Gentile e lo Stato etico corporativo
Nella cultura filosofica e politica europea di inizio Novecento sono ampiamente diffuse le critiche alle istituzioni liberali e democratiche, ritenute testimonianza obsoleta di una società borghese decadente e al tramonto, ormai incapace di pensare i rapporti tra individuo, società e Stato all’interno della democrazia parlamentare. Tali critiche – tra le quali si segnala anche quella svolta da Giovanni Gentile nei confronti dell’individualismo liberale in numerosi scritti tra il 1918 e il 1944 (Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 1° vol., 1990, pp. 7-37, 61-89, 113- 16, 157-64, 167-86, 373-75; 2° vol., 1991, pp. 14-17, 39-52, 111-16) – continuano a svilupparsi tra le due guerre, in forme ovviamente plurali: marxisti e cattolici, tradizionalisti e anarchici, socialisti e nazionalisti esercitano una forte pressione politica in vista dell’abbattimento della «vecchia» Europa e della democrazia liberale. Tra queste numerose critiche è possibile individuare – in linea generale – almeno due blocchi contrapposti: quello dei rivoluzionari di destra (in particolare nazionalisti) e quello dei rivoluzionari di sinistra (in particolare marxisti). Ma, mentre le diverse tradizioni marxiste radicali mirano al superamento delle contraddizioni della società borghese attraverso una rivoluzione politica che determini l’avvento della società comunista, nelle culture rivoluzionarie di destra le posizioni antiliberali e antidemocratiche si declinano generalmente in una prospettiva spiritualistica e ‘comunitarista’ che mira alla costruzione di una nuova ‘unità politica organica’. Si tratta di un mutamento culturale antiborghese di proporzioni gigantesche che, da destra, coinvolge numerosi pensatori di diverso orientamento in tutta Europa: da Charles Maurras a Louis-Ferdinand Céline, da Charles-Pierre Péguy a Carl Schmitt, da Ernst Jünger a Gabriele D’Annunzio, da Filippo Tommaso Marinetti a Delio Cantimori, da Rudolf Kjellén a Hans Freyer, da Arthur Moeller van den Bruck a Martin Heidegger, da Maurice Blondel a Gentile, emerge una miscela contraddittoria – ma politicamente efficace e fortunata – di concetti tradizionali, reazionari e rivoluzionari, plasticamente rappresentata dai movimenti della ‘rivoluzione conservatrice’ e del ‘modernismo reazionario’. Gli effetti politici di tale movimento culturale sono visibili nel progressivo avanzamento dei partiti di destra in tutti i Paesi europei, in primis il fascismo in Italia, che diventa il laboratorio nel quale giungono a compimento le critiche alle istituzioni liberal-democratiche.
Tali critiche hanno però un fondamento filosofico e culturale, prima che politico, che inizia a strutturarsi a cavallo tra Ottocento e Novecento nelle posizioni dei pensatori critici verso la modernità. In Germania, per esempio, il rifiuto della società borghese e la critica del liberalismo elaborati da posizioni di destra riposano sulla distinzione tra Kultur e Zivilisation, attraverso cui viene espresso un giudizio critico sul mondo moderno: l’accrescimento del sapere scientifico, del patrimonio tecnico e delle risorse economiche non rientra nell’ambito ‘organico’ della Kultur, bensì in quello ‘meccanico’ della Zivilisation. La dimensione spirituale della comunità tradizionale viene distinta dall’incivilimento tecnico-scientifico della società borghese e così si afferma una netta contrapposizione tra spirito e tecnica, tra anima e meccanismo, tra ‘vita’ e ‘forma’. Il progresso della scienza positivistica e dell’economia capitalistica viene considerato esclusivamente ‘tecnico’, materiale e quantitativo, tanto da essere definito ‘civilizzazione’ in senso negativo. È pertanto necessario il recupero della ‘cultura’, cioè delle idee romantiche del nazionalismo (in Germania riassunte nel motto Blut und Boden): Kultur è il patrimonio spirituale della civiltà tradizionale, l’insieme organico dei valori, delle istituzioni, dello spirito e dell’anima del popolo. Nella loro lotta per l’affermazione della forma di vita tradizionale, i sostenitori della Kultur – tra cui si segnalano Oswald Spengler e Werner Sombart – insistono sulla superiorità degli ideali morali e della dedizione alla patria rispetto al razionalismo e all’individualismo tipico delle società industriali e liberali, che sono sempre più sinonimo di razionalizzazione, industrializzazione, massificazione, spersonalizzazione, urbanizzazione e livellamento, cioè di valori negativi che si estendono a tutto ciò che rappresenta il mondo borghese in Europa.
Sulla concezione ‘borghese’ – cioè illuministica e positivistica – della modernità cala un oscuro velo soprattutto in occasione della Grande guerra, che nel contesto culturale delle destre europee viene celebrata come una forma di ‘rigenerazione’ individuale e collettiva rispetto alla decadenza e alla crisi del mondo liberal-democratico: la guerra diventa l’evento finale della civiltà europea dalle cui ceneri possono nascere un ‘uomo nuovo’ e una nuova società caratterizzati da ‘autentici’ valori spirituali, ma che non rifiutano – anzi, accolgono volentieri in vista del perseguimento di una politica di potenza – i contributi della tecnica moderna. Per giungere a una tale rigenerazione, però, è necessario abbandonare lo stile di vita della borghesia e il modello ‘riformistico’ della liberal-democrazia; soprattutto è necessario adottare l’immagine del ‘nuovo inizio’ e passare attraverso le «tempeste di acciaio» della guerra, sperimentando valori quali il coraggio, il rischio, la forza, l’abnegazione e il sacrificio, retoricamente trasfigurati in un modello assoluto di vita e di bellezza che sfocia nell’estetizzazione della guerra. A questa concezione ‘avventurosa’ della vita individuale e sociale è ovviamente estraneo il nucleo ideologico che unisce liberalismo, democrazia e capitalismo, considerato ormai un segno di decadenza morale. Infatti, allo scopo di abbattere definitivamente le istituzioni borghesi, e in particolare lo Stato liberale di diritto, nelle culture filosofiche di destra emergono due diversi modelli di organizzazione politica, talvolta reciprocamente intrecciati, il decisionismo e l’organicismo, entrambi presenti nella concezione dello Stato etico corporativo di Gentile.
Il bersaglio polemico della filosofia politica di Gentile non è il liberalismo tout court, ma il liberalismo individualistico moderno (nella tradizione italiana contemporanea rappresentato, per es., da Guido De Ruggiero), che viene considerato l’espressione politica del naturalismo meccanicistico. I limiti di questo liberalismo «atomistico» e «materialistico», fondato sul diritto naturale, sono evidenti: esso non è infatti riuscito a costruire un’unità politica ed è al contrario giunto a produrre una società meccanica in cui il diritto è interamente centrato sull’individuo e sulle sue pulsioni egoistiche, che producono «settarismo» sociale ed economico. Nella tradizione giusnaturalistica e contrattualistica – ripresa dall’illuminismo e dal positivismo – l’individuo è un assoluto prius rispetto allo Stato: quest’ultimo è infatti solo un mezzo per la realizzazione dei fini individuali. Nella sfera morale dell’individuo inizia e termina il processo costruttivo e la ragion d’essere dello Stato, che diventa pertanto una «macchina» senz’anima esterna all’individuo autonomo e autosufficiente (G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, 1916, 19874, pp. 73-77 e 103-06; Politica e cultura, 1° vol., cit., pp. 61 e segg.).
Contro questo liberalismo meccanicistico, Gentile afferma un «liberalismo» in cui lo Stato è realtà etica che si realizza nel momento stesso in cui si realizza l’individuo nella sua universalità: lo Stato etico – modellato sull’eredità del Risorgimento e di Giuseppe Mazzini – non assorbe dunque in sé l’individuo, annullandolo, ma, al contrario, lo invera nella sua moralità che si attua nel divenire storico. Per Gentile, Stato e individuo non vivono la polarità descritta dal liberalismo classico, perché a entrambi compete la stessa moralità: lo Stato non è infatti il limite della libertà dell’individuo, ma l’attualità concreta del suo volere, perché lo Stato non è sopra ed esterno agli uomini ma è «dentro» gli stessi uomini. La vera individualità si attua non nell’astrazione da ogni legame sociale, bensì all’interno dello Stato pensato come comunità spirituale: è il realizzarsi dell’etica, o della sintesi spirituale, che permette la formazione dello Stato in armonia dialettica con l’individuo (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., 128-30).
Gentile intende risolvere il principale difetto dello Stato liberale di diritto, cioè il suo insistere sul dualismo irrisolvibile tra individuo e comunità politica, allo scopo di delineare l’essenza etica dello Stato. La critica dell’individualismo liberale è piuttosto diffusa nella cultura giuridica e filosofico-politica italiana del primo Novecento, per es. anche in pensatori quali Santi Romano e Vittorio Emanuele Orlando che, in modi diversi, propongono un approccio ‘istituzionale’ al diritto dell’organizzazione statale, considerato un effetto del pluralismo degli ordinamenti concreti. Ma, agli occhi di Gentile, questa soluzione ‘istituzionale’ è insufficiente, perché si muove solo sul piano giuridico, mentre il diritto è espressione di una sfera esistenziale più ampia, la volontà politica dello Stato. In Gentile, infatti, lo Stato non è una realtà empirica, ma la forma concreta di esistenza di un popolo, cioè il «volere comune e universale» nel suo «svolgimento» (Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1946, 19945, pp. 57 e segg.) che diventa realtà spirituale o forma dello spirito nella sua universalità. Così inteso, lo Stato si svela come Stato etico che ha al proprio interno moralità e cultura, politica e diritto, coscienza e volontà:
La politica non è diritto, ma morale: non è né astratto volere, né astratto voluto. È volere in atto. È il volere di un popolo, in quanto il popolo ha un volere. Il che vuol dire, in quanto ha una coscienza unificata; ma una coscienza che sia autocoscienza, personalità e perciò volontà. La volontà di un popolo, che si sente nazione (e si vuole come tale), è lo Stato. Quindi Stato e politica sono tutt’uno e la distinzione non può essere se non verbale come quella per cui del volere che è verbo si fa un sostantivo, e si può dire quindi che il volere vuole, quasi che il volere potesse anche esserci senza l’atto del volere: quasi che sostantivando dei verbi si creassero sostanze, o cose, concepibili come indipendenti dalle loro azioni e manifestazioni. Tutta la sostanzialità dello Stato si esaurisce nella volontà con cui esso si attua, o dicasi pure, in tutto quel complesso di azioni che sono la politica dello Stato (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., p. 128).
La vera libertà esiste solo nello Stato inteso come sostanza etica consapevole di sé: solo nella vita sociale e politica si sviluppa e si realizza la natura umana intesa come «volontà in atto», come unione di pensiero e azione (Politica e cultura, 1° vol., cit., pp. 31-37; 2° vol., cit., pp. 40-46, 53-56, 60-61). Lo Stato etico non si oppone all’individuo perché, mentre l’individuo si oggettiva e si universalizza nello Stato, lo Stato si interiorizza e si rende particolare nell’individuo, cioè in interiore homine: lo Stato etico non è una realtà superiore o esterna all’individuo, che egli deve conquistare o combattere, perché lo Stato – in quanto comunità organica, opera di tutti i cittadini – è presente nell’individuo, e viceversa, fin dall’inizio come «persona»:
Questo Stato che vuole, anzi è la sola volontà concreta – poiché tutte le altre si possono dire volontà solo astrattamente, in quanto si prescinde dai rapporti indissolubili onde ogni individuo è legato alla società e ne respira quasi l’atmosfera come lingua, costume, pensiero, interessi, aspirazioni – questo Stato, dico, non sarebbe volontà, se non fosse una persona […]. Ma chi dice persona, dice attività morale; dice un’attività che vuole quel che deve volere, secondo un ideale. E lo Stato che è coscienza nazionale e volontà di questa coscienza, attinge da questa coscienza l’ideale a cui esso mira e indirizza tutta la sua attività. Perciò lo Stato non può non essere una sostanza etica […]. Lo Stato ha per noi un valore morale assoluto, come la persona in funzione della quale tutte le altre hanno un valore, che coincidendo con quello dello Stato è pur esso assoluto (Politica e cultura, 1° vol., cit., pp. 32-33).
Lo Stato etico per eccellenza è, in Gentile, lo Stato fascista, in cui l’uomo «attivo», impegnato dal dovere nella realizzazione di una legge morale che stringe insieme individui e generazioni in un’unica tradizione vivente, lotta per instaurare una vita «superiore», libera da limiti di tempo e di spazio, in cui il sacrificio di sé realizza la sua esistenza spirituale. Nessuna azione individuale è sottratta al giudizio morale pubblico, perché nessun Io esiste senza il Noi: lo Stato fascista è «totalitario», cioè sintesi di ogni valore e volontà del popolo, perché dà forma alla coscienza e alla volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica (pp. 395 e segg.). In quanto «persona» e «forza morale», lo Stato fascista non è solo «etico» – cioè espressione realizzata di un mondo spirituale – ma anche «storico» e «religioso»: «storico», perché tutti i suoi membri passati e presenti concorrono concretamente alla costruzione dell’identità politica (lingua, cultura, costumi ecc.) che si realizza nel processo della realtà e nel divenire, non in astratto; «religioso», perché l’uomo è connesso a una legge superiore, a una volontà oggettiva che lo trascende, elevandolo a membro di una comunità spirituale. Lo Stato è una realtà etica che esiste e vive in quanto si sviluppa facendo valere la sua moralità e la sua potenza, governando e dando forma di legge e valore di vita spirituale alla volontà della nazione interiorizzata nella coscienza degli individui. Lo Stato fascista, essendo una creazione spirituale, e non meramente materiale, è sempre in fieri, in un continuo divenire in cui individuo, popolo e Stato si immedesimano l’uno con l’altro in una sintesi indissolubile.
A fianco dei dibattiti politici che conducono all’approvazione della legge nr. 565 del 3 aprile 1926, firmata da Alfredo Rocco, e della successiva Carta del lavoro del 1927 in cui si afferma la struttura corporativa dello Stato fascista (che, in alcune linee fondamentali, rielabora le proposte enunciate nella Carta del Carnaro del 1920 da Alceste De Ambris e D’Annunzio), la concezione corporativa dello Stato viene elaborata da molti pensatori italiani tra le due guerre – in particolare da Giuseppe Bottai, Ugo Spirito, Arnaldo Volpicelli e Cantimori – che ne sottolineano i tratti di profonda innovazione rispetto alla politica liberal-democratica e all’economia capitalistica. Nelle loro interpretazioni questo carattere innovativo risiede soprattutto nell’ostilità al materialismo individualistico (cioè nell’ostilità al cosiddetto americanismo), da un lato, e nell’affermazione dei valori morali anche nel mondo ‘meccanico’ dell’economia, dall’altro: tutto ciò determina una diversa visione dello Stato, che non ha, come avviene nella tradizione liberale, solo il ruolo di ‘arbitro’ nella gestione delle relazioni sociali ed economiche, ma ha soprattutto il compito di ‘costruire’ simbolicamente e materialmente l’unità del corpo politico, rappresentata e guidata dal leader carismatico del popolo-nazione. Per questo motivo l’ordinamento corporativo non si limita alla dimensione giurisdizionale, che esprime la volontà dello Stato di impedire o disciplinare i conflitti di categoria assorbendoli all’interno delle funzioni statali, ma si estende alla dimensione istituzionale, in modo da ricondurre il corporativismo alla concezione ‘organica’ della comunità politica e facendo delle corporazioni gli organi dello Stato. Il corporativismo è pertanto uno dei tratti fondamentali dello Stato fascista, in cui l’organizzazione professionale e tecnica delle corporazioni è unita all’educazione morale fondata su ordine e disciplina, allo scopo di trovare soluzione al conflitto tra capitale e lavoro che caratterizza la società borghese liberal-capitalistica, senza però cadere nel ‘monismo’ materialistico ed economicistico marxista. Questa visione centralista e gerarchica dello Stato etico corporativo, che è alla base dello Stato fascista, si allontana dal tradizionale corporativismo cattolico ottocentesco e novecentesco, propugnato in particolare dall’enciclica Rerum novarum (1891) di Leone XIII, oltre che dalle opere di Wilhelm Emmanuel von Ketteler e Giuseppe Toniolo, in cui si afferma l’importanza del decentramento dei corpi sociali organizzati e la separazione tra Stato e corporazioni. Le ragioni del corporativismo fascista sono infatti più politiche, che economiche o sociali: nella cultura del fascismo il corporativismo non è solo un ordinamento economico-giuridico della società alla cui base si trovano gli ordinamenti professionali, ma una forma di trasformazione ‘rivoluzionaria’ della società che mira a individuare e costruire una ‘terza via’ rispetto al liberalismo e al socialismo, al capitalismo e al marxismo. Attraverso il partito unico e lo Stato totalitario guidati dal duce, l’economia corporativa disegna la vita economica della nazione come parte della vita politica della nazione. I bisogni individuali e collettivi – che si ‘risolvono’ insieme nello Stato totalitario – non sono dunque solo materiali, ma anche etici, in quanto rappresentano la sostanza morale della nazione.
Nelle sue linee fondamentali, Gentile condivide l’interpretazione politica dello Stato corporativo fornita dagli intellettuali vicini al fascismo – soprattutto da coloro che sottolineano l’aspetto ‘rivoluzionario’ del corporativismo fascista, come Cantimori – ma la fonda, riorientandola, sui principi filosofici dell’attualismo, così da inserirla all’interno del suo più ampio sistema filosofico. Si giunge così alla costruzione dell’immagine dello Stato etico corporativo (attraverso cui si produce un’ulteriore frattura con il pensiero di Benedetto Croce). Il corporativismo, per Gentile, non è solo una dottrina economica che afferma il carattere statuale e politico della produzione e del lavoro, e che pertanto riconduce il pluralismo dei sindacati e la frammentazione delle categorie professionali e produttive all’interno dell’unità statale, ma è una dottrina etica e politica che propone una concezione «sociale» della libertà e che riunisce in una forma istituzionale «organica» i cittadini rappresentanti le diverse attività economiche, i cui interessi non sono considerati egoisticamente, ma in relazione all’intero corpo politico nazionale (Politica e cultura, 1° vol., cit., pp. 401 e segg.). Per questo motivo egli considera che nella sfera meramente meccanica dell’economia l’individuo e la società non si formano come tali, cioè come incontro di particolare e universale, ma rimangono in una sfera subumana che è caratteristica del pensiero astratto, naturalistico e deterministico: mentre l’economia è meccanismo, la politica è libertà. L’economia non ha una sua autonomia, ma deve ricondursi alla volontà «totale» dello Stato, l’unica realtà assoluta riconosciuta da Gentile, nella quale può essere superato e trasfigurato il dato empirico in favore della moralità. La libertà non è nell’azione utile, intesa in senso esclusivamente utilitaristico, ma nell’azione etica, che «risolve» l’utile nella moralità dello Stato etico corporativo, rappresentato dal fascismo:
Lo Stato è concreto e universale volere, l’economia concerne la vita subumana dell’uomo: quel subumano, corporeo e naturale, che è bensì nello spirito umano, ma come momento astratto e perciò superato. L’economia, a questo titolo, è nella volontà, e perciò nello Stato; ma superata, eticizzata, spiritualizzata, trasfigurata cioè nella luce che è propria del mondo della libertà (Genesi e struttura della società, cit., p. 85).
Nella realtà effettiva, concreta, non esiste atto economico che non sia anche atto etico e politico, perché non esiste società civile che non sia Stato. In questa prospettiva, secondo Gentile, non esiste distinzione tra diritto e politica: tutto il diritto è diritto pubblico, perché non esiste una pluralità di fonti degli ordinamenti giuridici, né è ammissibile la concezione meramente «negativa» dello Stato elaborata dal liberalismo, che afferma la priorità del diritto privato sul diritto pubblico (pp. 58 e segg.). Nello Stato corporativo gli interessi particolari non sono soppressi, ma risolti in un organismo politico del quale essi fanno parte e solo all’interno del quale possono funzionare: lo Stato corporativo è intimamente etico perché assimila e dirige ai suoi scopi morali la vita economica nazionale, tanto da comportare il rifiuto dell’internazionalismo e l’affermazione dell’identità spirituale della nazione guidata – in forma «decisionistica» – dal duce. L’attualità spirituale che caratterizza il corpo politico, unitario e organico, è infatti attività etica che supera dialetticamente l’attività economica, contenendola e inverandola in sé.
Nell’agire politico il concreto non è né l’immediata individualità dell’essere particolare, che è mero arbitrio e spontaneità naturale, né l’immediato essere universale, ma è il processo di autocoscienza che consiste nell’atto secondo cui l’individuo si «autotrascende» e cessa di presentarsi come essere immediato, o chiuso in sé, per ritrovarsi nell’universalità concreta dell’unità politica. In questo processo, per Gentile etica ed economia si realizzano in una sintesi spirituale: se invece rimanessero separate, esse conserverebbero la loro astrattezza e non sarebbero in grado di superare le contraddizioni del liberalismo. Lo Stato etico corporativo non può dunque limitarsi a organizzare i diritti e gli interessi in forma «privatistica» o «sindacale», ma deve assorbirli e risolverli in sé, in un’unione allo stesso tempo «etica» e «politica» di particolare e universale:
Non è pensabile forma di diritto che non sia la proiezione di una forma di Stato. Così il diritto corporativo è il diritto proprio e caratteristico dello Stato corporativo. La formazione giuridica è sempre quella. Cambia il contenuto del diritto in funzione del nuovo atteggiamento dello Stato. Il quale con la corporazione nega il particolarismo e individualismo liberale dell’economia, ossia dell’astratto momento dell’interesse. Conserva bensì l’individuo, come centro dell’interesse (proprietà e libertà d’iniziativa) ma, approfondendo il concetto dell’interesse, ossia il concetto stesso dell’individuo, scorge e riconosce i legami essenziali dell’individuo con la società nazionale e instaura pertanto la coscienza dell’universalità immanente alla volontà dello stesso individuo: solleva cioè l’individuo dalla sua empirica particolarità all’universalità essenziale che conferisce alla sua azione un valore morale e perciò politico; o meglio, più intensamente morale e più energicamente politico. Il carattere corporativo del diritto è un riflesso del carattere più schiettamente morale e politico dello Stato (I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 131-32).
L’economico deve essere ricondotto al politico, cioè alla volontà dello Stato, perché il lavoro è una forma di cultura, come l’arte o la letteratura, che caratterizza la «vita in comune» della nazione. In questa prospettiva Gentile giunge a parlare di «umanesimo del lavoro»: nello Stato «organico» del fascismo il lavoratore lavora da «uomo», con la coscienza di sé e delle sue azioni, innalzandosi al regno dello spirito e costruendo il «mondo» attraverso il suo pensiero e il suo lavoro. L’«utile» è dunque una molla dell’azione umana mediante cui non si crea solo un guadagno economico, ma soprattutto una modalità etica e spirituale dell’esistenza (Politica e cultura, 1° vol., cit., pp. 237 e segg.; Genesi e struttura della società, cit., pp. 71-87, 111-12).
Nello Stato etico del fascismo tutto è «organicamente» nello Stato, rappresentato in modo cesaristico dal pensiero e dalla volontà del duce: non esistono pertanto distinzioni tra individuo e società, diritto e politica, teoria e prassi, spirito e forma, azione e dottrina, legge e morale, norma e disciplina, volontà e intelligenza, tradizione e cultura, educazione e lavoro. Per questa insistenza sull’«unità sintetica a priori» del corpo politico, il fascismo rifiuta il socialismo e il sindacalismo, colpevoli di irrigidire il movimento storico-economico nella lotta di classe, ignorando l’unità dello Stato (Politica e cultura, 1° vol., cit., pp. 182 e segg.; 2° vol., cit., pp. 14-17). Agli occhi di Gentile, però, il fascismo non respinge le istanze da cui il socialismo e il sindacalismo hanno tratto origine, che vengono fatte valere nel sistema corporativo degli interessi conciliati nell’unità dello Stato: individui e classi non sono più meri numeri, o portatori di interessi, perché sono prima di tutto, e soprattutto, Stato, cioè popolo concepito qualitativamente e unificato dalla coscienza di sé, da un’Idea che è volontà di potenza e di esistenza. Lo Stato fascista garantisce così il valore etico e politico del lavoratore, ricomponendo la molteplicità dei sindacati nell’unità statale e superando l’astrattezza morale e la frammentazione sociale del modello liberale di Stato:
Il fascismo [sta] istituendo il regime sindacale corporativo e avviandosi a sostituire al regime dello Stato liberale quello dello Stato corporativo. Esso infatti ha accettato dal sindacalismo l’idea della funzione educativa e moralizzatrice dei sindacati; ma, dovendo superare l’antitesi di Stato e sindacato, codesta funzione ha dovuto sforzarsi di attribuire a un sistema di sindacati che componendosi armonicamente in corporazioni si assoggettassero a una disciplina statale, anzi esprimessero dal proprio seno lo stesso organismo dello Stato. Il quale, dovendo raggiungere l’individuo, per attuarsi nella sua volontà, non lo cerca come quell’astratto individuo politico che il vecchio liberalismo supponeva atomo indifferente; ma lo cerca come solo può trovarlo, come esso infatti è, forza produttiva specializzata: che dalla sua stessa specialità è tratto ad accomunarsi con tutti gli altri individui della stessa categoria, appartenenti allo stesso gruppo economico unitario, che è dato dalla Nazione. Il sindacato, aderente quanto più è possibile alla realtà concreta dell’individuo, fa valere l’individuo qual è realmente, sia per la coscienza di sé che egli deve acquistare gradualmente, sia pel diritto che gli spetterà in conseguenza di esercitare, rispetto alla gestione degli interessi generali della Nazione, che dal complesso armonico dei sindacati risulta […]. Lo Stato corporativo mira ad approssimarsi a quella immanenza dello Stato nell’individuo, che è la condizione della forza, e cioè dell’essenza stessa dello Stato, e della libertà degli individui; e ne costituisce quel valore etico e religioso che il fascismo ha sentito profondamente e proclamato per bocca del Duce (Politica e cultura, 1° vol., cit., pp. 406-07).
Questo risultato «unitario» può essere raggiunto solo con l’inquadramento di tutti i lavoratori all’interno delle corporazioni istituite per ogni singola professione, che così diventano grandi collettività rappresentanti le forze del lavoro, del pensiero e del capitale che provvedono allo sviluppo etico ed economico della nazione. Tutto ciò, per Gentile, non significa né la creazione di un «sindacalismo di Stato», né l’abolizione del conflitto – sul terreno del diritto privato – relativo alle questioni economiche tra le diverse corporazioni, ma significa che i sindacati e le categorie devono essere riconosciuti giuridicamente allo scopo di includere la loro azione all’interno dell’unità spirituale della comunità politica, rappresentata dalla sovranità dello Stato, dalle decisioni del governo e dal pensiero del duce. L’ordinamento corporativo, inteso come forma dello Stato etico, è dunque l’opposto dell’ordinamento collettivistico dello Stato marxista, che elimina ogni aspetto etico e spirituale dal mondo economico, provvedendo a un riduzionismo materialistico che rende impossibile pensare l’unità politica dello Stato. Lo Stato etico corporativo di Gentile è, inoltre, l’esatto opposto anche dell’ordinamento individualistico dello Stato liberale, che non garantisce valore politico né ai lavoratori, né ai sindacati, visto che replica sul piano dei rapporti sociali l’astrattezza e l’atomismo con cui interpreta i rapporti tra l’individuo e lo Stato. Lo Stato etico corporativo non è tra gli individui, ma nell’unità di particolare e universale, di volontà e pensiero che è l’«individuale concreto». E tutto ciò vale tanto per gli individui quanto per i sindacati:
Il sindacato […] supera e deve superare il particolarismo che è il suo astratto universalismo sociale. Ogni sindacato è una fetta d’uomo e l’uomo non può essere che uomo intero; e il suo Stato perciò non è sindacato, ma superamento e risoluzione dei sindacati nell’unità fondamentale dell’uomo che si articola in tutte le sue categorie sindacali; e che non è un risultato, ma il principio e la condizione della molteplicità dei sindacati. Sicché lo Stato è sì sindacato allo stesso titolo per cui è individuo: ma individuo consapevole della propria reale complessa universalità la cui attuosa volontà è lo Stato. Così il sindacato è lo stesso Stato quando si eleva dagli angusti suoi limiti di categoria sociale alla piena unità del volere universale che anima e promuove tutte le categorie (Genesi e struttura della società, cit., p. 65).
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