GERACI, Giovanni Ventimiglia, marchese di
Nacque nel luglio 1559 a Castelbuono (Palermo) da Simone, marchese di Geraci, e da Maria Ventimiglia, figlia di Guglielmo barone di Ciminna e di Sperlinga, altro ramo della potente famiglia che nel corso del Tre e Quattrocento era stata in grado di condizionare gli equilibri politici del Regno di Sicilia. Ai Ventimiglia appartenevano grandi stati feudali, che, prima dislocati strategicamente in tutta l'isola, a seguito di matrimoni, compravendite e permute, si erano andati concentrando soprattutto nell'area montuosa delle Madonie. Si veda l'atto del 1557, con il quale il citato Simone si investiva, oltre che del marchesato di Geraci, delle terre e castelli di Castelbuono, Gangi, San Mauro, Pollina, Tusa e Pettineo. Il fratello Carlo era conte di Naso; altri Ventimiglia, anch'essi discendenti dal ceppo originario dei conti di Geraci, possedevano Gratteri. Infine nel 1627 sarebbe stato creato nella stessa area, sull'omonimo centro abitato, il principato di Ventimiglia.
L'improvvisa morte del padre, avvenuta nel settembre del 1559, se non precipitò in una irrimediabile crisi la casata dei Geraci - Giovanni e la sorella Giulia, affidati dalla corte pretoriana alla tutela della madre Maria e dello zio conte di Naso, godevano anche della protezione del duca di Terranova - mise però in luce un grave dissesto finanziario, da attribuire, almeno in parte, alle spese sostenute dal defunto marchese per i suoi impegni pubblici. I tutori presero possesso dei feudi il 12 ott. 1559, ma per l'investitura, non disponendo della cospicua somma necessaria, furono costretti a chiedere varie dilazioni. L'atto formale è del 14 dic. 1561 e concerne gli stessi feudi di cui si era investito Simone nel 1557; a questi si aggiungerà, nel 1567, Castelluzzo (ora Castel di Lucio).
Dal 1570 il giovane G. ebbe per tutori Carlo d'Aragona Tagliavia, duca di Terranova (presidente del Regno negli anni 1566-68 e 1571-77) e il figlio di questo, Giovanni marchese di Avola. Per fare fronte a un passivo che ammontava a circa 4000 onze, i tutori dovettero vendere parecchi feudi e addirittura le intere baronie di Castelluzzo, Pollina e San Mauro. Tra gli acquirenti figurano i noti mercanti genovesi Carlo e Nicolò Ferreri, i quali tenevano in gabella altri feudi, tra cui Sperlinga, appartenente, come si è detto, alla madre del Geraci. Paolo Ferreri avrebbe consentito in seguito che Pollina e San Mauro tornassero ai Ventimiglia, effettuando nel 1571 la permuta con Pettineo e il feudo di Migaido, facente parte del territorio di Castelluzzo.
Il 14 febbr. 1574 il G. sposò Anna d'Aragona Tagliavia, figlia del suo tutore duca di Terranova. La pesante situazione finanziaria non impedì che il matrimonio si celebrasse con grande pompa e feste tra cui una giostra tenuta a spese del Senato di Palermo, alla quale parteciparono i personaggi più in vista della città. Nacque Simone, che morì bambino; la moglie Anna morì nel 1582, e il G. fu costretto a contrarre altri debiti per la restituzione della dote. Trascorse negli anni Settanta e Ottanta lunghi periodi a Castelbuono, che nei disegni del padre e del nonno doveva diventare la "capitale" degli stati. Proseguendo nelle iniziative da essi intraprese, realizzò imponenti lavori di ristrutturazione nel castello, residenza della famiglia, dedicando particolare cura ai giardini (era dotato di giardino anche l'edificio della Zisa che aveva preso in affitto a Palermo). Diede un nuovo assetto urbanistico al centro abitato, fece pavimentare alcune strade e arricchì gli spazi pubblici di fontane e abbeveratoi; avviò l'edificazione della nuova chiesa madre e favorì l'installazione in paese dei cappuccini, dei domenicani e degli agostiniani. La difesa del litorale sarebbe stata garantita da due nuove torri di avvistamento. A conferma dell'arretramento verso l'interno degli interessi della famiglia, il palazzo detto "osterio magno" che i Ventimiglia possedevano a Cefalù fu venduto a un notabile del luogo.
Non dimenticò però Geraci e ne è prova la conferma autografa apposta nel 1578 in calce all'atto con il quale il padre Simone aveva approvato i capitoli della fiera di quella località. Né si sottrasse agli impegni che comportava l'appartenenza al casato: fu più volte deputato del Regno (1576, 1579, 1585), mentre nel 1583, morto Carlo Ventimiglia, come parente più stretto fu nominato curatore del figlio primogenito, diciassettenne, e tutore degli altri nove figli di età compresa tra 1 e 13 anni. Giuseppe, il secondo dei maschi e poi il figlio di questo, Francesco, tra il 1619 e il 1620 gli sarebbero succeduti negli stati di Castelbuono e Geraci.
Nel 1586 il G. ereditò dalla madre le baronie di Ciminna e di Sperlinga. Con la nomina regia a stratigoto di Messina (capo dell'amministrazione cittadina) per gli anni 1587-89 e 1591-93 ha inizio la sua carriera politica e il suo legame con la città di Messina, tradizione, anche questa, di famiglia. Nel quadro delle rivendicazioni messinesi per mantenere il monopolio del commercio della seta fu protagonista di un episodio riferito dalla storiografia sei-settecentesca in termini per lui molto lusinghieri: il gesto con cui stracciò i registri della dogana, facendo credere di prendere le parti del popolo sollevatosi contro le gabelle regie, mentre subito dopo avrebbe messo a morte i capi della rivolta, venne considerato prova di grande abilità politica e di devozione alla monarchia. La storiografia contemporanea invece mette in luce l'incapacità del governo di comprendere e gestire l'aspirazione di Messina all'autonomia, con il risultato di staccarla sempre di più da Palermo e di perpetuare un motivo di debolezza del Regno.
Sempre a Messina, si fece promotore - forse a seguito dell'esperienza maturata nella lotta contro i Turchi - della fondazione di un ordine militare, l'Ordine dei cavalieri della Stella dedicato a Maria ss. dell'Epifania, e di cui a Messina è rimasta viva la tradizione.
Oltre che militare e amministratore, il G. fu uomo di cultura e mecenate delle arti e delle lettere, come già il padre e il nonno, dei quali si ricorda il legame con lo scienziato messinese Francesco Maurolico, che fece lunghi soggiorni a Castelbuono, e il prozio Cesare Ventimiglia (morto nel 1573), proprietario di una ricchissima biblioteca. Organizzava rappresentazioni teatrali e si assunse le spese di stampa di lavori letterari: Donato Lombardo, detto il Bitontino, gli dedicò le sue opere poetiche, stampate nel 1589 e nel 1590 (più tardi, nel 1613, Francesco Maurolico jr. gli avrebbe dedicato la biografia dello scienziato). Appoggiò Messina nella controversia con la città di Catania, che aveva tentato in ogni modo di mantenere il monopolio degli studi universitari; nel 1596 lo Studio messinese cominciò in effetti a funzionare.
I biografi ricordano ancora la sua amicizia con Torquato Tasso, che non fu peraltro una conoscenza diretta; intermediario dei loro rapporti fu un religioso olivetano, Nicolò degli Oddi. Il G. più volte inviò al Tasso aiuti in denaro, sperando che nella Gerusalemme conquistata il poeta celebrasse la discendenza dai Normanni della famiglia Ventimiglia. Il Tasso, grato, manifestò anzi il proposito di dedicare all'argomento un intero poema, De Tancredi normando (che non avrebbe mai scritto). La notizia è riferita anche dal letterato Paolo Beni che nel 1607 dedicava al G. la sua Comparazione d'Omero Virgilio e Torquato.
Nel 1595 il G. raggiunse il culmine delle sue aspirazioni, sia riguardo all'ascesa della famiglia, sia per la sua carriera politica. Gli venne infatti conferito il titolo di principe (con privilegio esecutoriato il 22 maggio 1595) sullo stato di Castelbuono, per le benemerenze dei suoi avi - così recita l'atto di investitura - e per i suoi propri meriti acquisiti già in giovane età (cum esset adhuc iuvenis) come stratigoto di Messina e come vicario per i tre Valli. Il G. occupò così il quinto posto nel braccio militare del Parlamento, dopo i principi di Butera, di Castelvetrano (e duchi di Terranova), di Pietraperzia e di Paternò. Tuttavia lui e i suoi successori continuarono a chiamarsi e a essere conosciuti come marchesi di Geraci.
Dall'autunno del 1595 (il dispaccio regio è datato 29 luglio 1595) il G. sostituì come presidente del Regno Enrique de Guzmán conte di Olivares, inviato come viceré a Napoli, e mantenne l'incarico fino all'arrivo del nuovo viceré, Bernardino de Cárdenas duca di Maqueda, nella primavera del 1598 (sarebbe stato presidente una seconda volta, nel 1606 da ottobre a dicembre).
Non era una novità che il governo centrale chiamasse una personalità siciliana di gran nome a svolgere in pratica le funzioni di viceré, quando si prevedeva una lunga assenza del titolare. Della sua prima lunga presidenza si ricordano, tra l'altro, il donativo straordinario votato nel Parlamento del 1597 per le fortificazioni dell'isola di Ustica e vari provvedimenti, impopolari ma necessari, presi per fronteggiare la carestia e per limitare la circolazione della moneta tagliata. Una curiosità: il simulacro del cosiddetto Genio di Palermo, una statua che rappresenta il fiume Oreto, che il G. nel 1596 fece collocare sullo scalone del palazzo senatorio di Palermo, vi si trova ancora oggi; l'iscrizione che ricordava l'episodio però è andata perduta.
I cronisti riportano ancora con grande rilievo, come prova di un carattere impulsivo e poco diplomatico, la vicenda dell'incarcerazione (1597) dei senatori di Palermo, che si erano opposti all'elezione di un pretore non cittadino, e che furono scarcerati per ordine sovrano.
Inevitabilmente i rapporti con il re e con il governo centrale attraversarono momenti di crisi, ma né Filippo II né in seguito Filippo III avevano interesse a rompere i delicati equilibri creati tra il centro e la periferia. I contrasti emersero nei Parlamenti del 1612 e del 1615, per i quali il viceré Pedro de Alcántara Girón duca di Osuna aveva imposto di osservare il divieto sovrano di cumulo delle procure (deleghe): si voleva evitare che, attraverso le deleghe a farsi rappresentare, si concentrasse nelle mani di pochi potenti esponenti dell'aristocrazia terriera il potere decisionale dei Parlamenti e della deputazione del Regno, organo questo che, si ricorda, provvedeva alla ripartizione e alla riscossione dei donativi e ne gestiva direttamente alcuni.
Il G. si fece portavoce del malcontento dell'aristocrazia nei confronti del viceré (che, come riferiscono le cronache, proprio lui, in quanto persona influente e addentro nei problemi della Sicilia, aveva accolto all'arrivo a Palermo e con il quale si era intrattenuto da solo). Il 4 dic. 1615 indirizzò al sovrano un lungo memoriale, cercando di dimostrare che il concentrarsi delle procure non era un fattore negativo e anzi in passato aveva favorito l'unanimità nel votare i donativi. Non convinse gli organi centrali, che temevano la solidarietà dei baroni anche nell'opposizione al viceré; ma né il sovrano né il Consiglio d'Italia volevano alienarsi il G. e, pur approvando senza riserve l'operato del duca di Osuna, si preoccuparono di testimoniargli stima e gratitudine.
Nel memoriale il G. evidenziava di avere servito per 42 anni la Corona senza fini personali. In effetti non si era arricchito né risulta tra gli indagati nelle visite generali del Regno; anzi nel 1600 i feudi, secondo una prassi invalsa ormai da alcuni anni in caso di insolvenza del titolare, erano stati tolti alla sua diretta gestione e affidati alla deputazione degli Stati.
Il G. morì a Castelbuono il 12 giugno 1619 e fu seppellito in quella città, nella cappella di S. Antonio di Padova, detta Mausoleo dei Ventimiglia.
Non avendo avuto figli legittimi neppure dalla seconda moglie, Dorotea Branciforti Barresi dei principi di Butera sposata nel 1591, nei feudi gli successe dapprima il cugino Giuseppe, che morì alcuni mesi dopo, e quindi il figlio di questo, Francesco, investitosi nel 1620. La figlia naturale, Beatrice, sposò nel 1617 Girolamo Del Carretto, figlio del conte di Racalmuto, dopo una fiera opposizione dei Del Carretto durata alcuni anni e che arrivò fino alla corte di Madrid, a causa, sembra, della troppo giovane età dello sposo. Nel 1627, già vedova, Beatrice ebbe la licenza di popolare il feudo Calamigna e di dare al centro abitato il nome di Ventimiglia; nello stesso anno il feudo fu elevato a principato.
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