MOGLIANO, Gentile
da. – Nacque sul finire del secolo XIII da Tommaso.
Il padre compare nelle fonti come giudice a Matelica nel 1285, come podestà a Montegiorgio nel 1303-04; nel 1317, insieme con il cugino Gentiluccio, cedette al Comune di Fermo i diritti della famiglia sul castello di Mogliano e, pur conservando beni e diritti nel territorio moglianese, si trasferì nella parte alta della città di Fermo. Francesco, fratello di Tommaso, fu vescovo di Fermo dal 1318 al 1325.
Il M. è ricordato per la prima volta in un atto di procura del Comune di Mogliano datato 22 genn. 1326 e compare tra i capi della fazione ghibellina che il 25 sett. 1329 incontrarono nel convento francescano di Montolmo (oggi Corridonia) il nuovo rettore della Marca, Fulcone da Pavia, e i capi della parte guelfa per trovare un accordo tra le due fazioni dopo il sostanziale fallimento della spedizione in Italia di Ludovico il Bavaro.
Per il periodo 1329-40, pur nella scarsità di notizie sul M., si può ipotizzare una sua stretta collaborazione con il ghibellino Mercenario da Monteverde, che si era imposto come signore di Fermo: non a caso, nel giugno 1341, negli atti di un’inchiesta ordinata da Benedetto XII per far luce su quanti occupavano beni della Chiesa nella Marca, viene annoverato tra i principali adherentes et seguaces di Mercenario, caduto vittima di un agguato appena un anno prima.
Nel febbraio 1345, grazie al sostegno di una fazione composta da nobili e da popolani, approfittando delle difficoltà prodotte dalla guerra contro Ascoli, fu creato signore di Fermo con il titolo di gubernator populi et communis.
Sul finire dello stesso anno fece atto di sottomissione alla Chiesa e il 14 genn. 1346, insieme con i fratelli Nicolino e Ciccarello e con i figli Ruggero e Chiaretto, fu assolto da Giovanni di Riparia, rettore della Marca Anconitana, dalle accuse che gli erano state mosse. Nel giugno successivo Clemente VI accordò allo stesso rettore la facoltà di concedere una nipote in moglie a uno dei figli del M., ma pochi mesi dopo il pontefice si scagliò contro la «inveterata et obstinata malitia» del M., reo di aver occupato la terra di San Ginesio e, per questo motivo fu affrontato e sconfitto, il 5 ottobre, dalle truppe del rettore.
Nell’aprile 1348 il M. alla testa dell’esercito fermano riuscì a conquistare, dopo un assedio durato quaranta giorni, la fortezza costruita dagli Ascolani nei pressi della foce del Tronto, ma il 14 novembre successivo fu pesantemente sconfitto dagli avversari, guidati da Malatesta e Galeotto Malatesta, sul fiume Potenza, nei pressi di San Severino.
La guerra contro gli Ascolani si trascinò per alcuni anni, nonostante i primi tentativi di pacificazione avviati nella tarda primavera 1351 dagli ambasciatori di Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano, che portarono alla stesura di un accordo preliminare non sottoscritto dalle parti. Nel settembre successivo Galeotto Malatesta in uno scontro presso Civitanova, da poco occupata dalle truppe fermane, catturò Ruggero, figlio del M., che fu portato prigioniero ad Ascoli e riscattato in occasione della pace stipulata a Rimini il 23 ott. 1351. L’accordo, raggiunto grazie alla mediazione dei rappresentanti del Visconti, fu nettamente favorevole agli Ascolani, che conservarono il porto e il tratto di costa limitrofo alla riva sinistra del Tronto.
Il M. compare nel testo del trattato di pace di Sarzana stipulato il 31 marzo 1353 e destinato a regolare le questioni tra i Visconti e Firenze. Nel documento vengono annullate le sentenze di condanna pronunciate nelle città di Firenze e Perugia contro il M. e altri seguaci marchigiani dell’arcivescovo di Milano; inoltre si riconosce al M. la facoltà di escludere dal provvedimento di riammissione e di restituzione dei beni le persone ritenute sospette, destinate a rimanere in esilio.
Nel 1353 i Malatesta, che avevano imposto la loro egemonia su buona parte della Marca d’Ancona, ripresero le ostilità contro il M. e in più occasioni invasero il territorio fermano, giungendo persino a porre sotto assedio la città di Fermo: il M., dopo aver sollecitato invano un intervento militare dell’arcivescovo di Milano e del marchese Aldobrandino d’Este, signore di Ferrara, si recò a Forlì e a Fabriano per arruolare truppe, ma sulla via del ritorno, per evitare un agguato tesogli dai nemici, fu costretto a imbarcarsi a Cesenatico per raggiungere via mare il porto di Fermo, mentre le truppe assoldate non riuscirono a raggiungerlo e furono sbaragliate dai Malatesta. Sfumata l’occasione di una breve tregua, voluta nel luglio 1353 dal Visconti, e constatata l’impossibilità di resistere con le sue sole forze all’esercito malatestiano, il M. assoldò, per 30.000 fiorini d’oro, la compagnia di ventura di Fra Moriale che nell’autunno 1353 costrinse i Malatesta ad abbandonare i territori occupati, a ritirarsi verso le Marche settentrionali e a pagare un’ingente somma di denaro.
Il 4 luglio 1354 papa Innocenzo VI convocò il M. presso la Curia avignonese per rispondere dei delitti di cui era accusato, primo fra tutti quello di aver occupato la città di Fermo e altri luoghi della Chiesa. Non essendosi presentato, il M. fu colpito con la scomunica il 10 ott. 1354. Nel corso dello stesso anno si era fatta più incisiva l’azione di recupero delle terre della Chiesa iniziata dal cardinale E. Albornoz e il M., con la speranza di trovare il modo per liberarsi, finalmente, dalle pressioni militari dei Malatesta, si recò dal legato a Foligno, promise fedeltà alla Chiesa e la restituzione di Fermo e delle altre terre occupate in cambio della concessione in feudo di alcuni castelli. Lieto di poter contare su un prezioso alleato contro i più temibili Malatesta, il 1° dic. 1354 Innocenzo VI concesse ad Albornoz la facoltà di assolvere il M. dalla scomunica e di concedergli in feudo Civitanova, Montecosaro e Montefortino, castra della diocesi fermana, in cambio di un censo annuo di 100 fiorini d’oro, del giuramento di fedeltà al pontefice e alla Chiesa, della restituzione della città di Fermo e delle altre terre occupate. Inoltre, il M. conservò il controllo del Girone, la rocca di Fermo in attesa degli 8000 fiorini d’oro che gli erano promessi.
Nonostante l’accordo con il legato, il M. si lasciò convincere dal suocero Francesco Ordelaffi, signore di Forlì, a trovare un’intesa con i signori di Rimini: sperava in questo modo di ottenere la restituzione di tutti i castelli del contado fermano occupati dai Malatesta e, soprattutto, di contrastare in maniera più efficace le operazioni di recupero portate avanti dal legato pontificio; nel gennaio 1355, 200 cavalieri del M. usciti dalla rocca al comando del cognato Ludovico Ordelaffi, al grido «viva Gentile da Mogliano, e muoia la parte della Chiesa» (Villani, p. 143), cacciarono da Fermo le truppe del legato, costrette a riparare a Recanati, e recuperarono il controllo del territorio fermano.
Il 12 febbr. 1355 Innocenzo VI convocò nuovamente il M. ad Avignone per rispondere del suo comportamento fedifrago. In marzo le truppe pontificie riuscirono a catturare un fratello del M. e a recuperare il controllo di quattro castelli. La pesante sconfitta subita da Galeotto Malatesta il 29 aprile a Paterno, nei pressi di Ancona, e il successivo accordo dei signori di Rimini con il legato pontificio, determinarono l’isolamento del M. che si trovò a fronteggiare l’esercito guidato dal rettore della Marca, Blasco de Belvis. Il 12 giugno le truppe del legato riuscirono a penetrare a Fermo, mentre una sollevazione della popolazione cittadina costringeva il M. a ritirarsi nella munitissima rocca. Benché la fortezza fosse considerata inespugnabile e fosse fornita di abbondanti viveri, il M. preferì arrendersi e il 24 giugno consegnò la rocca a Belvis, probabilmente con la speranza di ottenere condizioni di resa meno dure. Il legato Albornoz condannò il M. all’esilio, lasciandolo quindi libero di uscire dal territorio della Chiesa, trasferì la Curia generale della provincia da Macerata a Fermo e lasciò la città nelle mani del rettore pontificio.
La rocca di Mogliano e le altre fortificazioni utilizzate dal M. furono demolite negli anni immediatamente successivi; i beni confiscati in Mogliano al M. e ai suoi fratelli, Nicoluccio e Ciccarello, dapprima furono venduti, nell’ottobre 1357, al Comune di Fermo, quindi passarono al Comune di Mogliano nel 1370.
Il M. con il figlio Ruggero, i fratelli Nicoluccio e Ciccarello, alcuni fuorusciti fermani e una comitiva di ladroni guidata da un certo Guarellino, «latrone id temporis famosissimo» (Sepulveda, p. 48), costituì una piccola compagnia di ventura che nel marzo 1356 saccheggiò il territorio fermano per alcuni giorni. Il 9 aprile dello stesso anno il M. fu condannato in contumacia alla decapitazione e alla confisca dei beni che la famiglia e i suoi seguaci possedevano in Fermo. Il 1° dicembre successivo fu condannato all’impiccagione insieme con il figlio Ruggero per aver saccheggiato il monastero di S. Croce nel territorio di Sant’Elpidio. Incurante delle condanne, il M. saccheggiò il castello di Montegranaro e le terre di Civitanova e Montolmo, e fu nuovamente condannato in contumacia alla decapitazione (27 febbr. 1357).
Unitosi alla compagnia del conte Lando (Konrad von Landau), nell’ottobre 1358 cercò invano di riconquistare Fermo facendo leva su alcuni fautori all’interno della città: i suoi seguaci, capitanati da un suo antico servitore, Fronzio di Francesco, tentarono di prendere la rocca per attendervi l’arrivo del M., ma furono scoperti, presi e, nel gennaio dell’anno successivo, condannati a morte per aver cospirato contro la Chiesa.
Nell’aprile 1359 il legato cercò di recuperare i rapporti con il M., che militava ancora nella Grande compagnia del conte Lando, e gli inviò un salvacondotto con l’invito a raggiungerlo a Cesena, ma il M. non raccolse l’invito e continuò a militare al soldo dei Visconti, interessati a mantenere uno stato di guerra permanente nella Romagna e nelle Marche.
La data e le circostanze della sua morte non sono note.
Incapace di gestire la nuova situazione politica, nonostante le indubbie capacità militari, il M. non riuscì a farsi inquadrare come elemento costitutivo della compagine statale che il cardinale Albornoz stava faticosamente costruendo.
Non sembra degna di fede la notizia, riportata dall’Anonimo Romano (p. 234), secondo la quale la moglie del M. sarebbe stata uccisa dal padre, Francesco Ordelaffi, per averlo pregato di concludere una pace con il legato al fine di ottenere la liberazione della madre Cia degli Ubaldini. Due figlie del M. furono catturate, insieme con la nonna materna Cia, il 21 giugno 1357 in occasione della resa di Cesena all’Albornoz e condotte prigioniere ad Ancona. Nel 1373 Agostina, Cia, Isabetta e Chileta, figlie del defunto M. e di Viviana, chiesero la restituzione dei beni dotali spettanti alla madre, che erano stati confiscati dagli ufficiali della Chiesa insieme con i beni del padre. Nell’agosto del 1376 il Consiglio generale di Fermo decise di restituire a Bonconte, figlio di Ruggero e quindi nipote del M., i beni confiscati ai suoi antenati che si trovavano in possesso della Camera apostolica e non erano stati ancora venduti.
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