Gentile a Pisa: Jaja, D’Ancona, Crivellucci
Il 14 novembre 1914 Gentile avviava il suo insegnamento di filosofia teoretica a Pisa con una celebre prolusione aperta dal ricordo della propria formazione in «questo sacro luogo della mia rinascita spirituale», nella «dolce patria» dove campeggiava la Normale, «nell’ultimo mezzo secolo l’istituto più benemerito dell’alta cultura italiana». Ma il «desiderio di rivedere gli antichi volti», accanto ai «luoghi usati», era stato vanificato da una serie di dolorose, ravvicinate perdite:
È scomparso or ora Alessandro D’Ancona, mentre ancora non si disperava ch’ei potesse con la sua forte fibra aver ragione del male e tornare a’ suoi dotti studi vibranti di passione indagatrice, a raccogliere e rinnovare i suoi antichi scritti, che furono i nostri primi modelli, […] il grande lavoratore, che ci fu sempre vivente immagine dello spirito in cui il passato è presente: il venerato maestro, che col suo acuto senso dei particolari e del positivo instillò anche a noi, che volgevamo alla speculazione, un fortissimo bisogno di realtà effettuale e di concretezza, che non è stato uno degli elementi secondari della nostra educazione filosofica (L’esperienza pura e la realtà storica, in G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana e altri scritti, 1923, p. 250).
Rispettosa, ma meno tesa e densa, l’evocazione di Amedeo Crivellucci (1850-1914), «il sapiente iniziatore dei giovani alle ricerche storiche», guida al lavoro d’archivio, alla critica documentaria, allo «scrupolo scientifico nella interpretazione delle memorie del passato» e, forse soprattutto, l’artigianale curatore di una importante e singolare rivista, gli «Studi storici» – organo di seminario, per caratterizzarla in termini odierni –, «dove tutti facemmo le nostre prime armi». Che Gentile, anche per motivi di appartenenza disciplinare e, in senso lato, di successione, dedicasse allora le parole più commosse a Donato Jaja (1839-1914) è del tutto comprensibile:
Era egli per me tanta parte di Pisa e di questa scuola; egli aveva destato nella mia mente i germi di vita speculativa; egli m’aveva riscaldato del suo grande affetto e animato ad osare, a tentare la via, per cui mi son messo; egli mi procurò il cibo di cui mi son nutrito e mi nutro; egli mi comunicò l’amore ond’era infiammato l’animo suo; egli fu veramente il mio secondo padre spirituale, che anche da lontano mi seguì sempre con vigile occhio […]. Io non mi sostituisco; io continuo. Continuerò, memore sempre degli alti insegnamenti non pur di scienza, ma di coscienza, che da questa cattedra furono sempre dati da un maestro, che fu un apostolo (pp. 250-51).
Sulla Pisa dei suoi anni giovanili, e sui suoi più amati insegnanti e compagni di studio, Gentile sarebbe tornato più volte, sino alla fase estrema della sua vita e della sua produzione intellettuale; e questo anche perché quella particolare realtà accademica sarebbe rimasta un punto di riferimento, e sarebbe stata al centro della sua attività in momenti ben distinti della sua esistenza. Di questi testi non coevi – ma ne abbiamo, di coevi, numerosi e significativi, che consentono preziose verifiche e messe a fuoco, forniscono il punto di avvio per seguire le successive rielaborazioni, e le torsioni di un ricordo che divenne spesso programma e rivendicazione – occorre tener conto con una certa cautela, e ricostruendone adeguatamente contorni e contesto: il discorso retrospettivo gentiliano è complesso, può essere in alcuni punti forzato e fuorviante, ma rimane analiticamente imprescindibile. Le celebri – e per tanti aspetti fondamentali – pagine del 1908 dedicate alla Normale, in un momento in cui, fra l’altro, i maestri erano ben vivi, non costituiscono certo solo un’espansione della memoria e del sentimento. Si trattava piuttosto di una precisa e mirata presa di posizione politica, legata in generale alle campagne scolastiche e universitarie dei «Nuovi doveri» e di Giuseppe Lombardo-Radice (1879-1938), e più specificamente a una situazione nella quale si poteva intravvedere il pericolo di un mutamento di ruolo e di indirizzo della Normale, di uno slittamento pedagogistico, sul modello delle scuole di magistero, che il nuovo regolamento della Normale, appunto dell’ottobre 1908, poteva in qualche misura far trasparire. Gentile sosteneva il primato della dimensione scientifico-disciplinare nella formazione degli insegnanti, e per questo rievocava con lucida passione un’esperienza personale e generazionale presentata come esemplare; si potrà semmai aggiungere che, nell’immediato, quelle pagine, pubblicate prima che venisse emanato il regolamento normalistico del 1908, non produssero risultati concreti. Detto questo, è difficile sottrarsi alla suggestione del racconto:
Quando ci venni io, nel novembre del 1893, per le abitudini, che avevo innanzi contratte, di libertà mi parve d’averne anche più del bisogno. Vi giunsi dal fondo d’una lontana provincia, dopo lungo viaggio di mare e di terra, senza sapere che avrei trovato, senza un’idea della vita che nella scuola m’aspettava, senza conoscer nessuno dei maestri, e solo di nome il D’Ancona e lo Zambaldi. Né a Pisa trovavo amici di sorta (La preparazione degli insegnanti medî. La Scuola Normale universitaria di Pisa, «Nuovi doveri», 1908, 26, pp. 7-8).
Ma, proseguiva Gentile,
la scuola infatti m’accolse come un vecchio scolare […]. Si riseppe subito il mio arrivo, e molti normalisti si raccolsero nella camera, che era divenuta pro tempore mia, e da quel giorno non fui più solo (p. 8).
Si tratta di una testimonianza che non può essere sottovalutata. Ne emerge, da un lato, la consapevolezza, da parte di Gentile, di tratti generali della vicenda normalistica, come la funzione ‘nazionalizzante’ svolta da quella esperienza formativa rispetto a giovani provenienti da ambiti regionali e da dimensioni sociali e familiari diverse; dall’altro, è chiara la valutazione positiva della soluzione collegiale – fermissima poi anche nel Gentile maturo, e rifondatore della Normale – sul piano esistenziale come su quello dell’apprendistato, dell’accostamento al lavoro quotidiano e alle sue pratiche codificate, condensata anche nel ricordo del «debito» verso il solo accademicamente più anziano compagno Augusto Mancini (1875-1957):
Ognuno ha trovato lì qualcuno, che l’ha spronato e gli ha additata una via. Ma quando ero col Mancini, e lo vedevo tra le bozze di stampa dei lavori già compiuti e gli appunti che veniva con grande alacrità raccogliendo e distribuendo sempre metodicamente in varie rubriche, tra il greco di Eusebio che allora egli studiava e il tedesco delle monografie critiche che veniva compulsando, e che la Scuola Normale aveva acquistate appunto per i suoi lavori, come soleva fare per tutti, io che fino a ieri non avevo scritto che i miei componimenti e le mie traduzioni scolastiche, e non avevo mai guardato una pagina di tedesco, e non sapevo né anche che fossero le bozze di stampa, vedevo tra me e il Mancini, che pure mi pareva il sogno a cui anch’io avrei dovuto avvicinarmi, un abisso. E non ci dividevano che due anni di studi (p. 8).
Il rilievo biografico e intellettuale degli anni universitari pisani non può essere determinato, per Gentile, solo sul terreno del rapporto con gli insegnanti. Anche per quello che riguarda strettamente i tempi e le forme dello studio, l’individuazione di prime, embrionali coordinate metodologiche, l’insorgere, magari, di dubbi e di insoddisfazioni, lo sforzo comune, il confronto con i compagni di collegio e di corso fu importante. Le figure forse a lui più care furono allora quelle di Fortunato Pintor e Abdelkader Salza, entrati alla Normale nel 1894; e poi, lo si è citato, Mancini e, più giovani, Camillo Vitelli – tragicamente scomparso, e al quale Gentile avrebbe dedicato nel 1908 un sobrio e sentito ricordo –, Gioacchino Volpe, Lombardo-Radice, per menzionare solo alcuni nomi. Ed è necessario, per ricostruire i passaggi di una precoce e ricca elaborazione culturale, oltre che della maturazione di una personalità, seguire nel loro intreccio cronologico, e non solo nella singolarità dei vari dialoghi, le corrispondenze con i maestri e con i compagni, collegandole alle prime prove scolastiche, e ai frutti conclusivi di quell’intenso quadriennio universitario.
Sul dato istituzionale occorre insistere. A Pisa Gentile non transita attraverso l'Università e la Scuola Normale: quella esperienza è in effetti costitutiva, dà forma a una cultura, si sedimenta abbastanza rapidamente in un primo nucleo – mai completamente rinnegato, mai dissolto nella più tarda e matura urgenza speculativa volta al primato dell’identità – di riflessioni pedagogiche e metodologiche alimentate da fonti distinte. In una nota, bella lettera dalla Sicilia a Pintor del 3 ottobre 1895, Gentile trovava espressioni sulla vita universitaria che connotano sin dalle origini un rapporto con quella sfera ben diverso, per es., da quello spesso sprezzante e ironico che avrebbe contraddistinto le posizioni di Benedetto Croce. Prendendo spunto da una battuta su Francesco Flamini, allora ancora a Pisa, e in procinto di passare a Padova, e sulle «sue papaveriche tirate […] lezioni-orologio, alle quali peraltro ho imparato assai, e provato non piccolo diletto», Gentile proseguiva:
Oh! come desidero spesso di ritornar presto a quei banchi, sfregiati dal vandalismo studentesco, e a quelle lezioni, che ci annoiano talora mortalmente, ma per lo più ci procurano ineffabili palpiti d’entusiasmo e ci accendono l’animo di amore immenso alla vita. Quello Zambaldi, quel D’Ancona, quell’Jaja! Quante volte alle loro lezioni non mi sono io distratto per divagarmi più e più colla suggestione di essi, che parlavano, e sono andato sognando se non fosse davvero desiderabile rimanere sempre scolari, colle speranze sempre dell’avvenire, coll’emozioni sublimi del presente! Io la sento, con tutto l’animo, nel freddo delle aule, non nel caldo dell’Ussero, la vita studentesca: e le Memorie di Pisa del Giusti, tanto decantate, mi son sempre apparse più pedantesche della pedanteria, che vi si vuol flagellare. Non piace anche a te di tornar presto alla nostra alma mater? (Gentile a Pintor, 3 ott. 1895, in Giovanni Gentile e il Senato, 2004, pp. 21-22).
Anche al netto delle effusioni sentimentali, la piena partecipazione a un comune lavoro, l’adesione all’opera degli insegnanti, appaiono piuttosto evidenti. C’è un’indubbia asimmetria fra il peso avuto dai tre professori che Gentile avrebbe menzionato nel 1914, e quello di altri docenti incontrati negli anni universitari; ma non si dimentichi che Gentile, secondo un preciso codice accademico, commemorava allora gli scomparsi, mentre alcuni dei suoi antichi insegnanti erano ora suoi colleghi.
L’impronta curricolare di D’Ancona (1835-1914) sulla prima fase degli studi di Gentile fu forte, com’era forte, in quel momento, la sua posizione accademica, fra la cattedra a Roma e la direzione, appena assunta, della Normale. Il D’Ancona incontrato da Gentile era anzitutto, in senso lato, un uomo di scuola. Avviata nel 1892 la pubblicazione del grande Manuale della letteratura italiana, fondata nel 1893 la «Rassegna bibliografica», marcatamente orientati i suoi studi verso la storia culturale e civile del Risorgimento, D’Ancona poteva presentarsi allora come uno dei più autorevoli interpreti – oltre che, almeno in parte, come un testimone – della tradizione intellettuale nazionale. E Gentile fu suo allievo, suo collaboratore in quelle importanti imprese scientifico-editoriali. Collaboratore e interlocutore, estensore non docilissimo del capitolo riservato a Giambattista Vico nella nuova edizione del Manuale, inascoltato sollecitatore di una inclusione antologica di Bertrando Spaventa, recensore, nel 1904, del Manuale stesso, del quale non mancava di sottolineare incongruenze nelle scelte e problemi relativi alla destinazione e all’uso scolastico dell’opera. E il Risorgimento danconiano non rimase, per Gentile, mera evocazione di un sopravvissuto. Tornando nelle aule pisane, l’evidenza documentaria è eloquente. Come tema di esercitazione normalistico per l’anno accademico 1893-94, compilato in poche settimane dopo il suo arrivo e consegnato a D’Ancona a metà gennaio del 1894, Gentile svolse “Rosmunda”. Tragedia di Giovanni Rucellai; al secondo anno, con lavoro concluso nel febbraio 1895, e accostandosi all’argomento poi prescelto per la tesi di laurea, la relazione scritta fu dedicata agli Studi letterari di Vincenzo Gioberti; la tesi di licenza, alla fine del primo biennio universitario, sulle commedie di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca, fu pubblicata negli «Annali» della Normale. Non possono essere trascurati alcuni dati esterni, come la prevalenza dell’asse culturale filologico-letterario nel regolamento delle facoltà di Lettere, e l’eventuale possibilità, per chi conseguiva il titolo biennale della licenza, di accedere ai livelli inferiori dell’insegnamento secondario; e viste le condizioni familiari di Gentile, e la preponderante presenza di cattedre letterarie, si trattava comunque di un potenziale investimento. Fra le altre composizioni scolastiche di Gentile sono da ricordare un saggio sul Romanticismo, e quello di argomento medievistico sulle Leggi suntuarie nel Comune di Pisa, intervento al seminario di Crivellucci dell’aprile 1894; varrà anche la pena notare che fra il 1895 e il 1897 Gentile trattò più volte, brevemente, di temi medievistici, con riferimento a vari aspetti della vita sociale pisana, ma anche a temi che erano al centro delle ricerche e delle preoccupazioni etico-politiche di Crivellucci, fiero neoghibellino e anticlericale, come la storia della giurisdizione ecclesiastica, o il problema del nesso fra il primato papale e la sede romana. A Crivellucci, pur nella variabilità degli umori di uno studente molto impegnato, Gentile guardava con ammirazione, come risulta da una lettera a Jaja in margine alle discussioni sulla natura e il concetto della storiografia:
Io sono assetato di verità; e vedo che tutti intorno a me più o meno, mentiscono. A scrivere l’articolo m’ha invitato il Crivellucci, che poi l’ha approvato pienamente. Il Crivellucci è un uomo: ma, appunto perciò, è un solitario in Italia […]. E per questa sua nobile schiettezza io amo assai il Crivellucci (Gentile a Jaja, 10 ott. 1898, in Gentile-Jaja. Carteggio, a cura di M. Sandirocco, 1° vol., 1969, p. 206).
È assai dubbio che Crivellucci, poco incline all’elaborazione e alla discussione teorica, abbia seguito da vicino Gentile nel percorso che, in margine a Croce ma anche staccandosi da questi, lo avrebbe condotto a confutare la riduzione crociana della storiografia sotto il concetto generale dell’arte; ma, come per quel che concerne l’accostamento di Gentile al marxismo, ebbe in quegli anni un ruolo non trascurabile. Più aperta, dal punto di vista storiografico, la questione del rapporto con Jaja, fra dimensione affettiva, indicazione di un campo di studi ed evocazione di una tradizione, specifici apporti speculativi e nessi con l’elaborazione delle posizioni più mature. La posta in gioco non è irrilevante, riguardando la genesi e i caratteri dell’attualismo. Sul primo dei temi menzionati, in realtà, la documentazione è univoca e abbondante. Già a proposito del secondo il discorso si potrebbe allargare. Il contatto del giovane Gentile con i testi e le questioni che avevano segnato le cronache e la storia della filosofia italiana nei decenni precedenti non avvenne certo solo attraverso l’insegnamento e la memoria di Jaja. Le stesse modalità di recupero dei testi, come mostra in modo non equivoco il lavoro svolto attorno a Spaventa, portano anche un chiaro segno danconiano, ammesso da Gentile in una lettera a Croce del marzo 1898 nella quale parlava, proprio a questo proposito, di «quella certa felice curiosità di ricerca, che m’aveva già comunicato l’insegnamento letterario e storico di Pisa» (Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 1° vol., 1972, p. 78). Molteplicità di percorsi, questa, che rende problematica la presentazione di uno svolgimento tutto teoretico e in sostanza endogeno. Si può insomma concordare con quegli interpreti, come Alessandro Savorelli, che spostano più avanti nel tempo, rispetto alla prima stagione degli studi, la definizione delle coordinate filosofiche dell’attualismo, riferendo questa definizione anche all’intrecciarsi di altre, più articolate sollecitazioni teoriche, a partire dal pensiero crociano; scelta che non implica affatto un ridimensionamento della originaria, costitutiva passione filosofica gentiliana, mentre pone in primo piano anche alcune strutturali divergenze di prospettiva.
Gentile studia a Pisa, e vive in un collegio, negli anni del crispismo e di Adua. Le testimonianze coeve sulle sue convinzioni politiche non sono numerosissime, ma se ne traggono indicazioni abbastanza chiare. In un contesto studentesco ancora largamente orientato in senso radicale e filosocialista, Gentile non dovette nascondere i propri diversi sentimenti politici, e il ricordo di animate discussioni nei locali della Normale traspariva ancora nel 1908. D’Ancona aveva aperto alla Normale una sala di lettura, dotata di riviste di cultura e giornali politici, dichiarando di apprezzare negli allievi l’apertura alle sollecitazioni della contemporaneità, ma esortandoli anche
a non perdervi troppo tempo e a non mettervi troppo interesse, perché non ne avrebbero sofferto solo i nostri studi, ma anche l’animo nostro […]. Quelle parole furono ascoltate con religioso raccoglimento, e applaudite vivamente. Ma poi non riuscimmo a ricordarcele sempre; e le dispute politiche, specialmente quelle intorno al Crispi, non furono sempre spassionate e libere, né tutte pacifiche (La preparazione degli insegnanti medî, cit., p. 11).
Non pacifiche, certamente, ché attorno ai «luttuosi fatti d’Africa» quei giovani erano passati alle vie di fatto. La lettura danconiana del Risorgimento e della storia italiana recente, affidata anche ai profili biografici stesi per il Manuale, certamente pesò su Gentile: rivendicazione dell’eredità cavouriana, letta però in chiave sempre più moderata, caduta della Destra nel 1876 percepita come profonda e negativa cesura, sorvegliato laicismo che, in una figura come D’Ancona, non lasciava però spazio a manifestazioni volgari di anticlericalismo e non era affatto disgiunto da preoccupazioni di natura religiosa. E quando, verso la fine del 1900, si accese una discussione politica fra D’Ancona e Pasquale Villari – che Gentile aveva incontrato, rimanendone negativamente colpito, durante il suo anno di perfezionamento fiorentino – a proposito dell’opportunità, nel nuovo clima politico successivo al regicidio, di trovare dei punti di contatto con il movimento socialista, Gentile si sarebbe schierato con D’Ancona contro le aperture suggerite da Villari.
Il percorso di Gentile su quei banchi, e le relazioni intrattenute con i suoi docenti, sono stati oggetto di varie indagini, che consentono di presentarne in rapida sintesi alcuni tratti salienti. Il primo, anzitutto: com’era d’uso alla Normale e nei seminari pisani, si pubblicava ben prima della laurea, e Gentile fu, durante il quadriennio universitario, piuttosto attivo. In primo piano, lo si è detto, stanno le riviste fondate e animate dai professori: gli «Studi storici» di Crivellucci, soprattutto, e poi la «Rassegna bibliografica della letteratura italiana» di D’Ancona, e gli «Annali» della Normale, appositamente creati per offrire agli allievi la possibilità di pubblicare i loro primi studi, le tesi di laurea, in particolare. Ma Gentile mantenne, in quel periodo, anche i suoi legami con Castelvetrano, collaborando a una locale rivista di cultura, «Helios», di iniziale orientamento radical-positivistico, che da Pisa – come ha mostrato Gabriele Turi (1995) – cercò di usare come «mezzo di rinnovamento nel panorama culturale siciliano» (p. 36), impegnando suoi compagni di studio, come Salza e Lombardo-Radice, e destinandole non solo articoli di argomento soprattutto letterario, ma anche spogli, cronache, segnalazioni bibliografiche.
Poi, i trapassi culturali, e la precoce consapevolezza di dinamiche in atto, maturata proprio grazie a questa prima immersione nel dibattito scientifico. Il giovanissimo Gentile, che aveva concluso in anticipo gli studi secondari, era giunto a Pisa con una formazione scolastica di indirizzo genericamente positivistico; lo riconosceva nella sua prima lettera conservata a Jaja, scritta durante le vacanze estive del 1894, e che illustra anche una già consolidata consuetudine personale:
Della sincerità di queste mie parole son certo che Lei non vorrà dubitare, e per l’altezza dell’animo suo, e per le prove anche, forse non rare, che per tutto un anno le avrò dato del mio carattere affettuosissimo e aborrente, d’altra parte, da ogni menzogna. Venuto alle sue lezioni con una certa qual prevenzione contraria alle teorie, che vi esponeva, io presto ho ammirato la sua mente, e presto mi son sentito tutto compenetrare di entusiasmo per quelle dottrine. Ma ben presto anche ho saputo scorgere il suo animo singolare […]. La tempra del suo cuore e del suo carattere, che io vedevo vivamente rappresentata nelle parole, sempre calde e sentite, con cui spesso ci parlava insieme di scienza e di educazione, non poteva non colpire tosto il mio spirito, che sempre era andato cercando quell’uomo, che allo ingegno profondo e poderoso riunisse un animo veramente eletto (Gentile a Jaja, 27 luglio 1894, in Gentile-Jaja, cit., pp. 1-2).
Questo rapporto assai stretto ebbe naturalmente implicazioni complesse. Ma bisogna intanto sottolineare il fatto che non si trattò di un’illuminazione unilaterale ed esclusiva, di una passione integralmente assorbente. In principio, anzi, era il metodo.
In un appunto molto più tardo, edito con il titolo di Pentalogo del normalista, Gentile avrebbe seccamente affermato: «Il possesso del sapere nella sua articolazione storica è filologia, nella scienza dell’uomo» (Simoncelli 1998, p. 48). Già nella tesi di laurea, con fare forse non troppo ortodosso, si era permesso di ironizzare sul «buon Ferdinando Ranalli, che fece sentire di poi le sue strane idee e i suoi non meno curiosi consigli in fatto di filosofia alle generazioni successive» (Rosmini e Gioberti, 1898, p. 49), quel Ranalli che aveva lasciato la cattedra pisana di storia meno di dieci anni prima dell’approdo di Gentile a Pisa, e che aveva già suscitato la malevola attenzione di Francesco De Sanctis. Contro la particolare tendenza, incarnata da Ranalli, arcaicamente classicistica e retorica, era venuto definendosi il codice dei maestri, l’erudizione e la critica di D’Ancona e Crivellucci; Gentile, che già da studente di quel codice non si contentava pienamente, lo sapeva però benissimo, e riconosceva a quel passaggio un valore fondante. Così, di nuovo, all’amico Pintor, il 3 ottobre 1895:
E fortuna per te che gli studi, a cui mi par che ti voglia dedicare, siano in gran fiore oggi in Italia, sì da non dover nulla invidiare alle altre nazioni; e fortuna maggiore che l’indirizzo presente della critica abbia già prevalso da tanto tempo, che debba prodursene fra non guari quei salutari e notevoli frutti che nell’ardore dell’inizio sono dovuti rimanere nel periodo della fioritura! Non sembra anche a te che debba essere vicino il tempo, in cui ogni specie di critica storica, lasciato di essere tutta sterile, com’è stata e come è, quasi per lenta preparazione ad una vera critica nuova da contrapporsi alla vecchia falsa or per uno, or per altro rispetto, si allarghi e si compia, e, cogliendo le conseguenze della ricostruzione storica, sorga alle leggi delle lettere nuove, che sono tanta parte dello spirito umano? (Giovanni Gentile e il Senato, cit., p. 18).
La separazione fra critici e scrittori, proseguiva Gentile, era in sostanza il prodotto di dinamiche scientifiche recenti:
Ho creduto appunto che […] ora ci sia e ci debba essere perché non è molto che s’è vista l’importanza dell’erudizione:
e gli uni vi si son volti con tanta passione, da non guardare nemmeno al fine a cui si dovrà spuntare; gli altri hanno disprezzato il passato tutti pieni della boria del presente. Ma è impossibile che si prosegua ancor molto nella completa scissione della gente letterata: la storia reagirà, vivi noi (lo spero), sul presente, così in lettere, come in filosofia e in ogni altro prodotto dell’ingegno degli uomini. Oh che dovrebbe essere tanto fiorire di studi storici e di metodo positivo una capricciosa determinazione di un secolo condannata a spengersi? […] Io son persuaso, che se avremo vita, noi siam destinati nel secolo venturo a cogliere i frutti del decimonono, che ha tanto ribollito in ogni ordine di fatti umani (pp. 18-19).
Anche in questo caso il trasporto amicale e l’ingenuità della forma non tolgono sostanza alle riflessioni gentiliane. Più preciso e determinato, per quel che riguardava il recente, positivo apporto della scuola storica, Gentile lo sarebbe stato di lì a poco, in pubblico, misurandosi con un articolo di Domenico Gnoli che, dalle pagine della «Nuova antologia», aveva criticato le tendenze prevalenti nell’insegnamento superiore, incapaci di suscitare negli studenti universitari di lettere, e futuri insegnanti secondari, un vivo sentimento artistico, inadatte a far loro «cogliere, nell’onda impetuosa e nei morbidi susurri della frase e del verso, le passioni traboccanti o le soavi agitazioni d’un’anima» (Moretti 1999, p. 84). «Helios» non era la «Nuova antologia», e Gentile era poco più di un ragazzo. A simili prese di posizione – che è bene conoscere nei loro termini testuali – reagiva però allora in modo deciso, avendo già presente, fra l’altro, il Croce della Critica letteraria. Questioni teoriche (1894), che cercava di far interagire con i coevi insegnamenti pisani; e derideva i
molti giovani, non so se più presuntuosi o poltroni, fidenti in una disposizione naturale spesso soltanto presunta, i quali vorrebbero a un tratto rifare il mondo co’ parti spontanei del loro ingegno, e sorridono innanzi ai severi e laboriosi ricercatori, che non intenderanno mai nulla. Il guaio è che la sintesi non viene che dopo l’analisi: e a cominciare dalla sintesi si fa opera tanto inutile, che deve necessariamente rifarsi, quando si pensa a tornar da capo e a cominciar dall’analisi. Ora fra tante preoccupazioni, che agitano la vita moderna e la nostra, specialmente, in Italia, non è davvero il tempo delle chiacchiere (Moretti 1999, p. 86).
Nella replica gentiliana si attribuiva un ruolo fondamentale alla dimensione formativa. Su questo punto l’eredità di D’Ancona avrebbe dato luogo alla costruzione, che non fu certo semplice trasmissione passiva, di un articolato modello pedagogico; e questo sarebbe rimasto uno degli acquisti di fondo, un lascito permanente degli studi pisani di Gentile: lavoro critico, non «chiacchiere», pensando sia alla scienza, sia alla scuola. Nel 1908 il punto sarebbe stato ripreso in modo molto diretto ed efficace:
Altri più tardi protestò contro l’indirizzo erudito prevalso nell’insegnamento della letteratura nelle università. E certo non si può negare che in molte nostre università l’erudizione si sia indugiata tanto nel vestibolo dell’opera d’arte, da non penetrare mai, anzi dimenticarsi di dover poi penetrare nel tempio […]. Ma, bisogna badar sempre che la letteratura (che è materia di studio distinta dall’estetica, in quanto filosofia, e però studio dell’eterno) non può trovarsi, se si vuol trovare, fuor della storia. E lì quindi bisogna andare a cercarla con tutti i mezzi che la storia offre a chi voglia percorrerla, e il cui complesso è appunto l’erudizione – o, come si disse in quegli anni di reazione alla critica vuota e accademica dei retori, la critica (La preparazione degli insegnanti medî, cit., p. 2).
Soprattutto, non si trattava di una scelta metodica confinata in uno specifico campo disciplinare:
Egualmente, il metodo storico s’imponeva per gli esercizi scritti e le dissertazioni degli alunni di filosofia, poiché le menti dei giovani appena iniziati a questi studi non potevano esser capaci di soluzioni originali di problemi, che hanno una lunghissima storia, la cui conoscenza è condizione imprescindibile di ogni eventuale originalità. E la storia quindi, lo studio dei classici della filosofia, doveva fornire gli argomenti a questi primi lavori, se questi dovevano esercitare con sincerità e con profitto le attitudini speculative degli alunni [...]. Per insegnare bisogna posseder bene quel che s’ha da insegnare: bene in qualità, non in quantità. Avere idee ben chiare, criticamente vagliate, atte a giustificarsi, dell’argomento della lezione. E come queste idee s’acquistino il professore universitario l’insegna appunto col suo metodo critico, che muove dalla cognizione della bibliografia completa su ciascuna questione, e procede all’esame dei testi, alla discussione della letteratura a cui essi han dato luogo, fino alla formazione di un’opinione propria, che paia la più accettabile allo stato attuale delle questioni, come si dice (pp. 4-5).
Non occorrerà insistere oltre a questo proposito. Bisognerà piuttosto notare che, in margine a questi spunti, si poneva per Gentile un problema di altra natura, e che avrebbe avuto altri sviluppi. Nella replica a Gnoli, Gentile aveva respinto l’accusa circolante di servilismo intellettuale rivolta ai sostenitori del metodo storico, piattamente esterofili, si diceva, e germanofili; per Gentile, invece, «vera culla» della critica storica era stata appunto l’Italia, come avrebbe ancora scritto, in modo molto più cauto, nel 1902. Il ripensamento sui tratti tipici, sugli snodi, sui punti di forza della tradizione culturale nazionale si sarebbe però orientato in direzione ben diversa. L’accenno, invece, alla dipendenza da modelli stranieri riconduce al punto di vista assunto dal giovane Gentile a proposito delle tendenze culturali del suo tempo, alla percezione, che era in fondo anche aspettativa, della fine di una stagione.
Non contraddicono le pacate riflessioni del 1908 alcune asprezze che emergono nel confronto immediato con i professori attorno alla conclusione del suo ciclo di studi, in una cronaca mossa che va distinta da un più definibile bilancio d’insieme. Fra gli episodi di maggiore interesse si può ricordare, fra la fine del 1898 e l’inizio del 1899, la disputa attorno al testo di una recensione degli Scritti vari inediti o rari di De Sanctis allora pubblicati da Croce, che D’Ancona aveva commissionato a Gentile rimanendo però insoddisfatto a causa dell’evocazione, in quelle pagine, di controversie di scuola che riteneva inopportune. Questa disputa avrebbe occupato anche parte cospicua della coeva corrispondenza con Jaja, intrecciandosi ai dissensi sorti fra Gentile e Crivellucci a proposito dei giudizi su Villari che segnavano la prima parte del saggio gentiliano sul Concetto della storia. La recensione e il saggio sarebbero stati pubblicati entrambi nel 1899, la prima nella «Rassegna bibliografica» di D’Ancona, il secondo negli «Studi storici» di Crivellucci; e qualche spigolo Gentile dovette smussarlo. Ma è in particolare la tesi di laurea a contenere, in questo senso, tracce indicative. Non è certo necessario sollecitare il testo per cogliere la polemica analogia fra le fortune settecentesche del sensismo francese in Italia e quelle che,
in tempi a noi più vicini, non ne abbia incontrate un’altra famosa dottrina, grazie alle manìe di quell’eterna schiatta pappagallesca, che guarda sempre fuori più per informarsi della moda, che per vero stimolo che senta dentro di progredire (Rosmini e Gioberti, cit., p. 8).
Anche in questo caso, del resto – come, implicitamente, per taluni portati della scienza positiva –, alla critica si accompagnava il riconoscimento:
E ad ogni modo si dee convenire che anche il sensismo francese dovette essere il benvenuto fra noi, che correvamo dietro a un cartesianismo o malebranchismo imparaticcio o ad un male svecchiato aristotelismo (pp. 8-9).
Ma davvero rivelatore dello sguardo gentiliano sulla contemporaneità era un altro passo giocato sull’analogia, lì dove Gentile si soffermava sulla svolta culturale ottocentesca e romantica, con il «rialzarsi e il rinvigorirsi del concetto religioso»:
E ormai ci potrebbe essere di utile ammonimento una nova reazione che da parecchi anni vediamo insorgere attorno a noi, e di cui la recente controversia sui pretesi fallimenti e disfatte della scienza non è che uno e non il più importante episodio [...]. E in verità, mutatis mutandis, oggidì si riproducono a così breve intervallo le condizioni ideali del principio del secolo (p. 30).
Bancarotta fino a un certo punto, beninteso, ché si trattava semmai di necessario riequilibrio fra esigenze e tendenze – «Non è già che il rigore severo delle scienze naturali sia incorso in una disfatta, di che il vero procedimento scientifico non ha giammai da temere» –, e venivano manifestandosi anche forme di «idealismo anacronistico» (p. 32). In ogni caso, anche Ferdinand Brunetière e la «Revue des deux mondes» animavano dunque la revisione del paradigma storico-erudito che segnava in particolare la prima parte del Rosmini e Gioberti, accanto alle sollecitazioni critiche e metodologiche crociane – la prima lettera di Gentile a Croce, del luglio 1896, era stata del resto originata dal consenso crociano per la qualità e la misura dell’erudizione riversata da Gentile nella sua tesi di licenza sul Lasca –, all’approfondimento – via Jaja, ma non conformandosi passivamente a questi – della recente vicenda filosofica italiana, alle letture di ambito marxiano, sollecitate anche da Crivellucci, che per suo conto recensiva proprio in quegli anni Antonio Labriola. Alcune osservazioni di Gentile, in effetti, sembrano avere un destinatario preciso, come quella riguardante la necessità, per cogliere lo sfondo dell’elaborazione filosofica giobertiana, di una
buona storia di questo gran fatto letterario, onde s’inizia rumorosamente, rispetto alla cultura, anche in Italia il secolo presente: la controversia classico-romantica. – Ma cotesta storia, pur troppo, non c’è ancora, e non è d’altronde facile farla, poiché non importa già un semplice lavoro paziente di bibliografia o tutt’al più una disposizione e un ordinamento di date, come altri crede, ma implica tutto un grave problema filosofico (p. 19).
Da questo punto di vista, proseguiva Gentile, mettendo bene in evidenza le scelte di fondo che sostenevano la sua ricostruzione, la «seducente curiosità de’ precursori e de’ precedenti», in qualche misura legittima, avrebbe però potuto rivelarsi fuorviante, se avesse condotto a una percezione sfocata dei caratteri specifici di quel movimento:
lo stesso bisogno dello spirito, riaffacciandosi in tempi diversi, come in diversi luoghi, vi acquista impronta e sembianze speciali, e notevolmente si differenzia. Basta questa semplice osservazione […] per farci vedere nel moto romantico sviluppatosi fra noi principalmente nel secondo decennio del secolo e per occasione d’impulsi forestieri, un fatto nuovo, che si riconnette con disposizioni ideali proprie del tempo, ne trae le sue più riposte cagioni, e vi riflette su la sua efficacia (pp. 19-20).
Affermato dunque preliminarmente, in nome della «aspirazione alla libertà», il nesso fra romanticismo e idealismo, si trattava, secondo Gentile, non di seguire nel dettaglio tutte le articolazioni concrete del dibattito, di ricostruirlo in tutti i suoi aspetti:
Di questi spetta, forse, alla storia letteraria occuparsi: noi dobbiamo guardare a’ principj fondamentali delle dottrine, in quanto sono per noi evidenti manifestazioni del generale movimento del pensiero (p. 21).
Scelta netta, questa, e assieme manifesto storiografico, che andrebbe in fondo scomposto per coglierne stratificazioni e punti di riferimento. Anche D’Ancona, per es., aveva guardato con grande interesse alla linea giobertiana; e anche se più marcatamente antirivoluzionario e antigiacobino del maestro, Gentile non confondeva certo, allora, la reazione spirituale di inizio Ottocento con il reazionarismo politico. Ma nell’atto conclusivo del suo percorso universitario Gentile manteneva un atteggiamento intellettuale di inclusione – asimmetrica, ordinata – rispetto a molte delle sollecitazioni ricevute in quegli anni. In una lunga lettera del 1897, Jaja lo aveva ammonito:
Dàtti ora a squadrare il campo ricco delle passate filosofiche ricerche […]. Te lo raccomandai a Pisa, fin consigliandoti a non disperderti ora in lavori di piccola importanza, che ti possono essere chiesti come alimento di periodici letterari o scientifici. Fissati dapprima nei centri sommi della speculazione filosofica […]. Oggi voglio dirti una cosa di più, ed è, che questa unità somma e massima non la si trova nella storia, come la vanno cercando, se pungolo vi è in loro a cercarla, molti dei fautori e caldeggiatori del così detto metodo storico […]. Quella loro storia è la storia morta, non la viva (16-26 sett. 1897, in Gentile-Jaja, cit., pp. 32-33).
Il professore mostrava in questo modo una sintonia non compiuta, solo parziale, con l’allievo. Per Gentile non si trattava di apparire, o di alimentare riviste; né i suoi studi storico-letterari, le riflessioni sulla storia, le pagine marxiane erano diversivi o distrazioni, ma aspetti di una fisionomia intellettuale in via di costituzione, e sostanza di pensiero.
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