CARISSIMI, Giacomo
Nato a Marino (Roma), venne battezzato il 18 apr. 1605. Già l'atto di battesimo (cfr. Cametti, 1917) offre indicazioni utili a definire il suo ambiente familiare: un ambiente di artigiani e di piccoli commercianti. Il padre, Amico, era bottaio, come i tre fratelli; la madre si chiamava Livia.
Originari di Castel Sant'Angelo di Visso (Macerata), i quattro fratelli, figli di Carissimo, tutti copellari, si trasferirono a Marino nella seconda metà del sec. XVI. Uno di essi, "Mastro Iacopo" vi risulta presente fin dall'aprile del 1578 in un documento di battesimo. Amico, il 14 maggio 1595, sposava la trentenne Livia di Giovan Francesco, di famiglia marinese; dal loro matrimonio, dopo un decennio, sesto e ultimo figlio, nacque Giacomo. Dagli atti di battesimo dei figli il nome di Amico risulta sempre accompagnato soltanto dal soprannome del mestiere esercitato; dal padre egli assunse poi il cognome patronimico di Carissimo, trasmettendolo agli eredi (ciò dovette avvenire comunque dopo il 3 apr. 1605, perché nell'atto di battesimo di Giacomo non compare ancora). Tale cognome troviamo nell'atto di morte della madre Livia, spentasi il 15 maggio 1622, all'età di cinquantaserte anni; Amico le sopravvisse altri undici anni, morendo il 24 giugno 1633.
Nulla sappiamo sulla prima istruzione musicale del Carissimi. Certamente a Marino egli dovette frequentare la cappella musicale di qualche chiesa. ove apprese i rudimenti della musica. Le prime notizie concernenti la sua attività lo dicono cantore presso il duomo di Tivoli, sotto la direzione dell'arciprete Aurelio Briganti Colonna. Era il 1623 ed il C., diciottenne, aveva appena superato il dolore per la morte della madre, che dovette certamente lasciare traccia sul suo carattere, naturalmente "inclinato al malinconico", come ebbe a dire il Pitoni, autore della prima sommaria biografia.
Fra i documenti dell'archivio del duomo di Tivoli il Radiciotti rinvenne un elenco dei pagamenti effettuati dal capitolo, con l'indicazione delle somme pagate al C.: alla fine dell'ottobre 1624, per il servizio prestato per quattordici mesi, egli percepì 14 scudi e 5 giuli (mezzo scudo). Il che proverebbe che era entrato a far parte del coro del duomo di Tivoli nell'agosto 1623, ma alcune note suppletive del camerlengo della cappella tiburtina lasciano capire che aveva servito anche l'anno precedente. Uno scudo al mese era certamente somma modesta, ma tale da permettere una relativa tranquillità, tanto più che, stando ancora alle dichiarazioni del Pitoni, il musicista era notoriamente "assai parco nelle sue domestiche occorrenze". Secondo il Cametti, invece, lo stipendio non gli poteva permettere di vivere senza l'aiuto del padre.
Nel novembre 1624 alla direzione della cappella del duomo di Tivoli al Briganti Colonna subentrò il romano Alessandro Capece, che dovette certamente apprezzare il talento del C. se in breve gli fece ottenere la nomina di organista (1625) e di lì a poco un aumento di stipendio di cinquanta baiocchi. La permanenza del C. a Tivoli è accertata fino all'ottobre 1627. Nel gennaio di quell'anno al Capece era subentrato Francesco Manelli (o Mannelli), il cui nome è noto quale autore e impresario del primo melodramma rappresentato nel 1637 nel primo teatro pubblico a pagamento, il S. Cassiano di Venezia. Il contatto con il Capece prima e con il Mannelli poi - anche se con quest'ultimo il C. ebbe brevi rapporti - fu certamente occasione di non poche proficue esperienze da cui egli dovette trarre partito e una certa notorietà se appena un anno dopo, il vicario apostolico ad Assisi, Getulio Nardini, lo condusse con sé ritenendolo all'altezza di assumere la direzione della cappella musicale della cattedrale di S. Rufino, carica che il C. tenne dal 1628 al 1629.
Alla fine del 1629 ritroviamo il C. a Roma, maestro in S. Apollinare. S'ignora quando il trasferimento sia avvenuto, ma dai documenti rinvenuti dal Culley nell'archivio del Collegio germanico-ungarico (annesso alla chiesa di S. Apollinare) egli risulta in paga dal 15 dic. 1629, "a ragione di scudi cinque il mese", vitto e alloggio gratuiti. La nomina era stata caldeggiata dal padre Bernardino Castorio, rettore del Collegio; i compiti comprendevano l'insegnamento della musica e la direzione del coro degli alunni, oltre alla composizione delle musiche per le diverse feste e cerimonie del Collegio e delle chiese di S. Apollinare e di S. Saba. Il C. divenne uno dei protagonisti delle marnifestazioni musicali che caratterizzavano la vita artistica della Roma del tempo, componendo anche oratori per l'oratorio del SS. Crocifisso, sede della Congregazione dei fratelli del SS. Crocifisso nella chiesa di S. Marcello.
Ligio alle austere condizioni di vita, di lavoro e di osservanza religiosa stabilite dal regolamento del Collegio gesuitico, il 14 maggio 1637 il C. riceveva la tonsura e in seguito gli ordini minori, per cui, indossato l'abito talare, poteva servire gli uffici divini. In dipendenza del suo nuovo stato di chierico, due mesi dopo la tonsura gli venivano assegnati i proventi della cappella di S. Maria di Nazareth in Ravenna; il beneficio in questione era stato deciso da papa Urbano VIII, su sollecitazione del cardinale Girolamo Colonna, protettore del C. e della sua famiglia, come documenta il Loschelder.
Amato e stimato dai suoi numerosi allievi, alcuni dei quali appartenenti alle famiglie più in vista di Roma, il C. poté annoverare fra gli altri, quale discepolo ed entusiasta estimatore, il principe Federico d'Assia, che in alcune lettere a lui inviate (cfr. Loschelder) ringrazia per il dono di alcune composizioni, e professa la gratitudine e l'affetto, dell'allievo e dell'amico. Era appena morto Monteverdi (29 nov. 1643) e il mondo musicale attendeva con trepidazione il successore, degno di dirigere la gloriosa cappella della basilica di S. Marco, quando, proprio da Venezia, Giacomo Razzi (o Ratti), probabilmente un altro ex allievo, entrato al servizio di S. Marco alcuni anni prima, gli scriveva per sollecitarlo a presentare la sua candidatura all'ambitissimo incarico, convinto che la cosa sarebbe stata "di gusto di tutta la città". Per invogliarlo descriveva la vita musicale di Venezia e l'altissima considerazione in cui i talenti musicali erano tenuti soprattutto da parte della nobiltà. Non dimenticava di elencare, argomento ritenuto assai convincente, le notevoli possibilità di guadagno che la Serenissima offriva: oltre che con le musiche di chiesa, il C. avrebbe avuto la possibilità di comporre musica per qualche teatro e di prender parte, come autore ed esecutore, a "qualche accademia" che avrebbe richiamato immancabilmente grande concorso di pubblico. A Venezia inoltre - scriveva l'allievo - svolgevano la loro apprezzata attività i più noti stampatori musicali, che avrebbero contribuito, con le loro pregevoli edizioni, ad immortalare il suo nome. Non conosciamo la risposta del C. al Razzi, ma possiamo immaginare che il garbato diniego opposto si dovette fondare su non pochi motivi, oltre che sul timore della propria incapacità ad adattarsi a nuove abitudini, certamente più mondane e in contrasto con le sue regole di vita, conchiuse nel tranquillo ambiente del Collegio gesuitico ed accettate con la serena rassegnazione di chi si ritiene pago della propria condizione.
Che il C. fosse ormai famoso, e non soltanto per le opere di chiesa, lo dimostra la pubblicazione di alcune sue cantate, apparse a Bracciano nel 1646 in una raccolta di Ariette in musica, e le reiterate offerte, analoghe a quella del Razzi, pervenutegli nel giro di pochi anni, come quella dell'arciduca Leopoldo Guglielmo, figlio di Ferdinando II d'Asburgo, il quale manifestò il desiderio di averlo alla sua corte di Bruxelles dando incarico al langravio Federico d'Assia-Darmstadt di avanzare l'invito. Fra le lettere riportate dal Loschelder, una non datata sembra essere stata fra le prime con le quali si tentò di persuadere il C. a lasciare Roma, con la promessa che avrebbe ottenuto tutto quanto avesse desiderato (anche canonicati e cospicue prebende) e l'assicurazione che se non si fosse trovato a suo agio sarebbe potuto ripartire senza alcuna difficoltà. Le sollecitazioni si susseguirono a ritmo sempre più serrato: dopo le proposte di carattere economico, sulle quali non ci sarebbe stato motivo di discussione, libero com'era il C. di stabilire il proprio compenso, si illustravano nella più convincente delle maniere i particolari logistici del trasferimento a Bruxelles (città che nulla aveva da invidiare a Roma, "persino per il clima"). Il C. ricusò le lusinghiere richieste, finendo per addurre motivi di salute. Con la lettera da Namur del 27 dic. 1647 Federico d'Assia esprime il suo rammarico nel sapere il maestro malato ed impedito a "prendere resolutione di venire in queste Bande"; lo prega di non dimenticare di favorirlo "delle sue opere di quando in quando, di qualche messa, vespero o altro mottetto", che anche l'arciduca avrebbe apprezzato e largamente ricompensato, ringraziandolo per il mottetto già inviato. In altra occasione Leopoldo Guglielmo raccomandava al C. il barone Camillo Boccamaggiore, "Mecenate de Musici, amator de virtuosi al maggior segno", il quale, presentato da una lettera di Francesco Maria Riccioni scritta a "Rossaw" il 7 maggio 1643 veniva in vacanza in Italia e intendeva far visita a Roma a "un tanto virtuoso" (cfr. Loschelder).
La notorietà del C. era pervenuta anche in Francia. Nel gruppo dei documenti riportati dal Loschelder si trova una lettera inviata da Compiègne l'8 sett. 1656, nella quale si dà informazione del successo riportato dalla sua musica presso la corte di Luigi XIV. La notizia della calorosa accoglienza riservata alla cantata del C., Le ferite d'un cor, ritenuta superiore a "tutte l'altre che per l'adietro erano state gradite" a Parigi, capitava in un momento particolarmente penoso della vita del musicista, che aveva perso la sorella Polinnia in un'epidemia, di colera. Nella citata lettera di Compiègne si rinnovava l'invito al maestro di spedire quelle tali "ariette" chieste alcuni mesi prima, cui un insieme di circostanze gli avevano probablimente impedito di attendere. Alla medesima lettera veniva allegato un "drammetto" che il musicista avrebbe dovuto adornare di "preziosissime note": altro segno evidente che il C. non dovette disdegnare di usare lo "stile recitativo".
L'attività di compositore del C. si esplicò anche all'oratorio di S. Marcello, a partire almeno dal 1639 secondo il Culley, ma i documenti a nostra disposizione recano sue notizie dal quarto venerdì di quaresima del 1650. Nel 1649 la direzione dell'attività musicale e della preparazione degli oratori, programmata per l'anno santo 1650, era stata demandata ai "Signori Guardiani" dell'Arciconfraternita del SS. Crocifisso, e nei documenti dell'archivio del Crocifisso, consultati dall'Alaleona, il C. viene nominato per la prima volta nel 1649 quale maestro incaricato della composizione di un oratorio da eseguire, con altri, nella quaresima dell'anno seguente. Tra i vari musicisti a lui accomunati, nel fervore dei preparativi, si trovano B. Pasquini, E. Bernabei, G. Fede e A. Melani, sui quali il C. doveva vantare maggiore fama e prestigio. A questo riguardo giova ricordare che il suo oratorio Iephte venne incluso da B. Pace nella raccolta Mottetti d'autore eccellentissimi (Loreto 1646) e che il gesuita A. Kircher, autore della Musurgia universalis, pubblicata nell'anno 1650, inserì una parte dell'oratorio nella sua opera con calde espressioni di elogio per il Carissimi.
Sia pure saltuariamente e di rado, il C. dovette assumere qualche incarico di composizioni relativamente mondane: nel 1647 venne stampato a Bologna un libretto intitolato L'Amorose passioni di Fileno poste in musica dal sig. Giacomo Carissimi. Accademia fatta in casa delli sig. Casali in Bologna.Con la sua opera era quindi presente nelle varie accademie e, sia pure non frequentemente, nelle manifestazioni teatrali che si tenevano un po' dovunque a Roma e in Italia. Nel caso in esame si trattava proprio di un lavoro teatrale, il cui argomento era tratto dal mondo di quella mitologia pastorale che da vari decenni forniva le vicende del teatro rinascimentale e barocco. Purtroppo non possediamo la musica di questa piccola opera, che ci avrebbe potuto rivelare compiutamente quest'altro aspetto dell'attività del C., ricordato anche da altre fonti, come la lettera del Razzi e la breve biografia dei Pitoni.
Fra le personalità che sollecitarono l'opera del musicista e gli concessero la loro alta protezione è anche la regina Cristina di Svezia: in suo onore i gesuiti fecero eseguire in S. Apollinare il Sacrificio d'Isacco, messo in musica dal C., di cui Cristina aveva chiesto notizie quando era ancora a Stoccolma (cfr. Culley); grande soddisfazione ella dimostrò nell'ascoltarlo a Roma in un'esecuzione che suscitò notevole interesse e di cui si ebbero echi anche presso le corti europee. Gli stessi intermezzi eseguiti nell'intervallo dell'oratorio furono sua opera: di uno conosciamo il titolo, Giuditta.L'amore dell'ex sovrana di Svezia per le lettere e le arti la spinse a costituire un "concerto di camera" al servizio del quale, come maestro, nel luglio 1656 venne nominato il C. (il documento in Culley).
Tale era la stima in cui era tenuto, che spesso veniva richiesto di un parere in occasione di concorsi o di assegnazione di posti.
Così nel 1641 vennero inviati a Roma, ad alcuni autorevoli musicisti, i lavori dei candidati al posto di maestro di cappella del duomo di Milano, vacante per le dimissioni di G.B. Crivelli: il C. considerò superiore a tutti A. T. Turati. Una lettera di qualche anno dopo, datata Napoli 20 febbraio 1654, annunciava al C. che sarebbero arrivati a Roma un tale Pietro Vaiani e altri musici, le cui capacità egli doveva accertare sottomettendoli a una specie di esame.
Un capitolo rilevante della vita del compositore rappresentarono i contatti con i suoi allievi, sia quelli del Collegio germanico sia quelli privati, attraverso i quali la sua arte si propagò in tutta Europa. Fra gli italiani ricordiamo: G.P. Colonna, organista a S. Apollinare, il quale a Bologna ebbe a sua volta numerosi valorosi discepoli, e A. Steffani, che in Germania aveva seguito le lezioni di J. C. Kerll (già allievo del C.), prima di recarsi a Roma direttamente alla sua scuola (sapendo oggi quello che rappresentò lo Steffani per J. S. Bach, G. F. Haendel e G. Ph. Telemann, possiamo valutare la portata dell'insegnamento del maestro di S. Apollinare). Provenivano dalla Germania anche Chr. Bernhard (già scolaro di Schütz), J. Ph. Krieger e il già ricordato Kerll, inviato a Roma a studiare con il C. dall'imperatore Ferdinando III. Determinante fu l'influenza esercitata sul francese M. A. Charpentier che, recatosi a Roma per perfezionarsi nella pittura, ritornò a Parigi autorevole musicista: a lui si deve la fioritura dell'oratorio musicale in terra di Francia. Una lontana traccia dell'importanza annessa all'insegnamento del C. si ritrova anche nelsuo breve trattato, Ars cantandi, das ist richtiger und ausführlicher Weg, die Jugend aus dem Grund in der Singkunst…(trad. tedesca anonima), che dovette incontrare gran successo poiché ne furono stampate varie edizioni, sempre ad Augusta (quella del 1669pervenutaci è la terza; si ignorano le date relative alle precedenti; le successive sono del 1708, 1731, 1753). Non conosciamo l'originale, che circolava forse manoscritto, redatto in italiano, o in latino, probabilmente a uso esclusivo degli allievi e da qualche allievo tradotto in tedesco.
Il C. lasciò un notevole patrimonio. Per spiegarne l'origine l'ignoto autore del memoriale redatto subito dopo la sua morte - probabilmente un responsabile dell'amministrazione del Collegio germanico - ebbe a dire: "È riuscito detto Carissimi nella musica eccellente, ma con sommo dispendio del collegio, alle spese del quale ha radunato scudi 400 mila effettivi incirca". I suoi proventi non erano costituiti soltanto dallo stipendio del Collegio, ma anche dalle lezioni private, dalle donazioni di nobili e sovrani (Come papa Alessandro VII, autore dei versi "Nella più verde età", musicati dal C.) e infine dagli interessi, inferiori a quelli d'uso, delle cospicue somme prestate al Collegio stesso, che trovò più conveniente, a un certo punto, ricorrere al suo maestro di cappella. Dai documenti (cfr. Cametti) apprendiamo gli estremi di tali operazioni: 18 marzo 1658, prestito di 10.000 scudi regolato da contratto, stipulato dal notaio Guidotti, fra il procuratore del Collegio, padre Lorenzo Favilla, e il procuratore del C., padre Gerolamo Cominetti. Quattro anni dopo si ripeté l'operazione, disponendo il C. di altri 2.500scudi da collocare a censo. Ottenuto un secondo benestare dal pontefice Alessandro VII, il Collegio germanico stipulava un nuovo contratto il 4 ag. 1662. Analoga operazione ebbe luogo nel giugno 1669, a nome del duca di San Demetrio, Clemente Sannesi iunior, per la somma di 7.000 scudi. Il 14 dic. 1673 i gesuiti, tramite il preposto generale della Compagnia e con il permesso di Clemente X, ricorsero ad un censo di 12.000 scudi con l'interesse del 3,66 e due terzi per cento, "ad favorem personae septuagenariae" (il settuagenario era il C.); la somma prestata si trovava depositata al Banco di Santo Spirito in Sassia. La frequente necessità di prestiti si spiega, fra l'altro, con le ingenti spese di manutenzione richieste dall'intera fabbrica di S. Apollinare (chiesa e Collegio), per cui i fondi si rivelavano inadeguati: la spesa prevista di 200 scudi annui, nel 1664 ammontò a scudi 3.634 per restauri e lavori "reputati necessarissimi e senza pompa veruna" (C.M. Mancini, S. Apollinare. La chiesa e il palazzo, Roma 1967, p. 26).
II C. improvvisamente venne a morte a Roma il 12 genn. 1674.
Dopo solenni esequie tributategli dagli alunni, fu sepolto "in sepulcro alumnorum ante Baptisterium" in S. Apollinare, com'è detto nell'atto di morte (Roma, Arch. stor. del Vicariato, S. Apollinare, 21, Libro dei morti IV, 1664-1701, c. 70).La Congregazione di S. Cecilia fece celebrare una messa cantata nella chiesa del convento di S. Maria Maddalena dove aveva sede, il che ha fatto presumere che il C. fosse aggregato al sodalizio; si ha la certezza che venne insignito dei cavalierati del Giglio e Pio. Secondo il Cametti, che rinvenne l'inventario dei beni fatto stilare dal rettore del Collegio alla morte del C., le due collane d'oro elencate costituivano le insegne dei due Ordini, mentre una terza, con l'effigie di Cristina di Svezia, doveva essere, molto probabilmente, l'insegna dell'accademia fondata a Roma dalla regina.
La vasta produzione del C. comprende complessivamente 207 fra oratori e mottetti sacri in latino da 1 a 12 voci, 8 messe, 227 cantate profane e spirituali in italiano da 1 a 3 voci, 4 cantate burlesche, 42 versetti per organo negli otto toni ecclesiastici; attualmente un'edizione delle Opere complete a cura di L. Bianchi è in corso di pubblicazione per conto dell'Istituto italiano per la storia della musica presso l'Accademia di S. Cecilia in Roma. Per un elenco dettagliato delle opere, peraltro non definitivo, si rimanda al catalogo compilato da L. Bianchi in La Musica. Encicl. storica, sulla scorta delle ricerche effettuate in varie biblioteche europee ove si conservano copie dei manoscritti autografi sfuggiti alla dispersione e alla distruzione degli archivi di S. Apollinare, avvenuta con la soppressione della Compagnia di Gesù nel '700. Scarsa fu la diffusione editoriale della produzione musicale del C., giunta fino a noi per lo più in copie tardive realizzate da allievi stranieri del maestro che contribuirono alla diffusione delle sue opere in Italia e all'estero. Si ricordano in particolare tra gli oratori di sicura attribuzione, cui maggiormente è legata la fama del C.: Iephte, Ionas, Iudicium extremum, Iudicium Salomonis, Baltazar, Historia di Ezechia, Historia di Job, Dives malus, Historia di Abraham et Isaac, Lucifer, Oratorio della SS. Vergine, Vanitas vanitatum I e II, Diluvium universale.
I manoscritti del C., rimasti nel Collegio germanico, erano sempre stati oggetto di tale interesse che un breve di Clemente X, ancora in vita l'autore, ne aveva proibito l'alienazione e financo il prestito. Con lo scioglimento della Compagnia di Gesù, ordinato da papa Clemente XIV nel 1773, depredati e distrutti gli archivi di S. Apollinare, i manoscritti andarono dispersi; molti poterono essere salvati per circostanze fortunose e mercé l'azione degli ex allievi, i quali contribuirono al salvataggio e alla custodia della sua musica affidata ormai alle più importanti biblioteche. La fama del C., dopo la Germania e la Francia, raggiunse anche l'Inghilterra: significative a questo riguardo sono le tracce, quasi vere citazioni, del coro finale a sei voci di Iephte, "Plorate filii Israel", nel coro del Sansone di Haendel, "Hear Jacob's God". Anche in alcuni anthems della musica ecclesiastica anglicana, del periodo a cavallo fra Seicento e Settecento, è avvertibile l'influenza del musicista: non pochi di essi recano addirittura il sottotitolo "adapted from Carissimi". Poiché di molti non si è potuto finora accertare alcun preciso riferimento alle fonti, è stata avanzata l'ipotesi che detti anthems, lungi dal fare un esplicito ricorso alla produzione del C., siano invece composizioni concepite nello spirito della sua musica, il che costituisce una manifesta dimostrazione della sua diffusione.
La personalità del C. spicca fra i protagonisti dell'arte musicale del sec. XVII. Alla musica del tempo, caratterizzata da manifestazioni del più convenzionale e superficiale barocchismo, egli seppe imprimere un colpo d'ala tale da riuscire ad esiti di livello europeo, avvicinabili a quelli raggiunti da Monteverdi nel campo particolare del melodramma. Singolare risulta la sua posizione se si considerano le condizioni della musica dell'epoca, le quali non consentivano di presagire l'affermazione di un genere musicale nuovo, quello dell'oratorio in latino, che con il C. assume i trarti di una felice e superiore conquista del talento e dello spirito. Prescindendo dalla fioritura del melodramma, il Seicento era sembrato annunciarsi come un'epoca di transizione, di consolidamento delle forme preesistenti e di avvio verso altre nuove, imprevedibili, dell'avvenire. La musica sacra si andava conformando a una sempre più rigida e vacua osservanza dello stile palestriniano, lontanissima dalla severa, naturalmente semplice ed austera espressività del grande compositore. La musica profana continuava ad espandersi con tale vivacità da minacciare la fin'allora prevalente superiorità di quella religiosa. La musica strumentale si stava sempre più autorevolmente diffondendo, accolta ovunque con favore e dotata di una insospettata capacità di penetrazione che non lasciava dubbi sulla futura conquista di sempre maggiori spazi.
Prima che nell'oratorio la musicalità del C. si era manifestata nel campo della cantata - finora non del tutto esplorato e valutato - di cui il musicista ci ha lasciato non meno di 145 esempi. Il loro livello e la grande varietà formale e tematica consentono, fra l'altro, di poter seguire puntualmente l'evoluzione della sua attitudine creatrice e di giustificare quei non pochi studiosi del Settecento che vollero vedere in lui l'inventore stesso della cantata. Se per le messe e i mottetti, ancora tuttavia imperfettamente noti, non si può parlare di prodotti decisamente superiori al livello medio di analoghe composizioni del tempo, specifiche caratteristiche di effettiva originalità presentano i suoi oratori latini. Si tratta di una forma musicale del tutto nuova e tipicamente italiana, nata nell'ambiente religioso dell'aristocrazia romana, che nell'oratorio del SS. Crocifisso della chiesa di S. Marcello stemperava la sua severa e castigata osservanza cattolica con una musica ispirata a intendimenti di edificazione religiosa. La vita stessa del C. sta a dimostrare come abbia inteso assegnare anche alla musica, così come aveva fatto con ogni atto della sua esistenza, il compito di onorare la fede cristiana. I risultati conseguiti, di tale portata da collocare l'oratorio tra le grandi realizzazioni della genialità italiana, probabilmente sfuggirono al musicista stesso. Tale inconsapevolezza, del resto, è dimostrata palesemente dalla poca cura posta nell'assicurare alle stampe le sue composizioni: si dovette all'attenzione e all'affetto dei suoi allievi se qualche oratorio o parti di oratorio, alcune cantate e qualche mottetto vennero pubblicati mentr'egli era ancora in vita.
La disposizione spirituale del C. e gli intenti della sua opera si riflettono in una concezione artistica di estrema semplicità e sobrietà, attuata con una parsimonia di elementi tanto essenziali quanto raffinati che potrebbero sembrare troppo scarni o addirittura poveri. L'uso stesso dei cori, personalissimo, è lontano dagli sfarzi policorali cui erano pervenuti i maestri della coeva scuola polifonica romana: frequenti passi omofonici si alternano a felici inserzioni di carattere contrappuntistico che si discostano dall'accademismo che impronta la polifonia del tempo. Egualmente l'impiego discreto degli strumenti (per lo più due violini e il basso continuo) risponde al carattere di essenzialità proprio del linguaggio del C., avvertibile anche nella semplicità del sostegno armonico. Ilcanto di tipo monodico, tanto largamente apprezzato dopo l'avvento dello "stile rappresentativo", viene da lui assunto con spontanea naturalezza e utifizzato così felicemente da risultare un elemento del tutto congeniale al suo linguaggio musicale. Negli oratori, in particolare, il C. attuò una straordinaria capacità di sintesi drammatica e di concisione espressiva, estremamente efficaci nello scolpire le grandi figure dei protagonisti delle historiae. Di rara potenza nella pittura dei ruoli drammatici, il C. riesce a cogliere con somma pertinenza le varie sfumature della sensibilità umana, così come ha dimostrato di saper cogliere il senso dell'umorismo e del grottesco nei brani corali intitolati: Storia dei Ciclopi, Requiem aeternam, Testamentum asini e V, e, ve, venerabilis barba capucinorum. Uomo di ragguardevole cultura, fu quasi certamente l'autore dei testi letterari di alcuni dei sedici oratori latini pervenutici sotto il suo nome, in cui talvolta gli riesce agevole superare i limiti del linguaggio convenzionale comune a tanti testi dell'epoca. Ma è con la sua musica che egli ne riscatta sempre la mediocrità, che determina la loro credibilità scenica e che conferisce validità artistica all'insieme.
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