le parole vedi adesso la ristampa (riscontrata sull'ediz. viennese del 1786), a cura di A. Fallico, nei Quaderni dell'Arena, Verona 1977. Le Novelle sono state riproposte da F. Alberoni (Novelle licenziose, I-II,Roma 1966-67) e da E. Bellingeri (Novelle galanti, I-III,Roma 1967); v. inoltre l'antologia Erotismo e pornografia nella letteratura italiana, a cura di P. Lorenzoni, Milano 1976, pp. 80-84, 272-277. Un'antologia degli Animali parlanti (Firenze 1968) è stata pubblicata da S. Ramat; a essa il curatore ha premesso un discutibilissimo saggio, rist. su Forum Italicum, II, I (1969), pp. 202-206, e successivamente raccolto in La pianta della poesia, Firenze 1972, pp. 48-51; degli Animali parlanti si ha adesso l'edizione curata da G. Muresi (Ravenna 1978). Una seria lettura del Poema tartaro si deve a K. Zaboklicki (La Russia cateriniana nel Poema tartaro di G. B. C., in Giornale storico della lett. ital., CLIX [1972], pp. 363-86), però da correggere e integrare con la rec. di A. Fallico, in Italianistica, III (1974), 1, pp. 189 s. Sui libretti, oltre ai saggi invecchiati di L. Pistorelli (I melodrammi giocosi di G. B. C.,in Rivista musicale ital., II[1895], pp. 36-56, 449-476; Imelodrammi giocosi inediti di G. B. C., ibid.,IV [1897], pp. 631-71), si dispone degli studi di R. Benaglia Sangiorgi (I melodrammi giocosi dell'abate C. poeta cesareo e successore del Metastasio a Vienna, in Italica, XXXVI[1959], 2, pp. 101-126) e di E. E. Swenson ("Prima la musicae poi le parole". An Eighteenth-Century satire, in Analecta musicologica, IX[1970], pp. 112-129). Per gli Animali parlanti vedi F. Bernini, Storiadegli "Animali parlanti" di G. B. C.,Bologna 1801; la prefazione di V. Tocci all'ediz. Milano 1902; G. Sindona, Il C. e il suo pensiero politiconegli "Animali parlanti",Messina 1925; K. Zaboklicki, L'abate C. favolista: gli "Animali parlanti",in Kwartalnik Neofilologiczny, XVII [1970], 3, p. 272; Id., La critica della Chiesa edella religione cattolica ne "Gli animali parlanti" di G. B. C., in Kwartalnik neofilologiczny, XVIII (1971), 3, pp. 297-302. C. Dejob si è occupato dei rapporti tra il C. e Leopardi: Les Animauxparlants de C. et les Paralipomènes de Leopardi, in Revue des cours et des conférences, s. 2, VI (1898), pp. 226-235. Sull'argomento vedi però W. Binni, Leopardi e la poesia del secondo Settecento, in Rass. della lett. ital., LXVI(1962), pp. 389-435 (in partic. pp. 431 s.), e Contributominimo al commento delle "Operette morali", ibid.,LXVII (1963), p. 129; il primo saggio è ora incluso in La protesta di Leopardi, Firenze 1973, pp. 169-236.